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Autore: r_clarisse    05/05/2016    1 recensioni
Africa, 148.000 aC.
Due ragazzi innamorati, David e Steven, contemplano la bellezza del loro nuovo mondo dopo quattro anni di esodo nella Flotta Coloniale.
Il loro viaggio è terminato e ricominceranno da capo, a partire da quel momento, insieme.
David racconta in prima persona la loro storia, la loro vita insieme nelle Dodici Colonie e la corsa disperata per la sopravvivenza dopo la loro distruzione per mano dei Cyloni.
Non ha la pretesa di essere un grande racconto, ne un'opera di fantascienza, ma spero possa far trasparire in qualche modo quella che è la semplicità dell'amore che può unire due persone, attraverso lo spazio e il tempo.
"Eravamo finalmente a casa, la nostra nuova casa, e non dovevamo più scappare.
Certo, avremmo dovuto ricominciare da zero in un nuovo mondo, ma questo non mi spaventava; non mi spaventava la mancanza di cibo, il doverci arrangiare, il costruire tutto da capo.
Dopo quello che avevamo passato sarebbe stato sciocco preoccuparsi per il futuro.
Sapevo che ce l’avremmo fatta."
Genere: Drammatico, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Quasi Tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 8 – Consapevolezze

8.1 – “Miracoli e capelli bianchi”
Stamattina sono andato al fiume insieme a Cassie ed altri del nostro gruppo per lavare i nostri vestiti: non avevo mai fatto il bucato a mano –in un corso d’acqua, poi!- prima di arrivare su questo mondo verde e azzurro; un po’ mi manca avere una lavatrice automatizzata, con temperatura regolabile e possibilità di lavare a secco; mi manca l’ammorbidente e il profumo di fiori del detersivo… ma in fondo, non è così male nemmeno questo.
Lo facciamo da mesi ormai, come facevano i nostri antenati una volta: con i jeans rimboccati e delle spugne in mano che sfreghiamo sugli indumenti sporchi per eliminarne le macchie con il solo ausilio di acqua fredda e incontaminata.
Cassie era davvero radiosa oggi: il vento scompigliava i suoi lunghi capelli castano chiaro con una curiosa armonia, quasi come se sapesse come dovesse farlo per risaltarne la bellezza.
Sulle punte, le rimanevano ancora sette centimetri di schiaritura, risalenti a quando si era tinta i capelli l’ultima volta, più di un anno prima, ancora sulla flotta, nello spazio.
Io dovetti smettere di tingermi i capelli una volta giunti su New Caprica: il prezzo del cibo e dei pochi beni primari rimasti era alle stelle e di certo non potevo permettermi di sprecare denaro in cose superflue come il colore dei miei capelli. Mi mancano i capelli biondi, mi ricordano l’inizio del periodo più felice della mia vita. Ma era solo l’inizio, perché in realtà quel periodo, tra alti e bassi –a volte molto bassi- dura ancora.
I denti bianchissimi nascosti tra le rosate labbra carnose spuntavano, ogni tanto, dallo scrigno che li proteggeva, illuminando il sorriso di quella dolce ragazza di Sagittarian con la quale avevo per anni mantenuto un rapporto a distanza interplanetaria tramite computer; non avrei  mai immaginato che l’avrei incontrata per la prima volta il giorno dopo gli attacchi alle Colonie, nel centro di smistamento allestito a bordo della Rising Star, nella flotta dei sopravvissuti.
Lo ricordo ancora: era un venerdì pomeriggio –nel calendario standard delle Colonie, nonostante ci trovassimo nello spazio- e lei era di spalle, appoggiata ad uno scaffale di ferro pieno di scatoloni, nel bel mezzo di un attacco di panico; Steven era accanto a me ed io mi tenevo stretto al suo braccio, mentre attorno a noi decine di persone correvano avanti e indietro nei corridoi di quell’astronave medica, cercando disperatamente di trovare i propri cari tra i superstiti recuperati dall’attacco, allettati in infermeria. I Cyloni avevano appena attaccato la flotta, e la nave su cui ci trovavamo aveva subito danni superficiali allo scafo esterno. I contraccolpi facevano tremare le lampade appese al soffitto che ora funzionavano ad intermittenza, ed alcuni scatoloni erano caduti dagli scaffali.
La riconobbi per via del braccialetto che portava al polso sinistro: un legaccio nero con un cuore di metallo grigio al centro; ne avevo uno identico, che lei stessa mi aveva regalato e spedito l’anno prima tramite il servizio postale intercoloniale, con annessa una cartolina di Tawa, la capitale del suo pianeta.
E’ stato quattro anni fa.
E stamattina ci trovavamo in riva ad un fiume su un pianeta lussureggiante a lavare i nostri panni, come formiche laboriose che si impegnano per il bene della propria collettività.
“Come sta Jake?” Le ho chiesto mentre passavo la mia spugna ad Andrew Trevors, rimasto senza per colpa della corrente che gliel’aveva portata via.
“Bene, molto bene.” Ha risposto ridendo. La sua risata spensierata che avevo sentito solo per telefono per diversi anni.
“Perché ridi?” Iniziavo a divertirmi anche io.
“Oh niente, è che a volte penso che abbia davvero il senso dell’umorismo, davvero tanto!”
“Eh menomale, sai che noia altrimenti? Stare con un frak di musone lunatico?” e ho riso anch’io.
“Però continuo a non capire come mai ne sei divertita.”
Ci siamo seduti per qualche istante sull’erba, poco fuori dai fiotti dell’acqua limpida che ci scorreva sotto i piedi; lei si è passata una mano tra i capelli, illuminati da nuovi riflessi tendenti al biondo miele, regalatigli  dalla luce del sole piuttosto intensa alla quale eravamo ormai spesso esposti, in quella calda terra erbosa. Persino io cominciavo a prendere un  filo di colore sulla mia pelle normalmente sempre pallida. Ma solo un filo.
“Lui dice che in realtà non glie n’è mai fregato un fico secco di studiare legge.”
“Ah no?”
“No. L’ha fatto solo perché su Libran sono quasi tutti avvocati.” Si è fermata un secondo “…erano quasi tutti avvocati.” Si è corretta.
“Ma in realtà il suo sogno era…” E qui è scoppiata a ridere di nuovo.
“Era?” Ho chiesto incuriosito.
“Ammaestrare scimmie!” il tono della risata si faceva più alto.
“Oh… però, non me l’aspettavo!”
Lei e Jake si erano conosciuti poche settimane prima che la flotta trovasse New Caprica e vi approdasse, facendoci sperimentare un nuovo tipo di sofferenze che il –al tempo- presidente Baltar avrebbe mascherato con il nome di “Sogni per il futuro”. Un disgraziato.
