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Autore: _Frame_    08/05/2016    6 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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80. Ricucire ferite e Riallacciare legami

 

 

“Fammi capire, li hai lasciati andare?”

Grecia flesse il capo di lato, premendo la parte superiore del ricevitore radio fra orecchio e spalla. I capelli gli scivolarono sul viso sfiorando le sopracciglia leggermente aggrottate, e un angolo della bocca storto verso il basso, a infossare la guancia. “Non li ho lasciati andare, lo avevo solo proposto.” Il gattino pezzato zampettò lungo il tavolo su cui Grecia era seduto. Chinò la fronte, passò sotto il cavo nero dell’apparecchio radio che scivolava lungo il braccio di Grecia, e strofinò la fronte contro la sua manica, a occhietti chiusi. Attaccò a fare le fusa, e Grecia gli posò una mano in mezzo alle orecchie, strofinandogli la pelliccia.

Grecia sospirò contro il ricevitore, socchiuse le palpebre. “Te l’ho detto, non ho mai voluto avere noie con loro, fin dall’inizio. Ho proposto l’armistizio di mia volontà.”

Il gattino sollevò il musetto verso la schiena del padrone, sfilando la testolina dalle dita che lo accarezzavano, e si piegò sulle zampe posteriori. Con un balzo si appese alla stoffa della maglia, allungò le zampe anteriori e si tenne aggrappato alla spalla, accoccolandosi e lasciando la coda a penzoloni come il cavo del ricevitore. La manica di Grecia era sollevata, lasciava vedere la ferita ancora aperta che gli lacerava la pelle già scura di un colorito bruno e bagnata di tintura di iodio. Il sangue si era fermato.

“E allora?” gracchiò la voce di Turchia dall’altro capo della connessione. “Come l’hanno presa?”

Grecia si strinse nelle spalle, sollevò gli occhi opachi e spenti verso il soffitto della tenda da campo, e fece dondolare le gambe contro il pavimento. “Non credo l’abbiano presa bene.” Piegò un sopracciglio, la fronte fu attraversata da una sottile vena di disapprovazione. “Probabilmente hanno rifiutato.”

Il medico da campo finì di strofinare il panno imbevuto di tintura di iodio sull’ago uncinato già legato al filo di sutura. L’ambiente della tenda, pregno solo di aria umida che sapeva di pioggia e di terra, si riempì di un pungente odore di disinfettante. Sollevò l’ago. Una scintilla di luce nacque sulla punta e ne percorse la forma ad arco, morendo fra le dita del medico, strette nel punto in cui si allacciava al filo. Il medico lasciò il suo banco da lavoro e camminò verso il centro della tenda. Raggiunse il tavolo su cui era seduto Grecia e gli toccò il braccio all’altezza del gomito per farglielo stendere e sollevare.

Grecia voltò lo sguardo, gli occhi assonnati seguirono il movimento dell’ago che si inclinò. La punta scintillante toccò la pelle, creò una fossetta di ombra, penetrò nella carne, attraversò i labbri della ferita, e stese la porzione di filo dentro la carne piagata, e bucò la pelle dall’altra parte. Grecia non sentì dolore.

Sollevò gli occhi al soffitto, e il gattino passò da una spalla all’altra. “Che noia,” mormorò Grecia, contro il ricevitore. “E io che pensavo di metterci una pietra sopra e di finirla così.”

Il medico gli posò una mano sulla spalla, poco più sotto la porzione laccata con la tintura di iodio, e fermò il movimento del braccio. “Signore, la prego, cerchi di rilassare i muscoli del braccio, altrimenti non riesco a ricucirla.”

Una risata spremuta fra le labbra attraversò i pori del ricevitore e spernacchiò nell’orecchio di Grecia. “Pfft! Ti stanno ricucendo?”

Grecia rilassò il braccio come gli aveva detto il medico e rivolse un’occhiata seccata alla cornetta, storcendo un sopracciglio. Il muso del gattino pezzato si infilò tra la sua guancia e il ricevitore, sfiorò la cornetta con i baffi e miagolò. L’ago a uncino riprese a entrare e uscire dalla carne, tirando la pelle e unendone le due labbra. Gli occhi del medico si restrinsero dietro le lenti degli occhiali tondi.

“Ooh, poveretto,” si lamentò Turchia, con tono da presa in giro. “Ti sei fatto seriamente prendere a calci da Italia?”

Grecia aggrottò la fronte. “Stai zitto,” disse, placido, con tono calmo.

L’ago lo bucò verso il centro del lacero aperto e bagnato di tintura, la puntura di dolore arrivò come una piccola scossa. Questa volta, Grecia non riuscì a trattenere un sussulto. Il medico accennò un “Scusi”, e continuò il lavoro, con la mano che gli tremava leggermente.

Grecia distolse lo sguardo dalla spalla ferita, lo rivolse al ricevitore, e il musetto del gattino gli carezzò la guancia, sfregandogli la pelle con il nasino umido.

“Ho combattuto contro Italia qualche giorno fa, è lì che gli ho proposto l’armistizio.”

“Ah,” fece Turchia. “E com’è andata a finire?”

Le labbra di Grecia si curvarono in un finissimo sorriso celato dall’ombra, ma gli occhi restarono opachi, socchiusi, e velati di sonno. “Gliele ho suonate.”

Turchia sospirò. “Quante volte ti devo ripetere che non si picchiano i bambini piccoli?”

L’ago che scorreva attraverso la pelle di Grecia scaricò un altro ramo di elettricità che scoppiò all’altezza della spalla e serpeggiò fino alle punte delle dita. Grecia socchiuse gli occhi, strinse le labbra ed emise un sottilissimo sbuffo dal naso. Un piccolo spasmo fece tremare il braccio e contrarre le dita. Tornò a guardare la ferita. Il medico fece scorrere il filo dentro la carne, sollevando un sottile suono di sfregamento assieme a quello viscido della ferita che si chiudeva. Grecia sentì la pelle che si stendeva sotto la pressione del filo che andava a unire le due estremità del taglio. Il medico fermò l’ago a mezz’aria, tenendo il filo teso, raccolse un paio di forbicine d’acciaio dalla tasca del camice e tagliò via l’ago – zac! –, chiudendo l’ultimo nodo.

Grecia sollevò un sopracciglio, alzò il braccio ricucito. “Nemmeno lui ci è andato piano.” Goccioline rosse di tintura di iodio lacrimarono dia punti di sutura che strizzavano la pelle sotto i nodi del filo.

“Davvero?” la voce di Turchia tornò a squillare nel ricevitore. “Com’era, forte?”

“No, non forte, solo...” Grecia guardò in basso, fece dondolare i piedi che sfioravano il pavimento della tenda, e la punta di uno stivale raschiò via una striscia di sabbia. “Un po’ più coraggioso del previsto.”

Il medico ripose le forbicine nella tasca del camice ed estrasse un rotolo di garza nuova. Tornò a far sollevare il braccio a Grecia, stese la prima estremità della benda sotto il muscolo, e arrotolò la fasciatura sopra la ferita ricucita. La benda si colorò un rosso scarlatto molto intenso, simile al marrone, inumidendosi della tintura di iodio.

Grecia arricciò un angolo delle labbra. “È stato comunque...”

I ricordi della prima battaglia contro Italia gli appannarono la vista.

Il campo avvolto dalla nebbia di pioggia che evaporava dal terreno, le montagne che li isolavano all’interno della valle, le rocce che brillavano di bianco quando lui dava ordine ai mitraglieri di aprire il fuoco, e il frastuono della raffica di spari che nascondeva lo scroscio incessante del diluvio. Il corpo insanguinato di Italia che si trascinava aggrappandosi alle pietre bagnate, che tremava come una foglia ma che riusciva comunque a rialzarsi. Il lampo di luce che aveva abbagliato la vista a entrambi, scoppiando dall’incontro dei due fucili che si erano trasformati nelle armi antiche. La soffice mano della sua mamma gli avvolgeva il polso, le dita sottili carezzavano le nocche, il suo tocco leggero guidava i movimenti del braccio. L’intensa luce la avvolgeva come un’aura, il vestito sventolava gonfiandosi e sgonfiandosi attorno alle caviglie e attorno alla vita, i capelli ondeggiavano dietro la schiena, il calore della sua presenza lo cullava come quando da piccolo si addormentava stretto fra le sue braccia.

Il gattino si stese sulla spalla sana, allungò una zampetta e giocherellò con una sua ciocca di capelli, facendola dondolare. Il tocco della zampa che gli sfiorava la guancia riportò i pensieri di Greci all’interno della tenda. L’aria punse l’olfatto, tornò a odorare di disinfettante, non più di pioggia.

Grecia scosse il capo. “È stato uno scontro, uhm...” Sollevò la spalla bendata, squadrandola con aria assente. Il medico aveva finito ed era tornato al tavolo da lavoro, a riporre gli strumenti. Grecia si strofinò una tempia. “Interessante.”

“Scherzi?” ridacchiò Turchia. “Contro Italia? Dev’essersi proprio impegnato per essere addirittura riuscito a ferirti.”

Grecia abbassò le palpebre. Il senso di disagio e irritazione gli scurì il viso, gettandolo in ombra. “Già.”