Una coppia decisamente improbabile agli occhi di molti: lei del povero mondo di Sagittarian, lui dal paludoso ma fortemente istituzionalizzato pianeta di Libran, sede della Corte Intercoloniale, il complesso di tribunali più importante di tutte le Colonie. Lei figlia di genitori bigotti e fondamentalisti, lui generato da una famiglia di gente in carriera con nient’altro che il lavoro in testa.
“Scusate..” una pacata voce femminile ha timidamente chiesto; abbiamo alzato gli occhi verso di lei: se ne stava lì, alta, snella, bellissima, con uno sguardo incerto, un sorriso che celava una certa preoccupazione per il fatto di averci disturbati, una testa piena di capelli mossi e di un biondo perlato, praticamente bianchi. L’abbiamo guardata per un attimo prima di riconoscerla.
“Io mi chiamo Sonja…mi chiedevo se aveste una spugna da prestarmi… la mia è completamente consumata…”
Era una di loro.
Un Cylone.
Una numero sei, la numero sei che era stata eletta rappresentante della base stellare dei Cyloni ribelli, per la precisione. Identica a tutte le altre sei, a tutte le altre copie del suo modello.
La donna che per anni avevo visto in sogno, molto tempo prima della distruzione dei mondi.
Incredibilmente umana all’apparenza, come ogni individuo della sua specie.
Ancor più incredibile, è pensare che quegli stessi Cyloni che noi creammo e che avevano cercato di sterminarci… ora convivono con noi, pacificamente, su questo pianeta.
Il ciclo della violenza e dell’odio si è chiuso; abbiamo lasciato da parte i rancori.
I Cyloni si sono ricongiunti con noi, loro vecchi creatori; i figli dell’umanità, che erano insorti, ora ne respirano, di nuovo, la stessa aria.
Se non è questo un miracolo, non so cosa lo sia.
L’oracolo Pythia, tra gli scrittori delle Sacre Pergamene, disse  migliaia di anni fa che “tutto questo è già accaduto ed accadrà di nuovo”, una visione decisamente assolutistica e limitante della vita, se ci pensiamo: la vita non sarebbe altro che un cerchio, un continuo susseguirsi di  una serie di eventi sempre uguali.
Gli stessi progressi, gli stessi errori, le stesse imprese, destinate a ripetersi per tutta l’eternità, in diverse combinazioni, ma pur sempre allo stesso modo… ma se si fosse sbagliato? Se Pythia avesse visto male? Se il ciclo fosse cambiato? Se fosse così, se davvero è così, oggi, noi e i Cyloni stiamo scrivendo –insieme- un nuovo capitolo nella storia. Non solo nella storia dell’umanità, ma dell’esistenza stessa, e del concetto di accadere.
“Certo!” Ho teso la mano offrendole la mia spugna “Non si preoccupi, la prenda!”
Lei si è chinata con molta grazia per riceverla.
“Grazie di cuore!” Ha detto assumendo un’espressione che faceva trasparire una profonda gratitudine. Una così grande riconoscenza per un gesto così piccolo: alcuni di loro fanno ancora fatica ad adattarsi alla vita tra noi umani, ma a piccoli passi si sistemerà tutto.
E’ addirittura probabile che un giorno i nostri discendenti li considerino umani quanto noi, non ricordandosi la realtà della loro natura cibernetica, ne ricordandosi dell’olocausto da loro messo in atto che quasi annientò la nostra razza.
Si è allontanata mentre il vento le scompigliava i capelli lunghi fino alle spalle, e la luce rendeva ancora più chiaro il loro colore.
“Riesci a credere che lei sia una di quelli che hanno distrutto i nostri mondi? Che sia colpa sua se siamo qui?” Ha sussurrato Cassie mentre la guardavamo unirsi agli altri.
Sono rimasto in silenzio per un attimo, per poi rispondere esitando
“Per colpa sua… o è grazie a lei…” Cassie si è voltata verso di me.
“Non lo so più come devo vederla questa cosa, non lo sa nessuno…” Ho ripreso accennando una leggerissima risata. Cassie ha sorriso ed abbassato lo sguardo.
“Per una frase simile la Roslin mi avrebbe fatto buttare fuori da un boccaporto, se fosse ancora qui.” E scoppiammo a ridere.

8.2 –“Ricordi e astronavi”
Jennifer nacque cinque anni prima della fine della Guerra Cylone, venendo alla luce in un momento particolarmente oscuro della nostra storia. Molto spesso mi raccontò della sua paura, e della paura di sua madre e di suo padre; ricordava vividamente il rumore delle divisioni aeree di viper sfrecciare in cielo e anche le immagini di distruzione mostrate ai notiziari televisivi ogni giorno. Ricordava la penuria di risorse; mi diceva che il loro riscaldamento era sempre stato spento da che ne aveva memoria, e i suoi vestiti erano sempre gli stessi, rattoppati e ricuciti.
Si irrigidiva sempre quando mi narrava storie risalenti ad allora, e lo posso comprendere, specialmente con il senno di poi, dato che ho vissuto l’esperienza di una guerra anche io.
Tuttavia si potrebbe dire che in qualche modo Jennifer sia stata tra i più fortunati in quel periodo: Virgon fu uno dei mondi meno toccati dalla distruzione causata dal conflitto che perdurò per dodici anni; il pianeta uscì quasi illeso dalla guerra, cavandosela con una piccola serie di attacchi più o meno a metà del primo anno di ostilità. Le sue città non vennero messe a ferro e fuoco come successe sulle altre undici colonie, e i Virgani subirono meno vittime di qualunque altro popolo. Certo il pianeta non fu risparmiato dalla povertà e dal crollo monetario, ma quanto meno gli abitanti se la cavarono stringendo un po’ la cinghia.
I miei genitori nacquero entrambi negli ultimi mesi della guerra, perciò non avevano memoria di quell’antico terrore, ma Jennifer… oh, Jennifer lo ricordava,
Lo ricordava eccome.

“Le strade erano sempre deserte, vedevi appena una o due macchine in giro di giorno, di sera nemmeno…”
Mi raccontò un giorno poiché le avevo detto che la professoressa di storia ci aveva parlato della guerra quella mattina.
“Avevamo paura. Avevamo tutti paura, la mia scuola era aperta solo due giorni a settimana e mamma non voleva che stessi in giardino da sola. Non evacuarono la nostra città perché Virgon non era quasi mai stato attaccato…”
Non so per quale motivo, ma era a queste parole che pensavo mentre me ne stavo seduto su un sedile accanto al finestrino nella terza fila a destra in prima classe, sulla nave da trasporto passeggeri 9805. La nave da trasporto passeggeri 9805, la cui destinazione era il Porto Spaziale Interplanetario di Boskirk, la capitale di Virgon.
Erano trascorsi due mesi dal pomeriggio in cui Steven mi aveva proposto di trasferirci. Volati.
Andammo al cinema con i suoi amici a vedere Mary Trace Griffit quella sera; fu una piacevole serata, e come ogni volta, mi trovai molto a mio agio in quella compagnia tanto variegata e ben assortita. Eppure, nonostante l’atmosfera gradevole che si creò come sempre, mi trovai sollevato dalla realtà, come se la mia mente fosse altrove. E lo era davvero in effetti! Continuai a pensare alle parole di Steve e al mio “si, facciamolo” come se si trattasse di una cosa comune e leggera.
Tre ore prima passeggiavamo lungo una strada asfaltata in cima ad una collina progettando di trasferirci su un altro pianeta, ed ora ce ne stavamo seduti sulle poltroncine nere di un cinema a chiacchierare e ridacchiare con degli amici che erano del tutto ignari delle nostre intenzioni.
Tutti a parte Chris e Jeremy, i suoi due più fidati confidenti, che ovviamente lo conoscevano perfettamente.
Io proferì pochissime parole; mi limitai ad accennare sorrisi e risate per le battute di Angela e Sophie, e ad annuire per gran parte della serata. Ogni volta che chiudevo gli occhi vedevo Jennifer: vedevo i suoi occhi tristi ed impauriti chiedermi di non andarmene; vedevo la sua vita di sacrifici fatti tutti per me non venire ripagata con il mio supporto fisico e morale.
Come poteva essere d’accordo? Come poteva davvero volerlo? Steve ne era convinto.
Non riuscì a seguire il film per più di dieci minuti di seguito; tuttora non ne ricordo la trama.
Ripensavo a quella serata mentre me ne stavo seduto sul sedile accanto al finestrino nella terza fila a destra.
“Ancora un attimo e caricheranno i nostri bagagli, D!”
Mi voltai verso Steven che apriva lo sportello sopra di noi per riporvi il suo borsone a mano blu.
Sorrisi e stetti in silenzio, e abbassando lo sguardo notai che indossava il maglione rosso che gli avevo regalato e a cui ero tanto affezionato.
Osservando gli altri passeggeri prendere posto nei sedili attorno a noi provai uno strano senso di inquietudine misto a sconforto, non capendone il motivo dato che stavo per cambiare la mia, la nostra vita con questo viaggio. Tutti gli altri sembravano così tranquilli.
Probabilmente quello era per loro un semplice viaggio di routine, o di lavoro, o una vacanza.
Non avrebbe stravolto le loro esistenze. O salvarle, come per noi due.
Ripensandoci, trasferirci su Virgon diede il via ad una serie di circostanze ed eventi che ci avrebbero salvato la vita il giorno degli attacchi, quando i Cyloni distrussero le Dodici Colonie.
Fuori dal finestrino la luce del mattino si rifletteva sulle vetrate degli immensi grattacieli del centro di Hades, protesi verso l’alto in un cielo stranemente limpido e azzurro; scintillavano i raggi solari scontrandosi sulle carrozzerie esterne dei treni metropolitani a levitazione magnetica, sospesi tra gli edifici.
Ripensai a Jennifer che mi diceva di non preoccuparmi, quando le dissi la verità,  che già lo sapeva, che già ne aveva parlato con Steven.
Glielo dissi tre giorni dopo il cinema; pensavo di prolungare un po’ i tempi, ma tenermi dentro quell’intenzione mi logorava letteralmente.
Stavamo guardando il notiziario delle 18:30; Playa Palacios parlava dell’anniversario dell’incidente in cui andò distrutta la colonia mineraria di Tylium sul piccolo pianeta di Troy, orbitante attorno ad Helios Beta, la stella di Virgon e Leonis; forse fu proprio quella strana e triste coincidenza a spingermi a sputare il rospo.
Sudavo e avevo gli occhi lucidi, lei invece era impassibile; lei sapeva, sapeva ed era serena.
Ero talmente nervoso che ho letteralmente rimosso parte dell’accaduto: non riesco a ricordare le mie parole, come mi posi, come glielo dissi. Ricordo soltanto lei che mi rassicura e mi abbraccia.
Non ci abbracciavamo molto spesso a dire il vero; era una donna dolce, ma gli abbracci non facevano molto parte della nostra vita.
Per questo mi rimase tanto impresso.
“Gentili passeggeri, è il capitano Britt del volo coloniale 9805; stiamo terminando di imbarcare i bagagli e partiremo non appena ultimati i controlli tecnici”
La voce del capitano all’alto parlante mi riportò alla realtà svegliandomi dal mio sogno ad occhi aperti; Steven era adesso seduto accanto a me e mi guardava sorridendo in silenzio.
Accarezzai la barbetta ispida sulla sua guancia e sorrisi a mia volta.
“Sei pronto?” Mi chiese. Sperava davvero che lo fossi; tutto questo era in fin dei conti venuto da lui e non poteva fare a meno di preoccuparsi se ciò a cui aveva contribuito a creare fosse giusto per me e mi rendesse davvero felice. Mi amava, e chi ama si preoccupa della felicità della persona a cui ha donato l’anima.
“Credo di si…” Esitai per un momento “Si… si sono pronto.”
Ci abbracciammo in modo leggermente scomodo data la posizione dovuta ai sedili.
Mentre i nostri corpi aderivano in quell’affettuosa stretta, ripensai all’abbraccio che mi regalò la piccola Tracy Campbell il giorno in cui dissi alla classe in cui insegnavo  che avrei presto lasciato il pianeta. La mia piccola Tracy, la bambina che piangeva sempre e che andava accompagnata per mano fino al portone d’uscita a fine giornata. Mi manca così tanto.
“Non ti rivedremo più allora?” Disse con la voce tremolante accennando ad un singhiozzo malinconico.
“No, certo che no! Tornerò a trovarvi!” Le risposi cercando di rassicurarla mentre le solleticavo il mento ed asciugavo la lacrimuccia che le rigava il viso.
“Non sparirò nel nulla! Tornerò qui prima che andiate alle scuole elementari!” Mi spezzava il cuore salutare quei bambini, era un po’ come se fossero i miei figli adottivi, sentivo di abbandonarli nonostante la Levison fosse un’ottima educatrice anche migliore di me.