Il gattino agitò di più la zampetta attorno alla ciocca di Grecia, le orecchie si rizzarono e gli occhi gialli si spalancarono di meraviglia, seguendo il dondolare dei capelli fra le sue unghiette appuntite. Grecia gli posò delicatamente una mano sul musetto e lo tenne buono, carezzandogli il collo e la schiena. Sollevò il braccio ferito, tornò a guardarsi le bende macchiate di iodio e osservò anche il braccio sano, solo irrigidito dal freddo e avvolto dalla manica. Abbassò gli occhi, fece oscillare le gambe che sfioravano il pavimento, esaminò il corpo senza nemmeno un graffio, la pelle integra, le ossa intatte, i muscoli caldi e pulsanti.

Corrugò la fronte.

Che strano.

Resse il ricevitore solo premendolo fra orecchio e spalla, si tastò il petto, fermò il palmo dove batteva il cuore, ascoltò un paio di battiti, e andò a massaggiarsi la pancia.

Tutte le altre ferite che ho ricevuto quando ho combattuto contro Romano si sono già rimarginate. Non che ne abbia ricevute poi così tante, ma almeno i graffi e le contusioni che mi sono fatto saltando da una roccia all’altra... è strano.

Un brivido di freddo attraversò il braccio snudato. Grecia si toccò la benda, massaggiò delicatamente il muscolo che aveva vibrato, sentendo le vene che erano salite in rilievo, e placò i brividi.

Ma questa sta facendo più fatica del solito a guarire.

Restrinse gli occhi, posò una nocca sul labbro inferiore, e rimuginò con occhi grigi e assenti.

Chissà perché?

“Ma c’erano tutti e due?” tornò a squillare la voce di Turchia, dall’altro capo della linea.

Sentendo il ricevitore vibrare contro l’orecchio, Grecia scosse il capo, riprendendosi dallo stordimento. Lo sguardo intontito ancora rivolto per terra. “Mhm?” Voltò la guancia contro la cornetta, il muso del gattino si immerse fra i suoi capelli, dietro il padiglione dell’orecchio, facendogli il solletico. “Tutti e due chi?” domandò Grecia.

Il medico richiuse la sua cassetta degli strumenti con uno schiocco, ne raccolse il manico d’acciaio. Si piegò, mostrando una riverenza a Grecia, e uscì dalla tenda, richiudendo il lembo di stoffa. Penetrò una sola alitata di vento odorante di neve e zolfo.

“I fratellini,” rispose Turchia. “Non dirmi che Italia è stato così rimbecillito da venire contro di te da solo.”

Grecia fece roteare gli occhi al soffitto della tenda. Piegò verso il basso un angolo delle labbra. “Più o meno.” Tornò ad appiattire la bocca. “E comunque è un rimbecillito a prescindere.” Prese il lembo della manica arrotolata sopra la spalla e la lisciò lungo il braccio, fino al polso. Diede un’ultima sfregata all’altezza del gomito, stando attendo a non sciogliere la benda. “Lui e Romano guidavano due settori differenti, comunque. Mi sono battuto contro uno alla volta.”

Turchia sbuffò. “Li hai rispediti indietro con un calcio nelle chiappe, almeno?”

Grecia trattenne il respiro, fermò le gambe dondolanti, irrigidì i muscoli delle braccia e delle spalle, stringendo la mano libera attorno all’orlo del tavolo. Rimase a occhi aperti, espressione piatta. Abbassò la fronte e sospirò.

“Ci ho provato.”

Il silenzio ovattato dalle pareti della tenda si riempì dei suoni che aleggiavano mescolandosi nei ricordi di Grecia.

Il fischio del vento che trasportava le frustate di pioggia ghiacciata, gli scoppi degli spari che esplodevano fra le pareti delle montagne, il rumore scricchiolante dei passi che correvano sul suolo rivestito di fango ghiacciato. Il respiro pesante di Italia che gonfiava spesse nuvole di condensa attorno al suo viso già pallido e sanguinante, le labbra secche che boccheggiavano, i tremiti che gli scuotevano il corpo piegato dal dolore. “Avevo promesso che...” La sua voce rauca, rotta dalla fatica e dai singhiozzi di pianto, si trascinava nel vento. “Che sarei stato coraggioso.” Il suono dei suoi passi che avanzavano nelle pozze – splash! – e quello della sua gola arrochita che guadagnava fiato, del tono di voce che gridava di disperazione. “Non voglio più scappare davanti a nessuno!”

Il corpo di Italia appeso al fucile piantato con il calcio nel terreno, le braccia fasciate attorno alla volata rivolta al cielo, la guancia umida di pioggia e grigia come quella di un cadavere premuta contro la parte metallica della canna, il viso scuro, bagnato, rigato dalle colate di sangue che fluivano dall’attaccatura nei capelli e che si raccoglievano attorno alle palpebre, fra le labbra ansimanti, e che gocciolavano dal mento. Gli occhi si spalancavano, brillavano ardenti e coraggiosi. “Anche io posso essere forte come te.” Il corpo tremava sotto gli spasmi del respiro pesante, i piedi scivolavano nel fango raccolto attorno agli stivali, la pioggia gli appiattiva i capelli scuri e gocciolanti contro il viso. “Anche io sono il discendente di un’antica nazione!”

La furia che vorticava negli occhi di Romano, scuri e accusatori dietro il profilo della beretta, tornò a trapassargli la mente. Il suo grido lacerante tuonava più delle nuvole che tappezzavano il cielo viola della tempesta. “Dimmi dove cazzo è mio fratello o ti faccio saltare la testa!” E il suo corpo piegato, che giaceva sui gomiti e sulle ginocchia, schiacciato contro la pietra dalle mitragliate di pioggia. Il capo basso e la fronte china. “Io volevo solo proteggerlo,” singhiozzava il ricordo della voce di Romano. “Volevo solo proteggere mio fratello, e non sono riuscito a fare nemmeno questo!”

Grecia dovette sbattere più volte le palpebre per sciogliere le immagini da davanti gli occhi, e la sensazione della pioggia, fredda e appiccicosa sulla pelle, scivolò via. Tornò ad afferrare il ricevitore, stringendolo fra le dita e premendolo all’orecchio, e il gattino zampettò da una spalla all’altra, accucciandosi.

“Per il momento ho utilizzato una manovra a tenaglia per chiuderli nelle montagne,” disse Grecia, rivolgendo gli occhi al soffitto. “Li ho spinti a ripiegare in Albania, verso Konitsa, e adesso sono lì, credo.” Scrollò le spalle, mostrandosi indifferente, e abbassò il tono. “Ho preferito non infierire.”

“E perché?” sbottò Turchia. Era più seccato lui di Grecia. “Ti hanno attaccato senza motivo, avresti tutte le ragioni di questo mondo per –”

“Non era necessario,” lo interruppe Grecia. Il viso si rilassò, una luce opaca attraversò le iridi, donò agli occhi una sfumatura più grigia e avvilita.

Rivide il corpo immobile di Italia che giaceva nella neve tinta di rossa, il viso girato di lato, la guancia premuta contro la roccia, il sangue che continuava a colare dalla sua bocca e dai suoi vestiti, le braccia e le gambe stese, immobili, e i fiocchi di neve che gli spolveravano i capelli di bianco. Un ultimo spasmo, un tremito breve e profondo, e il corpo che tornava raggelato al suolo. Gli occhi si chiudevano.

Rivide anche le braccia dei soldati italiani avvolte attorno al busto e alle gambe di Romano, le loro mani che si aggrappavano a lui, lo sradicavano fuori dalle acque del Kalamas e che lo posavano in mezzo alle pietre. Il viso cadeva di lato, bianco come gesso. Le labbra grigie e immobili, i capelli bagnati di acqua e fango appiccicati alla fronte e alle guance, gli occhi chiusi, il respiro assente.

Grecia abbassò le palpebre e sospirò. “Si sono già puniti abbastanza da soli.”

Il gattino pezzato sollevò il muso, abbassò le orecchie e intristì gli occhioni gialli, davanti allo sguardo abbattuto del padrone. Si appese con le zampette alla sua spalla, spinse il nasino contro la sua guancia e sfregò il muso contro il suo viso. “Miau!” Le fusa vibrarono contro l’orecchio, fecero il solletico. Grecia gli carezzò la testolina e lisciò il pelo maculato lungo tutta la schiena inarcata del micio. Gli rivolse il primo placido sorriso da quando era cominciata la battaglia.

La voce di Turchia lo scosse, strappandolo alle coccole del suo gattino. “Che hai intenzione di fare, adesso?”

Grecia fece scivolare via la mano dal manto pezzato del gatto, e resse il ricevitore fra i due palmi. Il lieve sorriso che gli aveva curvato le estremità delle labbra ritornò una linea piatta. Grecia si strinse nelle spalle.

“Aspetterò che si arrendano.”

“Cosa?” esclamò Turchia. “E cosa ti fa credere che si arrenderanno? Lo hai detto anche tu che hanno rifiutato l’armistizio.”

Grecia prese un piccolo respiro e guardò in alto. Strinse le dita attorno al ricevitore, rafforzò il tono, mantenendolo però morbido e pacato. “Perché ora conosco il motivo per il quale combattono.”