Avevano fatto un disegno su un cartellone che appesero quel giorno accanto alla lavagna, una vera opera d’arte: “Arrivederci David, buon viaggio!” era scritto a caratteri cubitali nel centro, circondato da una miriade di cuoricini e stelline; in basso, infine, erano disegnati i globi di Canceron e di Virgon, in mezzo ai quali stava una riproduzione infantilmente stilizzata di un’astronave di linea dalla quale spuntava la mia testa. Curioso come dei bambini così piccoli avessero già chiaro il concetto di viaggio interplanetario.
Mi toccò profondamente quel piccolo e dolce gesto: triste pensare che quel cartellone sia stato incenerito, così come l’aula in cui si trovava… e i suoi occupanti. Ovviamente allora non potevo immaginare che sarebbe accaduta una cosa simile.
La vita è spietata.
Ma ancora di più pensavo alla frase di Jennifer mentre uscivo di casa, quella stessa mattina, l’ultima volta in cui lasciai la nostra casa.
Nei due mesi che avevano preceduto la mia partenza non vi era stata alcuna discussione a riguardo, nessun attrito, nessun imbarazzo; consideravamo entrambi, o almeno ci sforzavamo di fare, quel cambiamento come un evento unicamente positivo, come se non comportasse una separazione tra di noi.
Eravamo costantemente calmi e sereni, in modo quasi innaturale, esagerato.
Eravamo felici ed assaporavamo ogni istante insieme.
“Tornerò prima della fine dell’estate…” Le sussurrai mentre la abbracciavo fortissimo sotto la porta di casa; non ci accompagnò allo spazio porto, rimase a casa. Come se non volesse vedermi andarmene via per sempre, come se fosse un monito.
Come se sapesse già.
“Ci vedremo presto, ok?”
“…No.” Mormorò.
“Come no? Certo che ci vedremo, e comunque ci sentiremo ogni giorno e parleremo in web cam…”
“Non tornerai quest’estate, e nemmeno la prossima.” Disse con fermezza spiazzandomi.
“Non tornerai nemmeno la prossima primavera. Soprattutto la prossima primavera. E sarà giusto così.”
Un brivido mi scosse dalla testa ai piedi. Che diamine stava dicendo? Cosa intendeva con l’estate e la primavera? Soprattutto “la prossima primavera”? Perché?
“Ma Jennifer cosa dic…”
“Tranquillo. Sarò felice. Lo sono già ora. Sei la mia felicità. Vai.”
Volevo chiederle spiegazioni ma una forza superiore alla mia mi impose di tacere; la abbracciai più forte di prima per poi allontanarmene e lasciare che anche Steven la salutasse.
“Abbi cura di lui” Le sentii dire a bassa voce mentre uscivo “Dovrete fare molta attenzione nei prossimi anni… sarà difficile. Per voi e pochi fortunati, ma poi sarete ricompensati.”
Chiesi a me stesso cosa potesse significare una frase così bizzarra ed ancora una volta, quel brivido scosse ogni centimetro del mio corpo, ma qualcosa di più grande annullò il pensiero interrogativo nella mia testa. Non era ancora ora di sapere, avevamo ancora un anno di normalità a disposizione da gustare.
Salì in auto sul sedile del passeggero ad aspettare Steven, e le lacrime cominciarono a scorrere giù dalle mie guance.
Perdonami Jennifer, io ti ho abbandonata.
Era a questo che pensavo mentre me ne stavo seduto sul sedile accanto al finestrino della nave passeggeri 9805.
Erano passate poche ore da quell’arrivederci, ovviamente non immaginavo fosse un addio.
Forse però, Jennifer l’aveva previsto.
“Gentili passeggeri siamo pronti per iniziare la procedura di decollo; siete pregati di allacciare le cinture e spegnere ogni apparecchiatura elettronica fino a procedura completata. Gli assistenti di volo saranno a vostra totale disposizione.”
Allacciai la cintura e sprofondai nel sedile, rendendomi conto solamente in quel momento che per me era il primo volo spaziale e che, preso com’ero da tutte le mie faccende, non ricordavo quanto la cosa mi spaventasse fino a quel momento.
Il poggiatesta era coperto da un piccolo telo bianco sul quale era ricamato lo stendardo delle Dodici Colonie di Kobol; il sedile era invece blu scuro, con piccole fantasie di un bianco panna.
Mi voltai di nuovo a destra e scrutai, al di là del finestrino, lo skyline della capitale del pianeta su cui avevo trascorso tutta la mia vita.
Avevo una tale confusione dentro la mia testa e non riuscivo a capire se dentro di me prevalesse la parte che considerasse Canceron la mia casa o invece quella che volesse fuggire.
A sentire Jennifer quella sarebbe stata l’ultima volta che lo vedevo, che ne respiravo l’aria e ne calpestavo il suolo… ma perché mai sarebbe dovuto essere così? Avevo tutta la vita davanti, e chissà quante occasioni per tornare per una rimpatriata. O almeno così sembrava.
“Si. Sono pronto.” Pronunciai a bassa voce guardando negli occhi Steve, che rispose con un sorriso silenzioso, mentre il rumore delle turbine che si avviano velocemente cominciava a farsi sentire.
Ed ecco che una leggera vibrazione scosse i nostri sedili per poi divenire più intensa in pochi istanti: i propulsori ventrali inferiori si attivarono freneticamente sollevando la nave a diverse decine di metri al secondo, e facendoci avvertire una certa “pesantezza”, come se venissimo un poco schiacciati su noi stessi.
I rotori posteriori erano ora in moto, spingendoci in avanti in assetto orizzontale: la manovra di salita era nel pieno del suo svolgimento.
I grattacieli di Hades, tanto alti, scomparvero tra le nubi che coprivano un agglomerato urbano che dal mio finestrino pareva posto in obliquo; e poi le nubi cominciarono ad essere l’unica cosa che potevo vedere all’esterno. Avevo la sensazione fisica che stessimo letteralmente salendo nel cielo, e tanto più questa mia sensazione si acuiva, tanto più mi sentivo aderire al sedile, seppur in modo lieve ed accettabile.
E poi una distesa blu, contornata da una costa grigiastra illuminata da migliaia di piccole e brulicanti luci, il tutto sotto una sottile linea azzurro evanescente.
Improvvisamente tornai a sentirmi leggero come prima del decollo e fui in grado di divincolarmi liberamente dalla posizione in cui mi trovavo; il segnale lampeggiante rosso sopra la porta della cabina divenne verde, indicando la possibilità di slacciare la cintura: eravamo in orbita.
“Dei…Steve guarda!” Esclamai con stupore mentre il cuore mi esplodeva per l’emozione data da quello che stavo vedendo. Non ero mai stato nello spazio, mai fuori pianeta. In realtà non avevo nemmeno mai volato.  Steven si avvicinò appoggiandosi alle mie gambe ed osservò l’immagine che catturava i miei occhi in modo quasi maniacale: Canceron.
Sebbene ne avessi studiata la morfologia e ne avessi viste numerose rappresentazioni a forma di planisfero a scuola, non avevo mai avuto l’occasione di osservarlo, fisicamente, in quel modo.
Una gigantesca sfera azzurra puntellata da grandi macchie irregolari di toni verdi, marroni ed in prevalenza grigiastri, i suoi continenti occupati da alte catene montuose ed imperiose e vaste città, che apparivano dallo spazio come densi spruzzi di puntini luminosi e cerchi concentrici.
“Dei… santi Dei.” Continuavo a ripetere.
“Te l’avevo detto che ti sarebbe piaciuto!” Mi sorrise lui mentre io fissavo attonito il globo del pianeta senza lune che si allontava velocemente dal mio finestrino; si allontanava, si rimpiccioliva, anche se ci mise quasi dieci minuti a sparire del tutto dal mio raggio visivo.
“E’ davvero incredibile Steve, non posso ancora crederci, siamo nello spazio!” Dicevo come se fosse qualcosa di incredibile, incurante del fatto che la maggior parte degli abitanti delle colonie fosse abituata a viaggiare molto frequentemente tra i dodici pianeti. Ero uno dei pochi ad essere rimasto indietro; allora, non potevo immaginare che avrei trascorso quattro anni nello spazio come fuggiasco, insieme ad altre poche migliaia di fortunati superstiti.
“Gentili passeggeri, la sequenza di decollo è stata completata e siamo ora in viaggio per Virgon; il tempo previsto per la tratta è di circa nove ore. Ci auguriamo che vi troviate a vostro agio a bordo e che il viaggio sia piacevole. Vi ringraziamo per aver scelto Pan Galactic.”
La cabina tornò ad essere animata dal chiacchiericcio dei passeggeri, accompagnato dal flebile e rassicurante ronzio dei propulsori e della sala macchine.
“Nove ore, miei dei!” Esclamò Steven coprendosi gli occhi con le mani in un gesto teatrale.
E come dargli torto! Per lui fu un viaggio interminabile, nonostante fossimo liberi di alzarci e circolare per la nave. Ciò che lo rese così lungo fu forse proprio l’ansia del nuovo inizio che la sua fine avrebbe portato.
Per me fu diverso, perché non appena Canceron non fu che un piccolo puntino luminoso nell’oscurità dello spazio io fui colto da un irresistibile desiderio di chiudere gli occhi: le palpebre mi sembrarono improvvisamente pesanti come incudini.
Mi rannicchiai sul sedile, appoggiai la mia testa sulla spalla destra di Steven e gli sussurai:
“Ci vediamo dall’altra parte.” Per poi addormentarmi velocemente, cullato dal rumore di sottofondo dei motori dell’astronave passeggeri 9805, che nel frattempo, percorreva la strada che le avrebbe fatto attraversare due sistemi solari, portandoci verso la nostra nuova vita.

8.3 –“Sguardi ed atterraggi”
Ricordo di aver fatto un breve sogno durante il viaggio, un breve e strano sogno che non scorderò mai.
Tutto attorno a me sembrava corrispondere alla realtà che stavo vivendo in quel momento: mi trovavo sul mio sedile a bordo della nave che ci stava portando su Virgon, ed attorno a me gli altri passeggeri chiacchieravano normalmente.
Tuttavia, Steven non era con me; non so dove potesse trovarsi, e di fronte, anzi che voltarmi le spalle, due sedili erano orientati verso di me: accomodati sopra di essi, due figure.
Una di loro mi era familiare; impiegai un paio di secondi per identificarla, ma quando ci riuscì rimasi incredulo. Era lei, di nuovo lei! La bellissima donna dai capelli mossi e chiarissimi.
Mi fissava con uno sguardo penetrante e un sorriso che mi metteva a disagio.
L’altra figura era un uomo, con i capelli corti a metà tra il biondo e il brizzolato e gli occhi chiari.
Mi guardavano in silenzio e sorridevano entrambi, come se sapessero qualcosa che io invece ignoravo. Lui prese improvvisamente parola.
“Non avere paura, David. Andrà bene.” Terminò la frase con un sorriso che mi trasmise sicurezza.
“Andrà tutto bene.” Disse la donna bionda, che a sua volta, mi rassicurò con la medesima espressione.
Mi svegliai improvvisamente sobbalzando sul sedile.
“David!” Esclamò Steve preoccupato dal mio risveglio frenetico.
“Stai bene?” Chiese.
“Io… si… si tutto bene. A che punto siamo?” Chiesi anch’io mentre sentivo alzarsi il tono di voce degli altri passeggeri.
“Siamo quasi arrivati, siamo entrati nel sistema solare un’ora e mezza fa, Virgon dovrebbe essere visibile fra poco!”
Mi sistemai sul sedile ed incrociai le braccia per un secondo e riflettei su ciò che era appena accaduto; naturalmente durante il sonno non si percepisce il trascorrere del tempo all’esterno, tuttavia quelle nove ore di volo mi erano letteralmente volate. Nove ore senza svegliarmi.
  Avevo praticamente riaperto gli occhi un secondo dopo averli chiusi, senza considerare il mio breve e strano sogno, che ricordavo alla perfezione. E mi chiesi come mai avessi sognato nuovamente quella donna bionda.
Perché lei? E perché si trovava in compagnia di quell’uomo? Più avanti nel tempo, le mie domande avrebbero avuto risposta.
“Gentili passeggeri raggiungeremo a breve l’orbita di Virgon; non appena inizieremo la procedura di discesa nell’atmosfera sarete avvisati da un segnale acustico che vi inviterà ad allacciare le cinture.  Speriamo che il volo sia stato di vostro gradimento e vi ringraziamo nuovamente per aver scelto PanGalactic.”
La voce del comandante all’alto parlante mi distrasse dalla mia auto indagine mentale, ricordandomi che una parte del nostro destino si stava per compiere, e non c’era certo il tempo per stare ad interrogarsi il significato di strani sogni inquietanti; la vita era una corsa, una corsa piacevole ed eccitante con destinazione la felicità, e nessuno di noi aveva intenzione di fermarsi.
Io e Steve non vedevamo l’ora di metterci in gioco, in tutti i sensi: come studenti, come tirocinanti, e infine ma forse soprattutto, come coppia.