L’eco delle parole di Romano tornò a gridargli nella testa: “Tutto questo è successo solo perché dovevamo dimostrare di essere forti come lui!”

Grecia sollevò le sopracciglia. Un soffio di compassione gli solleticò il cuore, scaldandoglielo. “E nessuno sarebbe in grado di resistere a lungo con una motivazione simile alle spalle.”

Il gattino agitò la coda lungo la sua spalla e continuò a fare le fusa, intiepidendo il collo di Grecia con il suo fiato.

Grecia tornò a toccarsi la spalla ferita, strinse le dita attorno al rigonfiamento della benda sotto la stoffa della maglia. “Cederanno,” disse, quasi per rassicurare Turchia. “Ora che li ho chiusi in trappola, spero che si renderanno conto che l’inverno su queste montagne non è clemente come me. Torneranno a casa presto, non appena inizieranno a congelare.” Le dita si chiusero, una piccola scossa di dolore gli trafisse il muscolo. Grecia stropicciò la punta del naso. “E, se non lo faranno, a quel punto li costringerò io.”

Turchia sghignazzò una risata che fece tremare l’apparecchio contro il viso di Grecia. “Sì, se prima Inghilterra non – eh-ehm...” Tossicchiò. Si sentì il suono di una mano che batteva sul petto, come se stesse sbloccando la gola da un boccone andato di traverso, e la voce che si affievoliva in un borbottio farfugliato fra le labbra.

Grecia slargò gli occhi. Un pizzico di allarme lo punse dietro il collo. “Inghilterra cosa?”

Turchia tossì ancora. “Nie...” Di nuovo ancora, più rauco. “Niente.”

Grecia guardò storto il ricevitore schiacciato all’orecchio, aggrottò le sopracciglia, e balzò giù dal tavolo. Atterrò con un tonfo, le unghiette del micio si tennero aggrappate alla spalla per non cadere, e Grecia scoccò un’altra occhiata sbilenca ai fori della cornetta. “Inghilterra cosa?” ripeté con lo stesso timbro di prima.

Anche il gattino scattò in allarme e si mise dritto sulle zampette. Il muso rivolto alla parte superiore del ricevitore premuta contro l’orecchio di Grecia, in attesa di una risposta di Turchia. Le orecchie dritte e attente.

Turchia mugugnò. Farfugliò qualcosa fra le labbra, lamentandosi e maledicendosi. “In...” Il suono si abbassò e ridiventò forte. “In realtà...” Si sentì un suono di sfregamento – Turchia si era strofinato la nuca – e la sua voce tornò limpida attraverso i pori. “Guarda, io non ti ho detto niente, sia chiaro. E se...” Prese un forte respiro, indurì il tono. “E se osi fare la spia sul mio conto ti taglio la lingua!”

Grecia storse verso il basso un angolo delle labbra. Lui e il gattino pezzato si scambiarono un’occhiata annoiata, e Grecia tornò a guardare il ricevitore, in attesa.

Turchia continuò. “Ma credo che Inghilterra abbia in cantiere qualcosa di grosso.”

Grecia raddrizzò le spalle, restrinse le sopracciglia, mostrò sguardo confuso. “Intende venire qua a Creta e dirigere la difesa di persona?”

“No, no, niente Creta. Figurati se si degnerebbe di alzare il culo dall’isola per fare un favore a qualcun altro. Io credo...” Turchia balbettò. Di nuovo il suono della sua voce si allontanò e tornò vicino. “Credo che voglia sistemare le faccende con Italia a,” tossicchiò, “modo suo.”

Grecia lanciò uno sguardo al ricevitore, staccandolo dal viso. “Perché dovrebbe farlo?” sbottò, ma la voce tornò subito morbida e trascinata. “Italia è un problema mio, non suo.” Riprese a camminare verso il tavolo su cui prima era seduto, abbassò la voce. “E finora non mi sembra di aver dimostrato di aver bisogno di aiuto.”

“Non so che gli passa per la testa, sai com’è fatto Inghilterra. Vorrà mettersi in mostra, fare lo spaccone, o stuzzicarlo, faccia quel che vuole.” Turchia sospirò. Il timbro di voce riprese a essere basso e pacato. “Ma penso che questa volta la cosa sia,” si interruppe, guadagnò un piccolo respiro, “un po’ più seria del solito.”

Grecia sentì una punta di fastidio pizzicargli la pelle come l’ago disinfettato che prima gli aveva ricucito la carne. Strinse le mani attorno alla cornetta. “Vuole intervenire direttamente qui sulle montagne?”

“No, su un porto, in Italia. Non chiedermi quale.”

Le unghie di Grecia stridettero contro la plastica. Gli occhi persero il velo insonnolito, tornarono lucidi e svegli come quando si trovava sul campo di battaglia, gocciolante di pioggia. Poggiò la mano libera sul tavolo e serrò anche l’altro pugno contro il legno.

“Probabilmente è tattica,” disse Turchia, tranquillizzandolo. “Vorrà colpire Italia direttamente sul suo territorio in modo da indebolirlo ulteriormente dopo i tuoi attacchi, e così dare più possibilità a te di...”

“Io e Inghilterra non ci eravamo mai accordati su questo.” Grecia tornò ad allargare le spalle. Parlava guardando direttamente il ricevitore. La coda del suo gattino oscillò dondolandogli davanti al petto. “Se davvero lo fa per aiutarmi, allora perché io non ne sapevo nulla?”

“Senti, non lo so. Tutto quello che ti posso dire è di stare attento perché,” un altro sospiro secco, “perché non so fino a che punto Inghilterra possa spingersi, questa volta.”

Grecia mostrò un’espressione di disappunto. Fece scivolare via la mano dal tavolo. “Io e Inghilterra abbiamo idee completamente differenti sul concetto di guerra, e anche sul rispetto nei riguardi del nemico.” Incrociò le braccia al petto, camminando lungo il tavolo e tenendo il ricevitore contro la guancia. Il cavo della radio strisciava dietro di lui, passandogli sopra la spalla libera, non occupata da gattino. “Il mio obiettivo non è mai stato quello di distruggere Italia,” disse Grecia. “Ma solo quello di cacciarlo via da qui. Non posso permettere che Inghilterra faccia di testa sua contro il mio nemico.” Si fermò. Inarcò un sopracciglio, mostrando una sottile maschera di sprezzo. “Le sue azioni rischierebbero di intaccare anche il mio prestigio diplomatico e questo è parecchio seccante, considerando che io avrei voluto starmene lontano da tutto questo fin dall’inizio.”

Turchia si lasciò sfuggire una ridacchiata. “Se vuoi fare qualcosa per impedire che Inghilterra compia qualche idiozia, ti conviene sbrigarti.” Di nuovo un suono di sfregamento, come se avesse scrollato le spalle. “Ma ormai penso sia impossibile fargli cambiare idea. Ha già tutto l’arsenale pronto.” Turchia sbuffò. Fu un lungo soffio liberatorio. “Speriamo solo che non ci vada giù troppo pesante.”

Grecia abbassò lo sguardo. I capelli scivolarono contro le guance e gli occhi, misero in ombra il viso rivolto verso il basso. Stese il braccio che non impugnava la cornetta contro il fianco, il gattino si portò più verso il suo collo, stando accucciato nell’incavo della clavicola per non cadere. Grecia restrinse gli occhi. Il suono basso e profondo della sua voce pensante che meditava fra le pareti del cranio gli appannò la vista.

Se Inghilterra vorrà andare sul pesante, io non potrò farci nulla.

Strinse il pugno contro il fianco e la pelle gemette.

Ma come posso starmene qua senza far niente...

Lo sguardo acceso di Italia, il suo corpo che cadeva nel fango e che si rialzava ogni volta, le scie di sangue che scorrevano sul suo viso assieme alle lacrime, e le parole coraggiose che aveva avuto la forza di urlare, anche se gli mancava il fiato.

Il pianto che Romano aveva spanto mentre era piegato, in ginocchio, davanti a lui. Il corpo debole e distrutto dalla disperazione, e il suo unico disperato desiderio di ritrovare il fratello.

Dopo che ho visto quello, dopo tutto quello che mi hanno detto...

Grecia prese un sospiro. Abbassò le palpebre, il viso e i muscoli si rilassarono. Si toccò di nuovo la ferita, carezzò la parte rigonfia, in rilievo sotto la stoffa della manica.

Adesso io so che nessuno di loro due meriterebbe una cosa del genere, qualsiasi idea abbia in mente Inghilterra

 

♦♦♦

 

9 novembre 1940

 

Lo stivale sprofondò nel manto di neve. La suola scricchiolò contro la distesa ghiacciata, frantumò i residui di terra che si erano cristallizzati, diventando neri e solidi come tracce di carbone. La gamba affondò fin sotto il ginocchio, le bende che fasciavano gli stivali erano già sporche, sgualcite, e si inumidirono. Profonde buche scavarono una scia nella neve dietro il passaggio della marcia. Romano sollevò il capo, resse la bretella dello zaino con una mano sola. Soffiò una gonfia nube di condensa che si solidificò una volta fuori dalle labbra, e si passò un braccio sulla fronte sudata per tenere le ciocche della frangia lontane dagli occhi rossi e gonfi di stanchezza. Le labbra secche e bluastre vibravano di freddo, sottili cristalli di ghiaccio si erano solidificati in mezzo alle ciglia, agli angoli delle palpebre, e sulle guance diventate scarlatte come la punta del naso. Profondi segni neri bordavano gli occhi, sciupavano la pelle scarna e pallida per il freddo. Lo sguardo luccicava, stremato e febbricitante, pupille sottilissime e tremanti macchiavano il colore scuro dell’iride.