“Oh dei, ci siamo davvero.” Dissi quasi incredulo.
Ed eccolo, quel piccolo pianeta blu e azzurro, accompagnato dalla sua luna nevosa, Hibernia, avvicinarsi velocemente come due sfere in movimento fuori dai nostri finestrini. L’emisfero nord –nel quale eravamo diretti- era adesso illuminato dalla luce del suo sole, Helios Beta, secondo sistema solare in ordine di importanza politica nelle Dodici Colonie; importanza che per secoli aveva creato discriminazione e sfruttamento nei sistemi più poveri.
Stava davanti a noi: Virgon.
Il simbolo dell’aristocrazia e della raffinatezza; la perfetta fusione di tradizionalismo e avanguardia, di arte e cultura, classicismo ed avanguardia, secondo soltanto a Caprica, il mondo più ricco e florido nonché capitale della nostra società.
L’ultima monarchia parlamentare delle colonie, allora sotto il governo della regina Helena II, detentrice di un potere unicamente simbolico che andava ormai affievolendosi sotto l’influenza del parlamento federale.
“Siamo arrivati David, ci credi?” Disse lui “E’ sempre più vicino, è sotto di noi!”
Le coste frastagliate dei continenti erano sotto di noi: le vaste terre emerse puntellate di numerosissime alture, visibili fin dal limite dell’atmosfera; ecco le luci dei grandi centri urbani che accoglievano gran parte degli abitanti del pianeta.
L’entroterra appariva più bluastro che verde, ma da quell’altezza astronomica non fu un particolare a cui feci molto caso.
La nave scendeva elegantemente nel cielo del pianeta percorrendo una traiettoria basata su complicati calcoli matematici che i piloti avevano approssimato con l’ausilio dei computer e i programmi di navigazione.
La mia mano sinistra stava stretta nella destra di Steven mentre fuori dal finestrino incominciavo a notare il colore azzurro indaco dell’atmosfera che adesso ci circondava; le nubi rosate correvano verso l’alto velocemente mentre noi scendevamo.
Intravidi un’oceano ad Est scomparire dietro una serie di alte catene montuose, i tratti morfologici dominanti sulla superficie: vasti alti piani ed imponenti montagne alle cui pendici gli abitanti dei villaggi producevano la famosissima birra di Virgon, nota in tutte le dodici colonie come ed uno dei drink da bar più quotati all’unanimità.
Virammo delicatamente verso ovest e gli edifici delle città sulla superficie divenivano man mano più grandi, indicando che stavamo scendendo velocemente verso terra.
La nave seguì, o almeno così mi parve stesse facendo, una pista di un paio di chilometri rimanendo ad un’altezza di cento metri, per poi atterrare in assetto verticale su una piattaforma in cemento e metallo, articolata in diversi livelli ed affiancata da diverse travi in acciaio; si trovava di fronte al terminal del porto spaziale, un edificio circolare il cui tetto era formato da un insieme di cupole, a cui era collegata tramite cinque corridoi vetrati sospesi a circa dieci metri d’altezza.
“Gentili passeggeri, la procedura di atterraggio è terminata. Potete abbandonare la cabina tramite le uscite sul lato destro dello scafo. Vi ringraziamo ancora per aver scelto PanGalactic!”
“Oh dei Steve. Siamo su Virgon!!” Esclamai con voce tremolante.
“Non ancora” Rispose lui “Siamo ancora sospesi!” Ridacchiò.
Io davvero non riuscivo a credere che fossimo davvero là, mi pareva un sogno e forse poteva anche esserlo date le stranezze che mi capitava di vedere ad occhi aperti alle volte.
E invece era tutto vero, eravamo davvero là.

8.4 –“Auto elettriche e cieli rosati”
Uscimmo dal terminal con i nostri bagagli stretti in mano ed i giubbotti con i portafogli, denaro e documenti pronti ad essere utilizzati se necessario.
Una leggera brezza spettinava i ciuffi di capelli castani e biondi sulle nostre fronti; avevamo entrambi un’aria spaesata, un po’ come se ci fosse scoppiata in faccia una piccola bomba poco prima lasciandoci in uno stato confusionale.
Ma forse parlare di aria è proprio il modo giusto per descrivere i nostri primi istanti su Virgon: fu proprio l’aria il particolare che mi colpì per primo, prima della vista, prima dell’udito.
Era fresca e pungente sul viso ma allo stesso modo secca e confortevole, tipica dei climi temperati ma ancora meglio; frizzante e viva, come sugli altri mondi si poteva respirare solo nei paesi di montagna, forse proprio per via del grandissimo numero di montagne sul pianeta.
La luce del mattino era incredibilmente intensa, e alla mia vista, costretta per nove ore al buio dello spazio e alla fioca illuminazione artificiale della cabina della nave, risultò un vero pugno in un occhio.
Potevo ora chiaramente vedere gli edifici del centro di Borskirk svettare nel cielo, alti e luminosi, pieni di guglie, cupole e vetrate; simili a quelli di Canceron, ma da un design più classico e minimale. Li descriverò più avanti.
Il cielo sopra di noi era tinteggiato di un azzurro molto intenso, quasi cobalto, che tuttavia si fondeva in una serie di sfumature violacee veramente meravigliose, ed era ogni tanto occupato da soffici nuvole biancastre e rosate.
Ma era ancora una volta l’aria a destare il mio stupore: sembrava essere blu, nel vero senso della parola, ed infatti era così: tra i vari nomi che aveva fatto propri nel corso della storia, Virgon era nota come “La Colonia Blu”, e non era di certo per caso.
Non soltanto i mari e gli oceani del pianeta vantavano un meraviglioso blu, ma la maggior parte delle sue forme di vita vegetale era mantenuta viva da uno speciale tipo di clorofilla contenente degli olii che le donavano una suggestiva tinta verde-bluastra: questa animava la cellulosa delle foglie degli alberi, degli arbusti, delle vaste e folte foreste ovunque nei continenti. Esposti alla luce del sole, questi olii evaporavano, spargendo nell’atmosfera miliardi di piccolissime particelle che, unite  ad una densissima quantità di antracene presente nell’aria -una sostanza che emette una luce bluastra  quando esposta ai raggi UV- la coloravano di una varietà di toni che andavano dal cobalto all’indaco, e in alcune zone, perfino al rosa.
Virgon possedeva uno degli ecosistemi più unici e spettacolari di tutte le Dodici Colonie, e le sue meraviglie naturali erano considerate patrimonio dell’umanità, rendendo i suoi abitanti molto devoti all’ecologia ed alla salvaguardia della bellezza dell’ambiente, un tesoro che i Virgani custodivano gelosamente adottando diverse misure di sicurezza.
Le grandi città ovviamente non mancavano ed ospitavano la maggior parte dei quattro miliardi di persone sul globo, e non avevano nulla da invidiare alle metropoli degli altri mondi in quanto riguardi avanguardia, tecnologie ed estensione: al contrario, incarnavano perfettamente lo spirito della modernità e del progresso, materializzato in imponenti torri di acciaio e vetro alte centinaia di metri e cavalcavia sospesi sui quali scorrevano velocissimi treni a levitazione magnetica.
Da notare il fatto che il 90% delle automobili immatricolate sul pianeta fossero alimentate da motori elettrici o ibridi, abbassando drasticamente l’emissione dei gas discarico che, sugli altri pianeti, avevano un tasso molto più alto per via del gran numero di veicoli a combustione interna in circolazione: l’aria, anche nelle città, era notevolmente più pulita e leggera, e non aveva davvero nulla a che vedere con quella viziata e piena di smog che avevo respirato per vent’anni sul grande e chiassoso Canceron; si potrebbe dire che io abbia respirato per la prima volta e per davvero solo in quel giorno.
Questo ecosistema meraviglioso e luccicante sarebbe stato irreparabilmente distrutto e cancellato dall’attacco nucleare dei Cyloni in un futuro davvero molto prossimo, ma in quel primissimo giorno della nostra nuova vita, io e Steven non potevamo averne la minima idea, così come il resto dell’umanità sparsa sui globi delle Dodici Colonie.
“E’… Dei, è così bello!” Disse lui sbigottito, quasi come se non se l’aspettasse.
“Ancora più di quello che pensavo!”
Stavamo sul marciapiede di fronte alla hall del terminal, gremito di persone e puntellato di lampioni con lanterne dalla forma classicheggiante e di piccoli alberi con folte chiome blu: mi impressionò il fatto che tutti fossero vestiti alla moda, con abiti eleganti, non necessariamente costosi, ma ben scelti e dall’aspetto raffinato, anche se di natura semplice.
Tutti avevano con se borse di carta che riportavano i simboli dei più famosi negozi di abbigliamento che conoscessi: Virgon era la capitale della moda delle Colonie, per questo mi sembrava che tutti fossero vestiti bene, con buon gusto, come artisti. Mio padre, quell’uomo di cui non avevo ricordi, era uno stilista, un artista. I virgani erano artisti.
Io ero un virgano, un virgano mancato. I miei genitori –e Jennifer- erano nati e cresciuti su quel pianeta blu e rosato, ed ora io calpestavo il cemento che ne ricopriva il suolo.
“Steve io non so che dire!” Mi avvicinai a bocca aperta.
“Dobbiamo raggiungere la stazione degli autobus, David” disse “Il nostro appartamento è in una cittadina appena fuori Boskirk.”
Mi resi conto che praticamente non sapevo nulla del luogo in cui sarei andato a vivere.
Certo, avevo visto delle foto sul sito in rete, ma non avevo fatto caso all’indirizzo e ad esempio non sapevo se si trovasse in centro o in periferia, e adesso venivo a scoprire che non si trovava nemmeno nella capitale!
“Sta più attento, David, sta più attento…” sentì mormorare nella mia mente da una voce femminile che effettivamente mi lasciò stupito per un attimo; pensai di essermela immaginata.
La stazione degli autobus era ad appena settanta metri di distanza dal terminal del porto spaziale: un edificio rettangolare di tre piani coperto di lucenti vetrate che cominciavano direttamente dal livello del marciapiede, e contornato da deliziosi cespugli pieni di fiori.
Salimmo sull’autobus della linea y-13, diretto a Claireview, un piccolo centro abitato di meno di diecimila persone circondato da morbide colline coperte di fiori ad appena venti minuti dalla periferia di Boskirk; il padre di Steven aveva proposto al figlio di trasferirci in quella cittadina –quando ancora io ne ero all’oscuro- poiché aveva conosciuto diversi membri dello staff del sindaco durante un suo soggiorno sul pianeta, gente per bene.
L’autobus che ci trasportava lasciò il deposito di stoccaggio emettendo un rumore quasi impercettibile grazie al suo motore elettrico; la carrozzeria era colorata di verde e riportava un simbolo a forma di foglia e una scritta “eco bus” sulla fiancata destra.
“Guarda Steve, in strada ci sono soltanto auto elettriche!” Dissi con grande entusiasmo; avevo sempre detestato il rombo dei motori a scoppio, comuni in tutte le colonie, senza parlare dell’insopportabile odore dei gas di scarico delle automobili che, sul pianeta dove avevo vissuto fino ad allora, intasava ogni angolo di ogni strada.
Lui sorrise in silenzio, compiacendosi ancora di più per avermi portato a casa.
“Qui è tutto diverso… non è come a Canceron…” Mormorai “E’… diverso.”
Pensai a Jennifer. Non l’avevo ancora avvertita che fossi arrivato. Miei dei, sarà stata sulla sedia in cucina in silenzio sapendo di avermi perso. Perché lei lo sapeva, lo sapeva già.
La mia attenzione fu catturata da un ragazzo dai capelli biondi –naturali, non finti come i miei- che suonava una chitarra acustica blu appoggiato ad un albero sull’angolo del marciapiede accanto al quale l’autobus si era momentaneamente accostato; non potevo sentire cosa cantava, ma sembrava così genuino, così spontaneo, e sorrideva. Era davvero pieno di artisti.
Era il pianeta degli assoluti: tutti vestiti bene, tutti artisti, tutte auto elettriche. Come potevo non sentirmi a casa?
Attraversammo la zona suburbana velocemente per arrivare presto alla campagna blu che circondava Boskirk; una moltitudine di palazzine e tetti spioventi di villette familiari cominciarono ad apparire sparse tra gli alberi e le aiuole piene di fiori, mentre dietro di noi gli alti grattacieli della capitale svettavano riflettendo la luce del sole su tutta la loro superficie verticale vetrata.
La vista era fantastica e mi sembrava incredibile: eravamo appena oltre la periferia urbana della capitale di Virgon, ovvero una delle città più grandi e importanti del pianeta, ed attorno a noi vedevo aiuole, alberi dalle fronde folte e allegre e campi pieni di fiori di mille colori; su Canceron una visione del genere era difficile – se non impossibile- da trovare, e sicuramente, non nei pressi di una grande metropoli, attorno alla quale si poteva ammirare solo un triste e cupo grigiore.