Romano sollevò la gamba, estrapolò il piede dalla neve, e compì un altro passo, tornando ad affondare lo stivale nel ghiaccio. Il suono che produceva la neve calpestata era simile a quello che emette un morso secco dato a un pezzo di torrone. Romano strinse i denti, chinò la fronte gocciolante di sudore, le guance si fecero ancora più rosse, e soffiò uno sbuffo di fiato bianco dentro il colletto dell’uniforme. Lo aveva tirato fin sotto la gola.

Andò avanti, camminò senza pensarci.

I soldati che marciavano dietro a Romano passarono dentro la scia lasciata dai suoi piedi, allineati a due a due, ribaltarono i grumi di neve ghiacciata, mescolata ai grani di terra, alle radici e alle zolle di erba secca e morta. Teste basse, spalle chine sotto il peso degli zaini gonfi che schiacciavano le spalle, mani arse dal freddo fasciate da pezzi di stoffa strappati dalle uniformi. Teli impermeabili svolazzanti li avvolgevano come mantelli, tenevano coperti gli zaini e i fucili appesi alle scapole. Un vago clangore metallico risuonava dal fondo della fila, dai carri cingolati che trasportavano quel che rimaneva dei pezzi di artiglieria. Di fianco alla scia di soldati appaiati, marciavano i muli carichi di sacche sulle groppe. I musi bassi, il pelo scuro e bagnato di sudore, e le orecchie ciondolanti che sfioravano la neve. Muco giallo scendeva dalle narici degli animali, dilatate dalla fatica. Schiuma rosata, mescolata ai sottilissimi rivoletti di sangue che scendevano dalle lingue tagliuzzate dai morsi troppo consumati, colava dalle loro bocche. Nubi di fiato spesse e gonfie sbuffavano e avvolgevano i loro musi che sfioravano la neve ribaltata dagli zoccoli. I fianchi degli animali sporgevano dalla pelle madida di sudore, le ossa senza un filo di grasso o di muscolo premevano sui carichi allacciati alle loro groppe. I soldati li dovevano strattonare e incitare dando piccoli colpi sulla schiena a ogni tre passi per non farli fermare.

Romano socchiuse gli occhi neri di stanchezza, guardò in basso, in mezzo ai suoi piedi che brancolavano nella neve, e isolò i rumori attorno a sé. Udì solo lo scricchiolare del ghiaccio sotto i suoi stivali, il contenuto del suo zaino che padellava battendo sulla schiena e che tintinnava contro il fucile, le articolazioni che emettevano suoni simili a cigolii metallici, come ingranaggi arrugginiti, e il fiato pesante che soffiava dal naso e dalle labbra.

Un profondo e lungo gorgoglio gli fece vibrare la pancia, contraendola in un nodo di dolore.

Romano strinse il braccio attorno allo stomaco, chiuse gli occhi e serrò i denti trattenendo il respiro fino alla fine del crampo di fame.

Aveva fame, sete, freddo. I muscoli tremavano di fatica a ogni passo, i piedi facevano così male che camminare attraverso la distesa di neve era come passeggiare su un fondo di coralli aguzzi. Il viso sudava, il rossore della febbre lo faceva fiammeggiare, il vento gelido cristallizzava l’umidità sulla pelle, le guance e le labbra bruciavano come i polmoni e la gola. L’aria passava sibilando e usciva attraverso gemiti rauchi e cavernosi.

Romano gonfiò un’altra nube di fiato, bianca come latte, che rivestì completamente il viso, strappandogli la vista dal manto di neve.

La visione del bianco che lo avvolgeva riportò Romano all’ambiente di acqua e luce nel quale si era trovato immerso dopo la caduta nel Kalamas. Provò il calore del flusso d’acqua che gli massaggiava i muscoli indolenziti, la morbidezza della corrente così soffice e delicata. Una serie di mani tutte attorno al suo corpo che lo carezzavano avvolgendolo in un abbraccio. La luce splendette, bianca e forte. Romano chiuse gli occhi, continuando a camminare senza rendersene conto, e si lasciò cullare e portare via dal vortice d’acqua calda che...

Scosse la testa, staccò la mano dalla bretella dello zaino e si diede due soffici pugni sulla tempia, risvegliandosi dal sonno. La vista vacillò, la testa girava per i brividi di freddo, e le vertigini della febbre lo facevano ansimare e sudare a ogni passo.

Romano si tenne il capo fermo con il palmo aperto che premeva sulla guancia, sulla tempia e sulle palpebre socchiuse. Guardò in avanti, verso la bianca linea d’orizzonte che divideva il suolo innevato dal cielo grigio e nuvoloso, macchiato da nubi gonfie e alte che nascondevano la sfera del sole. I rilievi dei monti innevati salivano lungo il cielo, le punte dei pendii si immergevano nella foschia delle nuvole e svanivano.

L’immagine e la sensazione dello spazio d’acqua tornarono sulla sua pelle.

I ricordi di Italia che lo avevano aggredito ricominciarono a fare eco nella sua mente, fino a che il vortice di immagini simili a fotografie sbiadite si ritirò, svelando solo il corpo di luce di suo fratello che si era quasi fuso con il suo corpo.

Un brivido di paura pizzicò il collo di Romano. Il brivido discese la spina dorsale, facendo tremare tutto il corpo sudato e infreddolito.

E se anche lui avesse...

Romano strinse forte la mano sulla bretella dello zaino e anche quella poggiata sul viso. Intrecciò le dita secche, fredde e nodose come ramoscelli morti, alle ciocche di capelli umide di ghiaccio.

E se anche Veneziano avesse sentito quella cosa? Se anche lui si fosse ritrovato immerso là dentro? Se quello che mi sono ritrovato davanti fosse stato davvero lui? E se non fosse riuscito a uscirne? Se fosse ancora là, mentre io...

Guadagnò un respiro di aria fredda, ingollò ma non venne giù saliva. La gola era secca e bruciava.

Romano guardò di nuovo davanti a sé, fece scivolare la mano dal viso e la strinse all’altra bretella che gli fasciava la spalla rigida e indolenzita. Aggiustò il fucile dandogli una spinta con il fianco, e continuò a marciare ignorando la presenza dei suoi soldati che si trascinavano alle sue spalle.

Lo sguardo di Romano rabbuiò, come se gli fosse passata una nuvola nera sopra gli occhi.

Dove sei, Veneziano?

Strinse le labbra, quello inferiore tremò stropicciando le pieghe sciupate del viso. Romano dovette socchiudere gli occhi per non sentire il peso delle lacrime premere contro le palpebre.

Ti prego.

Tirò su col naso, si sfregò le guance e gli occhi, anche se non erano bagnati, e rivolse lo sguardo al cielo, contro le nuvole che tappezzavano il cielo grigio cenere. Le sopracciglia si inarcarono in un’espressione triste che scintillava a causa degli occhi lucidi di febbre e di stanchezza.

Ti prego, torna da me.

“Signore, il villaggio!”

Romano sussultò, come scosso da una puntura elettrica. Calò lo sguardo, sbatacchiando più volte le ciglia indurite dai cristalli di ghiaccio.

“Cos...”

Si mise la mano davanti alla bocca e tossicchiò due volte, sciogliendo l’asprezza della voce che aveva creato un nodo in fondo alla gola. Le vertigini fecero scintillare chiari grappoli di luce davanti ai suoi occhi ancora assenti. Romano sfregò le nocche contro le palpebre, fredde e ghiacciate anche quelle, e si rivolse al soldato che gli era corso di fianco, ancora rosso in viso per la fatica di saltellare nella neve. Le labbra fumanti dell’uomo sorridevano, però.

“Dove?” biascicò Romano, come fosse appena stato buttato giù dal letto.

Il soldato gli rivolse il sorriso nascosto dall’imbottitura che era stata aggiunta all’uniforme di cotone, e i suoi occhi scintillarono. Gettò il braccio davanti a sé, tese l’indice, e camminò di due passi di lato, sfiorando la spalla di Romano. “Laggiù, guardi.” Premette due volte il dito contro l’aria, indicando la linea d’orizzonte. “È Konitsa. Siamo arrivati!”

Romano slargò gli occhi, le palpebre nere si infossarono nei tratti sciupati e rossi del viso, le pupille si restrinsero, tremarono, misero in risalto il bianco dell’occhio rivestito da sottili vene rosse.

Il cuore si fermò in gola, gli mozzò il fiato arrochito dal freddo.

Arrivati?

La linea di orizzonte si curvò verso il basso, seguendo il pendio morbido del colle che si rovesciava dentro la conca di una valle. In mezzo al manto bianco della neve cristallizzata al suolo, che aveva avvolto picchi di rocce, macchie di vegetazione, e strade che snodavano verso il centro, riposavano i tetti del villaggio di Konitsa, spolverato dalla nevicata.

Romano trattenne il fiato, socchiuse la bocca, le guance rosse impallidirono.

I pensieri frullarono in testa come un vortice di vento e detriti.

Case, cibo, acqua, cibo, riparo, cibo, caldo, cibo!

Le guance di Romano si riempirono di saliva schiumante, dalle labbra aperte sgorgarono due righe trasparenti che bagnarono i denti e colarono fino al mento. Romano si leccò le labbra, gli occhi tremarono, lucidi di eccitazione, e lo stomaco si contrasse in due violenti crampi di fame che gli annodarono le budella. La vista divenne tutta rossa, come se la neve sanguinasse. Il campo visivo si restrinse sui piccoli tetti imbiancati del villaggio che li aspettava in fondo al colle.

Romano usò la manica della giacca per raschiare via la saliva dalla bocca e diede una spinta con i piedi, cominciando a correre in mezzo agli spruzzi di neve. Affondò due passi, e le ginocchia si piegarono, sprofondando in mezzo alla neve, come ramoscelli spezzati. Romano sussultò. Le sue labbra soffiarono vapore bianco, profondi ansimi di fatica e impazienza bruciavano contro le pareti della gola. Innalzò una gamba, aggredì un’onda di neve, scavò con le braccia per farsi spazio, tenendo i denti stretti per contenere i gemiti di fatica. Avanzò anche l’altra gamba tirando su il ginocchio fino al petto. Il peso dello zaino e del fucile sulla schiena lo schiacciò. Le spalle caddero in avanti e Romano atterrò di petto, riparandosi con le braccia. I cristalli di neve gli entrarono sotto la divisa, scaricando violenti brividi di freddo che si sciolsero e scivolarono lungo la schiena. Romano gemette. Si ribaltò sul fianco con uno strattone e si sfilò la prima bretella. Lo zaino si inclinò trascinandolo con sé dentro la neve. Romano ripeté il gesto e strattonò dall’altro lato, gettando via anche la seconda bretella assieme alla cinghia del fucile.

Frush!

Tutto il peso del suo bagaglio precipitò a terra e aprì una voragine nel bianco.

Romano si scrollò il ghiaccio e i brividi di dosso, si rimise dritto, dondolò a destra e a sinistra, e riprese a correre. Il cranio pulsava, il mal di testa martellava contro le tempie e contro la nuca, i brividi di febbre gli imperlavano la fronte di sottili goccioline di sudore, le labbra socchiuse e ansimanti annaspavano di fatica, la gola bruciava, soffiava violente gettate di vapore fuori dalla bocca, e le gambe e le braccia tremavano dalla fatica.

Romano ignorò il dolore. Ignorò i suoi soldati che erano rimasti alle sue spalle, li lasciò in mezzo alla neve. Si precipitò verso il villaggio nascosto alle radici dei monti.

 

.

 

Romano piegò il gomito contro la pancia e gettò la spalla contro la porta della casetta. La serratura cedette, cigolò e si incrinò, facendo saltare in aria il gancio d’ottone ancora unito a delle schegge di legno umido. Era come un dente estratto alla radice, ancora sanguinante, incollato a lembi di gengiva.

Romano saltò dentro la casetta. La porta dietro di lui sbatté sul muro, rimbalzò scrostando una scaglia di intonaco, e restò socchiusa, riportando un fascio di penombra nella stanza. Romano si massaggiò la spalla che aveva colpito la porta. Sollevò lo sguardo, scosse la testa, fece correre le dita fra i capelli scompigliati dalla corsa e dalla botta, e inquadrò la stanza.

Un denso e pregno odore di muffa gli penetrò le narici e strinse lo stomaco già contorto dalla fame. La puzza di umido e di marcio stagnò nella sua bocca, a Romano parve di sentire uno strato verde e friabile, come quello sulla crosta del formaggio invecchiato, formarsi sulla sua lingua e riempirgli le guance. Deglutì d’istinto, mandando giù un sorso di quell’aria vecchia e fredda che sapeva di legno marcito.

La porta accostata allo stipite, dietro di lui, lasciò passare una lama di luce grigia che soffiò sul pavimento un sottilissimo strato di neve ghiacciata. Il fascio di luce attraversò la camera, passò di fianco a un piede di Romano, e si arrampicò lungo la cassapanca poggiata contro la parete. Ragnatele bianche e fitte come strati di lino filavano dalla cassapanca al muro, si arrampicavano su per la parete e nidificavano tra gli spigoli delle credenze di legno, vuote. Strati di polvere luccicavano sui mobili, che sembravano aver fatto un bagno nella farina.

Qualcosa si mosse.

Romano voltò il capo di scatto, scivolando di un passo all’indietro, e una piccola ombra si rintanò squittendo dietro il baule accostato al caminetto spento. Cenere e polvere imbiancavano camino e baule. Lo sguardo di Romano volò sulla chiusura della cassa. Aperta, niente lucchetto.

Trattenne il fiato, serrò le labbra per tenere dentro la saliva che aveva ripreso a gocciolare dalla lingua, dalle guance e dalle gengive, annaffiandogli la bocca, e scattò contro il baule. Scivolò sulle gambe, sbatté le ginocchia contro una parete di legno, e piegò le spalle, incastrando le dita nello spazio di apertura. Le dita tremarono, fredde e sudate. Le unghie si infilarono fra le due labbra di legno, Romano strinse i denti e forzò le braccia, innalzando il coperchio. I cardini cigolarono, le braccia vibrarono, deboli e senza energia, e il legno gli scivolò dalle dita.

Slam!

Si richiuse sbattendo, e l’eco fece tremare le quattro pareti della casetta.

Romano ringhiò di rabbia. “Merda.” Piegò di nuovo le dita ad amo, irrigidì le braccia, gonfiandone i muscoli, e tornò a premere le mani contro la chiusura del baule. Strizzò gli occhi, il sudore gocciolò più rapido e copioso dalla fronte, gli incollò i capelli alla pelle, e le guance tornarono rosse di fatica. Spinse all’indietro piantando le suole degli stivali a terra, e slanciò il coperchio in aria, facendolo sbattere contro il muro.

Si alzò una nuvola di polvere che evaporò come un banco di nebbia.

Romano diede una spinta sulle ginocchia, si rimise in piedi, arretrò di un passo, lontano dal nuvolone di polvere, e sventolò il braccio davanti a sé. Tossì due volte, chinò il capo contro la spalla per ripararsi dal muro di polvere, ma i suoi occhi restarono contro il coperchio spalancato del baule.

Il pulviscolo scivolò giù dalle pareti di legno, svelò uno spazio nero.

Romano si gettò contro, si appese con le mani al bordo del baule, e volse lo sguardo all’interno. Respirava a bocca aperta, a fatica. Il cuore palpitava di ansia. Romano infilò un braccio dentro la cassa e sventolò via dei riccioli di polvere bianca. Svelò il fondo. Vuoto. La luce abbagliò un ragnetto nero che zampettò verso l’angolo della cassa e si rintanò dietro un velo di ragnatela appiccicato al legno.

Romano emise un gemito di frustrazione, divenne nero in viso, gli occhi febbricitanti luccicarono di rabbia.

Spinse le mani contro l’orlo della cassa, si diede lo slancio e si buttò contro l’altra parete della stanza, quella rischiarita dalla lama di luce che entrava dalla porta. Si buttò di nuovo sulle ginocchia, cadde davanti agli armadietti sotto il lavabo di vernice laccata. La vernice era scrostata, si vedeva il fondo di ruggine sotto le macchie bianche, e lo sbocco del rubinetto era intasato da una goccia di ghiaccio. Romano spalancò le due ante, gettò le braccia dentro il cassetto e tastò il fondo liscio e vuoto. Le dita si arrotolarono in una ragnatela che gli rimase appiccicata alla pelle e all’orlo della manica. Romano strisciò di lato, andò a toccare anche il fondo più a destra, e trovò vuoto anche quello.

Un conato di rabbia fece emergere un guaito di disperazione che suonò come il lamento di un cane preso a botte.

Romano si aggrappò al bordo del lavabo sopra la sua testa. Si tirò in piedi gemendo. Un crampo allo stomaco e il senso di fame lo colpirono con un capogiro dritto sulla tempia. Romano vide la stanza girare su se stessa, si prese le tempie fra entrambe le mani, e chinò la fronte, scuotendo il capo più volte. Guadagnò un respiro profondo, il capogiro si attenuò, le vertigini si sciolsero, il nodo di fame alla pancia allentò la presa.

Sollevò gli occhi. Inquadrò le mensole appese al muro, di cui non vedeva il fondo.

Romano saltò sulle punte dei piedi, allungò le braccia e fece strisciare le mani lungo la superficie di legno. Tastò il manto polveroso, morbido e friabile sotto i polpastrelli che strisciavano fino alla parete. Tese di più le punte dei piedi, fino a sentire una scossa di dolore attraversare le caviglie. Le dita raggiunsero il fondo della parete, palpeggiarono il vuoto, il legno liscio e il muro rugoso di intonaco scrostato e gonfiato dall’umido. Romano zampettò verso destra, fece strisciare le mani lungo tutta la cassapanca. Tirò su uno strato di polvere che gli fece diventare la pelle grigia, le ragnatele si intrecciarono alle sue dita, gli incollarono addosso cadaveri di piccoli insetti stecchiti. La mano sbatté contro il muro, la superficie della mensola finì.