“Ci siamo quasi D! Claireview è in mezzo a quelle colline!” Disse Steven indicando i rilievi appena dietro il bosco che costeggiava la strada.
Ed ecco che il cartello stradale poggiato al centro di un’aiuola piena di fiori gialli e rosa ci diede il benvenuto nella piccola cittadina che sarebbe stata la nostra casa per un anno.

8.5 –“Condominii e legno laccato”
Entrammo nel centro abitato tramite la statale 12 il cui sbocco conduceva direttamente al parco di fronte al condominio dove avremmo abitato; una deviazione dovuta a lavori in corso obbligò il conducente del nostro autobus a svoltare a destra, offrendoci la possibilità di osservare più nel dettaglio l’aspetto di Claireview.
Un piccolo sobborgo puntellato di giardini e parchi giochi dove i bambini correvano urlando e ridendo; il municipio era circondato da piccole palazzine vetrate, ai cui piani terra si trovavano molti negozi ed imprese private: drogherie, mini market, boutique.
Passammo di fronte all’edificio delle scuole elementari dove avrei insegnato come tirocinante da lì a pochi mesi; lo vidi di sfuggita, ma ne notai immediatamente la scritta che ne sovrastava l’entrata: “Jean Evans Elementary School”, intitolata a nome dell’omonima insegnante elementare che era vissuta sul pianeta di Tauron ed aveva perso la vita per salvare la vita ai suoi studenti quando un pazzo squilibrato si introdusse armato nella scuola in cui lavorava, settantacinque anni prima che io nascessi. Il suo nome divenne noto ovunque, e il suo sacrificio la consacrò come eroina, tant’è che ovunque nelle Dodici Colonie venne dato il suo nome a molti istituti.  Steven controllava ogni fermata sul foglietto che si era preparato a mano prima di partire: il tragitto era stato disegnato frettolosamente con una penna non cancellabile verde, e tre diverse fermate erano scarabocchiate poiché aveva sbagliato a ricopiarne il nome dal computer.
“Ci siamo quasi, ancora tre fermate David, scendiamo al parco!” Disse mostrandomi il suo capolavoro stilizzato, indicando il quadratino che riportava la scritta “Lehnsherr Park”.
Avevamo viaggiato per mezzo anno luce nello spazio, una trentina di chilometri a terra, ed ora stavamo per raggiungere la nostra destinazione; non potevo credere che ci fossimo realmente.
Eravamo davvero sulla colonia blu.
Imboccammo la destra ad un incrocio con tre strade ed in cinque minuti raggiungemmo una deliziosa stradina puntellata di villette familiari e piccoli complessi di appartamenti: giardini con staccionate bianche erano popolati da ortensie lilla ed azzurre, automobili parcheggiate nei vialetti e altalente sotto gli alberi.
Sulla destra della strada, le fronde degli alberi del Lensherr Park davano ombra ai vecchietti che si riposavano sulle panchine e agli uccellini che cinguettavano sui marciapiedi.
Scendemmo dall’autobus trascinandoci dietro le nostre tre pesanti valige.
Steve si avvicinò a me e, mettendomi una mano sulla spalla sussurrò:
“E’ quello!” Sorrise ed indicò una palazzina di quattro piani sulla sinistra della strada, circondata da alberi e villette. A giudicare da quanto potevo vedere, doveva contenere sei appartamenti che, sulla facciata, vantavano un piccolo balcone ciascuno che dava sulla strada e quindi sul parco. Circa dieci minuti dopo avrei scoperto con piacere che dal nostro balcone fosse possibile ammirare i grattacieli della capitale che emergevano da dietro i tetti di Clairview e dalle variopinte colline della campagna attorno a noi.
“E’… è bellissimo, non so che dire!” Esclamai attonito, mentre entrambi trascinavamo i nostri pesanti bagagli verso i cinque scalini che ci avrebbero condotto all’ingresso.
Nonostante abbia sempre preferito salire a piedi, data la mole di oggetti che ci portavamo dietro, dovettimo prendere l’ascensore. Steve aveva le chiavi nel suo portafogli: le aveva ricevute da suo padre la settimana prima di partire, insieme ad una lauta somma di denaro che avrebbe dovuto mettere da parte per la nostra nuova vita.
“David è la tua famiglia ora, figliolo” gli aveva detto “ devi prendertene cura ed insieme costruirete un futuro… non fare i miei stessi errori.”
La chiave ruotò tre volte  in senso anti orario nella serratura; spinsi in avanti la porta e scoprì un piccolo salotto:  l’arredamento, seppur spoglio e minimale, era già presente ed era stato scelto dal padre di Steven diverso tempo prima; curioso come fosse riuscito a soddisfare le nostre esigenze in modo così preciso.
Una cassettiera rettangolare non molto spessa, in legno laccato bianco ed alta settanta centimetri, sorreggeva uno schermo televisivo ultra piatto che pareva essere fatto di vetro, come quello che vidi in un film una volta.
Di fronte ad essa, un piccolo tavolino, dei medesimi materiali e colori, ed un divano coperto da un velluto blu pastello con sfumature bianche; dietro il divano, una libreria, ancora una volta in legno laccato bianco, ed alla destra di tutto quanto appena descritto, una luminosa porta di vetro che dava direttamente sul nostro balcone. Si, era il nostro balcone.
“Che ne pensi?” Chiese Steve che mi stava fino ad allora osservando ispezionare il piccolo nido.
Mi voltai verso di lui, e risposi con un sorriso che avrebbe potuto sciogliere il ghiaccio.
Si, mi rendo conto che faccia ridere.
Aprimmo la finestra ed uscimmo all’esterno, ammirando la vista spettacolare che il balcone ci offriva: trovandoci al terzo piano dell’edificio, riuscivamo a vedere tutte le altre piccole palazzine di Clairview, così come i tetti spioventi delle villette familiari che emergevano dalle ridenti chiome blu e verdi degli alberi; vedevamo le ondulate colline coperte di fiori nella campagna che ci rircondava, e i grattacieli  della capitale del pianeta che scintillavano tra le nuvole da dietro di esse. In lontananza, nel cielo, il sibilo dei propulsori delle astronavi girovagare qua e là, proprio come su Canceron; proprio come su ogni altro pianeta.
Poggiai la mia mano su quella di Steven, che a sua volta poggiava sulla ringhiera grigia.
Lo percepii in quel momento, e ne fui assolutamente sicuro.
Ero a casa. La nostra casa che, al tempo, non sapevo sarebbe durata poco.
Eravamo a casa.
“Ti amo.” Dissi.

Continua…
   
 
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