I greci si erano portati via tutto, avevano spazzolato il villaggio.

Romano strinse i pugni, graffiò la mensola, e riccioli di legno umido e impolverato gli si incastrarono sotto le unghie. Scese dalle punte dei piedi, tirò via le mani dal ripiano, e allungò la prima falcata di corsa dentro la lama di luce che filtrava dall’apertura della porta. Afferrò l’anta, tornò a sbatterla contro il muro, sbriciolando altro intonaco, e uscì dalla casa.

Immerse i piedi nello strato di neve già calpestata che rivestiva le stradine di Konitsa, il ghiaccio scricchiolò, un’ondata di freddo gli bruciò sulle guance e nella gola, il riflesso del sole che brillava dietro le nubi gli sbatté in faccia.

Romano sollevò un braccio per ripararsi, abbassò la fronte e corse a destra, verso l’orticello innevato che aveva visto prima di entrare nella casa.

Si appese alla staccionata, sbatté la pancia contro una delle assi di legno, si spinse in avanti con le spalle, sollevò i piedi da terra, dandosi uno slancio, e rotolò dentro il giardino. Cadde di fianco sulla neve. Gemette, quando i grumi di ghiaccio gli entrarono nel colletto e nelle maniche della giacca, e stette a quattro zampe, con le ginocchia immerse nel freddo e nel bagnato. Gli tornò il fiatone. Occhi famelici, come quelli di una bestia che non mangia da una settimana, puntarono il terreno, dalle labbra socchiuse e boccheggianti ripresero a gocciolare fili di saliva. Romano affondò le mani nella neve, immerse le braccia fino al gomito e scavò. Dopo tre bracciate, svelò una macchia di terra nera e congelata. Gonfiò i muscoli delle braccia, ignorò il dolore alle mani che erano diventate blu per il freddo, e scavò con le unghie, raschiando lo strato di terra.

Dai, pensò, spalancando ancora di più gli occhi. Una radice, una carota andata marcia dall’anno scorso, una qualsiasi cazzo di cosa da mettere sotto i denti!

Ribaltò solo sassi e terra nera e dura come carbone.

Un crampo gli diede una martellata alla bocca dello stomaco.

Romano strizzò la terra fra i pugni, si piegò in due toccando la neve con la fronte, e guaì di dolore.

Voltò il capo di lato per allontanare le labbra dalla neve e riprendere fiato. Gli occhi caddero su due porticine interrate alla base del muro che componeva una delle pareti della casa. Due porte interrate con due maniglie.

Romano spalancò gli occhi. Le vene rosse ramificarono attorno alla pupilla ridotta a una capocchia di spillo, le guance si riempirono di saliva che Romano dovette deglutire per non soffocare, la lingua impastata si contrasse in uno spasmo, lo stomaco emise un gorgoglio basso e feroce.

Le granaglie!

Romano allungò le braccia, si aggrappò alle zolle di neve, sguazzando tra gli schizzi bianchi e spingendosi con i piedi. Strisciò fino alla fine dell’orticello, si spinse in piedi, le ginocchia tremarono, e tornò a cadere, senza smettere di avanzare con le braccia. Si buttò contro le ante del granaio interrato, le mani tremanti, ghiacciate e insensibili, si appesero alle maniglie. Romano tirò le spalle all’indietro, forzò le braccia ad aprire le ante, cadde al suolo spalancando il granaio. Si impennò senza nemmeno riprendere fiato e tornò a buttarsi nell’apertura.

La luce del giorno riempì l’ambiente buio che si incavava nel terreno. Una fitta nebbia di polvere grigia galleggiava sopra tre sacchi di stoffa intrecciata, riempiti solo per metà.

Romano emise un fioco vagito di vittoria. La bocca si torse in un sorriso sbilenco da cui scivolò giù un rivolo di saliva.

Fece strisciare la pancia in avanti e tese le braccia verso uno dei sacchi, quello più a destra. Le dita si aprirono e chiusero, spremendo l’aria un paio di volte, prima di riuscire ad afferrare il lembo di stoffa. Romano vi si appese, strinse le dita come tenaglie, e lo tirò verso di sé.

Lo spalancò.

Grani secchi, macchiati da sottili strati di muffa nera e verde, brillarono sotto il chiarore del sole.

Romano deglutì un altro boccone di saliva amara e pensante. Ingollando a vuoto, lo stomaco lanciò un secondo crampo che gli avvolse tutta la pancia come l’onda d’urto di un pugno di ferro. Romano affondò il braccio nelle granaglie, scavò sul fondo, aspettando di toccare quelle più asciutte e meno sporche di muffa, e tirò su la mano. Il grano scivolò via dalle dita, gli rimase solo una manciata nell’incavo del palmo. Romano spalancò la bocca, gettò la testa all’indietro, e spinse la mano contro le labbra, riempiendosi le guance. Il sapore secco e polveroso, inasprito dal retrogusto di muffa, gli scivolò fino allo stomaco. Non masticò. Tornò ad affondare la mano nel sacco e prese un’altra manciata. Poi una terza, fino a che le guance non scoppiarono e le labbra si macchiarono di semini sfuggiti dalla presa dei denti.

Romano gettò le spalle all’indietro, si lasciò cadere di schiena sulla neve e rimase lì, a braccia e gambe spalancate, come un soldato caduto e colpito al petto.

Masticò reggendosi una mano davanti alla bocca per non farsi sfuggire nemmeno un semino. Non sapevano di niente, solo di polvere, di muffa rancida, e di marcio. Romano strizzò gli occhi, lasciò uscire due lacrime di disgusto che rimasero a traballare fra le ciglia, e continuò a masticare. I semi scricchiolavano sotto i denti, producevano il suono che fa un animale che rumina.

Romano trattenne il fiato, raccolse un nodo di coraggio attorno al cuore, e deglutì.

La pastella di semi e saliva precipitò in fondo allo stomaco, placò un crampo, gli riempì la pancia. Gli rimanevano ancora tre semini rimasti incollati alle labbra e uno sul mento.

Romano restò a bocca aperta, a respirare affannosamente, a guardare il sole annuvolato che splendeva sopra di lui e che si rifletteva sul manto di neve in cui era immerso.

La fame passò.

Romano voltò la guancia, si bagnò il viso di neve, e una delle lacrime che prima erano stillate scivolò giù dall’occhio. Piegò le ginocchia contro la pancia, strinse un braccio attorno alle gambe e uno lo raccolse attorno al viso, coprendosi la faccia.

Romano pianse, sentendo il senso di vergogna fiorire e scavargli il petto.

Era letteralmente diventato un morto di fame.

 

♦♦♦

 

10 novembre 1940, Konitsa

 

Romano si strinse i lembi della giacca attorno alle guance, si chiuse nelle spalle e rabbrividì. Aprì le mani a coppa, bendate in strisce di stoffa strappate alle uniformi dei soldati ormai morti – guanti di fortuna –, e soffiò un’alitata bianca fra i palmi, sfregando poi le dita per riattivare la circolazione. Aveva le unghie blu e i polpastrelli grigi, non sentiva nulla al di sopra delle nocche. Romano si strofinò anche le spalle, sopra la stoffa della mantella impermeabile, e abbassò la fronte. Continuò a camminare strisciando i piedi lungo la stradina di Konitsa da cui avevano raschiato via la neve. Terra e pietre erano incrostate nel fango, la stradina scricchiolava sotto le suole come se Romano stesse camminando su una distesa di cocci rotti.

Gruppi di soldati accampavano fuori e dentro le casette abbandonate. Un pallido fuocherello scoppiettava timido in mezzo a una piramide di legnetti scuri e umidi, tre soldati gli erano attorno, le braccia tese e le mani spalancate, tremanti di freddo, che si muovevano all’interno dell’alone di calore come se stessero strizzando l’aria. Uno di loro si accovacciò a terra, portò le mani davanti alle braci, dove la legna ardeva e brillava di più, e il viso stremato dalla stanchezza e dal freddo si colorò di arancio.

Uno zoccolare ritmico batté sulla stradina sterrata. Romano si voltò a guardare.

Un gruppo di uomini stava avanzando tirando con sé cinque muli, tutti dalle groppe cariche e i musi bassi, le narici dilatate e gli occhi tristi. Romano si spostò per lasciarli passare, sentì uno dei soldati sussurrare qualcosa al suo mulo e carezzargli il collo sotto la criniera sfoltita e troppo cresciuta. Avvicinandosi alle pareti delle case, Romano passò affianco a un secondo gruppo di soldati, almeno sette in tutto, che avevano le mani impegnate a lucidare i pezzi di artiglieria che poi poggiavano contro il muro, protetti da teli.   

Uno di loro stava ripulendo una bocca di fuoco stesa sulle sue ginocchia. Tenne il capo basso e si rivolse al suo compagno. “Ma non sarebbero già dovuti essere qui?”

Il suo compagno avvicinò il viso alla spalla dell’altro. “Io avevo sentito che erano già appostati al villaggio,” disse, continuando a impachettare le munizioni e a infilarle nelle tasche da trasporto. “Dovevano arrivare prima di noi e aspettarci.”

“Forse hanno avuto difficoltà dopo l’accerchiamento a tenaglia e non sono più riusciti a fuggire dalle montagne,” disse un terzo, e poi impilò una delle sacche contro quelle già adagiate al muro.

Un altro di loro scosse il capo. “Dovranno sbrigarsi, altrimenti sarà impossibile effettuare in tempo la ritirata verso Premeti, prima che i Greci tornino ad attaccare. C’è il rischio che facciano saltare il Ponte di Perati, e a quel punto saremmo in trappola.”

Romano restrinse le labbra e la bocca tremò. Il corpo infreddolito tremò di paura, i battiti del cuore si fecero più forti e dolorosi, come pugnalate che affondavano la lama una dietro l’altra.

Basta, vi prego.

La voglia di schiacciare le mani contro le orecchie e di allontanarsi da quelle voci gli formicolò su tutto il corpo. Romano strizzò gli occhi, strinse i denti.

Smettetela tutti di dire che mio fratello è morto.

La carovana di muli lo superò, e Romano tornò nel mezzo della stradina, lontano dalle voci dei soldati.

Si strinse di nuovo nelle spalle, camminando a testa bassa, avvolto nella sua mantella impermeabile, e si concentrò sullo scricchiolare del ghiaccio sotto i suoi piedi che mandavano in frantumi le incrostazioni fra la terra e i sassi.

Il rombo di un motore lo sorprese alla sua sinistra. Romano non si mosse, continuò a camminare, senza nemmeno mostrare il viso.

L’autocarro rallentò e gli passò di fianco, lasciando dietro di sé una nube nera pregna di un forte odore di benzina. La nube lo investì. Romano non si riparò con il braccio, non si scostò dai vapori di scarico, non tossì nemmeno. Camminava e basta. I piedi lo seguivano trascinandosi, le braccia rigide attorno alle spalle smisero di tremare, il fiato usciva piano dal naso e dalla bocca che soffiavano lenti e rilassati. Gli occhi ancora lucidi di febbre fissavano in mezzo ai suoi stivali consumati. Vacui e tristi, socchiusi sotto l’ombra delle palpebre nere e gonfie di stanchezza.

Svoltò lo spigolo di una delle casette – la grondaia era ricoperta da uno strato di ghiaccio che la intasava – e il villaggio si aprì in uno spazio più luminoso, libero dagli edifici rurali. Un gruppo di soldati stava in piedi in mezzo a quello spazio vuoto, i binocoli davanti agli occhi puntati contro le montagne. Due di loro impugnavano cartine segmentate stese davanti ai loro occhi, si dicevano qualcosa che Romano non capì, e indicarono più punti nelle mappe, annuendo. Tre autocarri erano posteggiati vicino a loro, assieme ai sacchi che erano stati portati là dai muli.

Romano ruotò gli occhi verso il cielo che si stendeva dietro le montagne. Nuvole bianche e cariche di neve si gonfiavano dietro le pendici, divoravano le cime sbiancate dei monti di cui Romano non vedeva la fine. Un alito di vento freddo e secco gli soffiò in faccia, graffiò le guance arrossate, scosse i capelli sulla fronte e davanti gli occhi febbricitanti. Romano sbatté lentamente le palpebre e non pensò a nulla.

Il brusio di voci che saliva dal gruppetto di soldati che guardavano attraverso i binocoli e tenevano le cartine stese fra le braccia aumentò. Le voci divennero più forti, i timbri si sovrapposero, uno di loro si lasciò scappare una risata.

Romano non si accorse subito che uno di loro lo stava chiamando.

“Signore, corra, presto!”

Si voltò solo quando sentì i passi dell’uomo correre verso di lui e scricchiolare in mezzo alla neve.

Il soldato gli correva incontro, fiato bianco sbuffava a fiotti dalla sua bocca piegata in un sorriso, le guance rosse gli gonfiavano la faccia seminascosta sotto il bavero dell’uniforme tirata quasi fino alle orecchie. Romano si fermò, si voltò di fianco, e sollevò un sopracciglio scoccandogli un’occhiata interrogativa.

L’uomo tese un braccio verso il suo. “Venga, venga.” Gli strinse delicatamente il polso, Romano lo lasciò fare, e il soldato gli fece cenno di seguirlo piegando il capo contro la spalla. “Corra qua.”

Romano storse anche l’altro sopracciglio, aggrottò la fronte. “Che succede?”

L’uomo lo portò vicino a un secondo soldato che reggeva un binocolo allacciato attorno al collo.

Il soldato sorrise a sua volta e portò il binocolo davanti al viso di Romano, porgendoglielo. “Tenga questo, guardi.” Lasciò il binocolo fra le sue mani e tese l’indice verso la curva del colle da cui era scesa la loro armata qualche ora prima. “Abbiamo visite.”

Romano chinò la fronte, mise una mano sopra quella dell’uomo per tenere anche lui fermo il binocolo, e accostò gli occhi alle lenti.

Macchie nere spiccavano in cima alla curva del colle. Le macchie si muovevano, avvicinandosi alla vista inquadrata dai due ovali davanti agli occhi di Romano, diventavano sempre più alte, larghe e vicine. Romano restrinse gli occhi, fece un passetto avanti accompagnato anche dal braccio dell’uomo che lo aiutava a reggere il binocolo, e concentrò lo sguardo sui soldati che stavano avanzando lungo il colle sopra Konitsa. I fanti in prima linea tenevano le teste alte, gli sguardi stanchi ma attenti fissavano la linea d’orizzonte, uno di loro corse più avanti degli altri, reggendo il suo zaino contro la schiena, e portò una mano davanti alla fronte.

Romano trattenne il fiato, non osò sperare.

Il sangue ghiacciò come la neve che gli copriva i piedi, il viso divenne grigio come il cielo sopra di loro, gli occhi larghi e vacillanti spalancarono ulteriormente le palpebre per non perdere di vista l’avanzata dell’armata.

Romano spinse la visuale verso destra, percorse tutta la linea di fanti. Non lo vide. Tornò a sinistra, si fermò, spinse l’indice nella parte superiore del binocolo e girò la rotellina. L’inquadratura si restrinse, racchiuse una porzione della massa di fanti che continuava ad avanzare, nascosta dalla nebbiolina sollevata dai loro fiati pesanti. Romano strinse i denti. Le braccia tremarono, fecero vibrare il campo inquadrato.

Ti prego, ti prego.

Tornò a far scivolare il binocolo verso la porzione centrale.

Il soldato che prima era corso in avanti e aveva posato la mano aperta davanti alla fronte era ancora in cima al gruppo, i suoi occhi si incrociarono con quelli di Romano da dietro le spesse lenti del binocolo. Il soldato sorrise, volse lo sguardo alle sue spalle, portò la mano di fianco alla bocca, e disse qualcosa che Romano non capì, non riuscì a leggergli le labbra. Il soldato parlò ancora e sbracciò in direzione del resto dell’armata, come se stesse chiamando qualcuno.

I soldati si divisero, due di loro torsero il busto, guardarono anche loro all’indietro, e camminarono di due passetti di lato, aprendo un varco. Uno di loro tese il braccio – era bendato e macchiato di sangue ormai nero – e cinse la schiena a una piccola sagoma scura che gli arrivava con la testolina alla spalla. Il soldato in cima all’armata sbracciò ancora in direzione della sagoma, disse qualcosa, il sorriso si allargò, e la chiamò verso di sé.

Romano sentì il cuore arrestare i battiti, fermandosi come un orologio a cui si è esaurita la batteria.

Italia, aiutato dal braccio bendato dell’uomo, sgusciò fuori dalla massa di fanti e saltellò verso la prima fila. Piegò il capo in una piccola riverenza e sorrise all’uomo che lo aveva lasciato passare, strinse le cinghie dello zaino contro le spalle, reggendole con le mani fasciate dalle bende che gli arrivavano fino alla prima falange, e zampettò lungo le pendici del colle. Era smagrito, una benda fissata sotto l’occhio gli tappava la guancia. I capelli sventolarono, attraversati dall’aria sollevata dalla corsa, e svelarono le fasce strette anche attorno al capo, sotto l’attaccatura delle ciocche. Italia era ferito, correva zoppicando, il fiatone soffiava fuori dalle labbra bianche e annaspanti, creando gonfie nubi di condensa. Ma sorrideva.

Arrivò di fianco al soldato in prima fila che lo aveva chiamato, gli disse qualcosa. Il soldato tese il braccio in avanti, allungò l’indice contro Konitsa, e disse a sua volta qualcosa che lo fece sorridere ancora di più.

Italia guardò contro l’obiettivo del binocolo, le due lenti tonde racchiusero la forma del suo viso.

Incrociò inconsapevolmente gli occhi con quelli di Romano, e Romano provò una fitta al cuore che gli strozzò il respiro.

Italia sollevò le braccia sopra la testa, le agitò come se stesse spennellando degli archi nell’aria, e riprese a correre saltellando, muovendo la bocca in gridolini che Romano non sentiva.

Romano si tolse il binocolo da davanti gli occhi. La visione del colle lontano e delle macchioline nere che attraversavano la neve si rimpicciolì davanti alla vista. Premette il binocolo contro il petto del soldato che glielo aveva porto, superò altri due uomini che avevano già ripiegato le cartine e le stavano rinfilando negli zaini, e corse. Corse incontro a suo fratello.

 

.

 

Il soldato in prima fila girò il busto, volse il viso alle sue spalle, e richiamò Italia con un movimento del braccio. “Ce l’abbiamo fatta, signore. Siamo arrivati a Konitsa.”

Italia infilò le mani in mezzo ai fianchi dei soldati. I soldati si spostarono e Italia sgusciò in mezzo alla massa di uomini. Chinò il capo verso uno di loro e sorrise, “Grazie”, e corse incontro all’uomo.

Italia stese il sorriso, i suoi occhi brillarono, le guance – persino quella bendata – divennero rosse. “Che bello!” Si fermò vicino al soldato, seguì con lo sguardo la direzione che gli indicava il suo braccio e portò la mano davanti alla fronte, facendosi ombra. Sospirò, la voce squillò di meraviglia. “È quello il villaggio?”

“Sissignore,” annuì il soldato, e anche lui riprese a guardare in avanti. Curvò la camminata verso una parte del pendio innevato meno ripida, dove non si rischiava di scivolare sulla neve. “Dovrebbe esserci la Nona Armata che ci aspetta. Saremo sotto la loro protezione e...”

Qualcosa gli stava correndo incontro.

Italia socchiuse le labbra, tenne gli occhi aperti, confusi e stupiti, e saltellò di un passo in avanti. Portò la mano davanti alla fronte, restrinse le palpebre, e inquadrò la figura che stava risalendo il pendio del colle.

La sagoma sollevò le braccia, le agitò sopra la testa, inciampò sulla neve sollevando due ali di spruzzi di neve, e ricominciò a correre. L’eco della sua voce, ancora un brusio basso e confuso, diventava sempre più forte.

Il soldato di fianco a Italia storse un sopracciglio. “Uh, quello è...”

Italia spalancò lentamente gli occhi. La mano tesa sopra la sua fronte salì, lasciò che il viso brillasse alla pallida luce del sole, che lo sguardo si illuminasse e che la bocca si aprisse, traendo un sospiro di meraviglia.

Negli occhi lucidi di Italia, si riflesse l’immagine in corsa di Romano che continuava ad agitare le braccia, a gridare qualcosa trascinato via dal soffio del vento, e a gonfiare fiato bianco dalle labbra.

Italia lasciò uscire un sospiro. Un sospiro basso e intenso. “Romano.” Una fiamma di sollievo e felicità crebbe in fondo alla pancia. Più l’immagine di Romano si faceva vicina, più il calore si intensificava, il fuoco cresceva più rosso e ardente, fino ad avvolgerli il petto. Italia prese una forte boccata d’aria, chiuse le mani attorno alla bocca e lanciò un grido. “Romano!”

Romano accelerò. La neve schizzava da sotto i suoi stivali e circondava la sua corsa come se stesse sfrecciando in mezzo all’acqua.

Italia si appese al braccio del soldato e saltò sul posto, ridendo come un bambino. “Romano è salvo, sta bene.” Indicò Romano, rivolse un sorriso al soldato, e aveva già gli occhi pieni di lacrime di gioia. “Mio fratello è vivo!”

Il soldato gli sorrise. Fu un sorriso dolce, comprensivo.

Italia sfilò le braccia dal suo gomito, piegò le spalle all’indietro e lasciò scivolare giù dalla schiena lo zaino gonfio che atterrò con un tonfo in mezzo alla neve. Italia barcollò, sentendosi di colpo leggero a tal punto da percepire i piedi galleggiare sopra il suolo, e corse anche lui. Scese il profilo del colle.

Il soldato scattò in avanti e tese il braccio. “Signore, faccia attenzione alle ferite, la prego,” gli disse, preoccupato.

Italia non lo ascoltava già più.

 

.

 

Il fiato soffiava dalle labbra di Italia, si squagliava contro le sue guance rosse e gonfie sotto la piega del sorriso che brillava più del riflesso del sole sul tappeto di neve. La fiamma di gioia che ardeva nel cuore nascondeva il dolore che pulsava nelle gambe, nelle ossa, e nei piedi che ribaltavano i grumi di neve scavando una profonda scia lungo il profilo del colle.

Italia levò le braccia al cielo, ansimò di fatica, senza spegnere il sorriso, e gridò ancora a pieni polmoni.

“Romano!”

Una scia di lacrime tonde e lucide, sgorgate dalle palpebre, volò soffiata via dall’aria gelata.

Romano inciampò di nuovo lungo la salita. Si piegò sulle ginocchia, aprì le mani a terra, si diede subito la spinta e scattò schizzando un’onda di neve dietro di sé. Tese le braccia e divaricò le dita, pronto ad afferrarlo. Lo sguardo già lucido, le guance scarlatte, la bocca che tremava di incredulità. “Veneziano!”

Il cuore di Italia fece una capriola di gioia nel sentire il suo nome pronunciato dalla voce del fratello, così vicina, così reale.

Italia saltò sul posto, spalancò le braccia.

Romanooo!

Rotolò giù ma rimase in piedi.

Anche lui allungò la mano in avanti, spalancò le dita, già pronto ad accogliere la presa dell’altro.

Erano vicini. Italia ripeté il suo nome senza urlare, non ce n’era bisogno.

“Roman –”

Romano gli afferrò il palmo, lo tirò verso di sé, e tese l’altro braccio dietro il suo collo. Lo strinse dietro la nuca, serrò la presa dietro la schiena di Italia, gli fece schiacciare il petto contro il suo, e aprì la mano fra i suoi capelli premendogli il capo sulla sua spalla.

L’abbraccio li travolse come una valanga.

Italia allacciò le sue braccia attorno a Romano, tuffò il viso contro la spalla, sotto il ciuffo di capelli che ricadeva davanti all’orecchio, ed emise un violento singhiozzo che assorbì tutto il profumo del fratello. Era forte, anche se bagnato di neve e sporco di terra e fango.

Ancora animate dalla spinta della corsa, le gambe si intrecciarono, i piedi inciamparono nella neve, e i due corpi allacciati precipitarono a terra. L’abbraccio strinse, si rotolarono al suolo, infarinandosi nella neve fresca, e si fermarono qualche metro più in basso.

Fermi. Le braccia avvinghiate attorno al corpo, i visi rintanati nel petto dell’altro, le mani attanagliate alle uniformi, le gambe intrecciate.

Restarono in silenzio, ad ascoltare i propri respiri, i battiti del cuore, a godersi il tepore di quell’abbraccio.

Un primo tremito scosse il corpo di Italia. Italia singhiozzò ancora, sentì tutto il calore del fiato di Romano che gli soffiava vicino all’orecchio, scaldandogli la guancia e inumidendogli i capelli, e gli venne da stringere ancora di più le mani. Piegò la fronte contro la sua spalla, si arricciò dentro il suo abbraccio, stringendo le ginocchia fra le gambe di Romano, strizzò le palpebre, e due fili di lacrime sgorgarono dalle ciglia.

“Romano.” Gli infilò le dita fra i capelli e li carezzò più volte, toccandogli la nuca, le guance, le orecchie, il collo. Accostò il viso al suo, sfiorandogli la guancia con le labbra. “Romano.” Singhiozzò ancora, lacrime più calde e fitte scesero lungo il viso, bagnarono il suono della voce.

Romano tenne il pianto dentro lo stomaco che era diventato un nodo. Strinse forte la mano dietro la nuca di Italia e unì la fronte alla sua. “Stupido,” disse fra i denti, trattenendo i singhiozzi. Gli posò la mano sulla guancia e gliela carezzò, intrecciando le dita fra i capelli.

Italia abbassò gli occhi in lacrime. “Scusami,” sussurrò. Nascose il viso contro la spalla di Romano, rilasciò un pianto secco che lo scuoteva a ogni singhiozzo. “Scu... sami.”

Romano strinse le braccia dietro la schiena di Italia, gli sfregò le spalle, tenendo il viso premuto contro la sua spalla. Pianse anche lui. Continuò a carezzarlo, a strofinargli la schiena, a cullarlo in mezzo al suolo di neve. Le lacrime scesero lente e copiose, calde e trasparenti. Gli entrarono in bocca. “Razza di stupido.”

Stettero abbracciati in mezzo alla neve, cullati dai piccoli lamenti di Italia, dalle lacrime di gioia e di dolore che gli bagnavano le guance. Rimasero in silenzio solo ad ascoltare i respiri che soffiavano vicino alle orecchie, i battiti dei due cuori che pulsavano contro i petti uniti, il calore dei loro corpi intrecciati, i tremori che scuotevano entrambi e che facevano vibrare i fiati affannati. Loro due soli, di nuovo insieme.

Non si accorsero dei passi nella neve delle due armate che marciavano una verso l’altra, dei richiami di gioia dei soldati che sventolavano i saluti verso valle e verso la cima del colle. Non si accorsero nemmeno quando anche gli uomini del loro esercito si riunirono abbracciandosi, battendosi le mani sulle spalle, e sospirando felici, come fossero già a casa.

   
 
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