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Autore: L S Blackrose    08/05/2016    0 recensioni
« Per sempre all'inverno ella apparterrà ».
Questa è la maledizione che grava su Gwen, splendida e impavida principessa del clan MacWarden. Da che ha memoria, il gelo che porta dentro di sé è sempre stato l'unica costante della sua vita.
Ma ci sono fuochi che nemmeno il ghiaccio può estinguere: ardono in segreto nel più freddo dei cuori e sciolgono ogni ostacolo imposto dal fato.
E se le fiamme destinate a salvare Gwen avessero i riflessi del cielo, il profumo della luce del sole...e la celebre caparbietà dei Vandemberg?
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Axel Vandemberg, Bryce Vandemberg, Nuovo personaggio, Stephen Eldrige
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Capitolo I

 



 

Un vento insistente e minaccioso soffiava quella sera sulla Vecchia Capitale. Scivolava silenzioso e pungente sulle lastre di pietra delle strade affollate, portando con sé un vago ricordo di notti stellate profumate di neve.

Le soglie dell'inverno si stanno schiudendo, pensò Gwennyfer MacWarden mentre il respiro ghiacciato del vento le accarezzava le guance.

Il cappuccio del mantello le nascondeva a malapena la fronte e i lunghi capelli, ma lei non temeva quella brezza dal sapore agrodolce. Paragonato alle temperature aspre e rigide dell'estremo Nord, quel clima era estremamente mite e piacevole. Niente a che vedere con le bufere che facevano tremare i picchi di Stormhold, il piccolo regno indipendente ai confini di Aldenor. La sua casa, l'inizio e la fine di tutto il suo mondo.

Con una punta di nostalgia, Gwennyfer alzò gli occhi sulle nubi scure del crepuscolo, tra le quali si affacciava timidamente un debole spicchio di luna. Un altro soffio gelido le solleticò il volto, portando scompiglio tra i ciuffi sfuggiti all'elaborata acconciatura. Il breve sospiro che le uscì dalle labbra formò una piccola nuvoletta, subito trasportata via dal vento capriccioso.

Quando infuria la tempesta e il giorno se ne va, attenta bimba mia, attenta. Lo Spirito delle Nevi farà festa...

«Ed il freddo con sé condurrà» recitò in un sussurro, storpiando l'ultimo verso di una tipica romanza di Stormhold. Era una storia tramandata di voce in voce, che le vecchie balie raccontavano ai bimbi per metterli in guardia dagli sconosciuti. Ragazzini rapiti, un perfido uomo dal cuore di ghiaccio...inutile dire che non si trattava della classica fiaba della buonanotte.

Gwen abbassò lo sguardo sulla spessa treccia che le ricadeva su una spalla e sorrise tristemente tra sé. A volte le fiabe si tramutavano in realtà. E non sempre il loro finale era lieto.

«Mia signora». Una voce ruvida interruppe dolcemente le riflessioni della ragazza. Aveva la cadenza secca di Stormhold, consonanti marcate e vocali appena accennate. «Attendiamo i vostri ordini».

Gwennyfer voltò il viso a sinistra, incrociando gli occhi color carbone di Gawain Von Lear, primo ufficiale dell'esercito del regno.

Percival MacWarden, duca di Stormhold nonché suo unico zio e tutore, le aveva gentilmente fatto capire che non avrebbe acconsentito a farla allontanare da palazzo senza un'adeguata scorta, così ora lei si ritrovava alle calcagna quel gruppetto formato da tre soldati, i migliori del reggimento.

Gwen si morse l'interno della guancia per trattenere un sorriso. Erano anni che suo zio fingeva di non notare la stretta amicizia che la nipote aveva instaurato con lame e pugnali: un'abilità che faceva impallidire anche il più anziano dei veterani e che le aveva salvato la vita più di una volta.

I suoi premurosi guardiani – o, come amava definirli lei, cani da guardia – la stavano fissando, attendendo istruzioni.

Gwen osservò i dintorni con occhio critico, respirando la fresca aria della sera che odorava di spezie e focacce appena cotte. Nonostante il chiacchiericcio festoso degli avventori delle vicine taverne e le luci delle lanterne che illuminavano la via, la Vecchia Capitale le appariva inospitale e tetra, peggio delle prigioni nei sotterranei del castello.

Grazie ai poteri ereditati dal ramo materno della famiglia, Gwennyfer percepiva la malvagità a chilometri di distanza. E si chiese come facessero le persone che le passavano accanto a ridere, scherzare - perfino respirare - quando il Male soggiornava appena fuori città. Le tornarono a mente i racconti di Ivayne, la sua fidata balia, e guardò con disgusto la nebbia che si avvolgeva in spire attorno alle zampe dei cavalli.

Il ricordo della Rivolta era ancora vivido e presente: lo avvertiva nelle fessure delle lastre di pietra della strada, celato nelle ombre dei vicoli bui, avvolto nella sottile foschia che si innalzava dalle acque immote del fiume.

Il Presidio era solo stato scacciato, non sconfitto. Si era ritirato nelle tenebre, a guarire dalle ferite, per prepararsi ad una battaglia ancor più brutale.

Ma quando accadrà, le forbici del fato avranno già spezzato ciò che rimane di me.

Sulla scia di quel pensiero cupo, Gwen alzò il mento e tirò le redini per rallentare il passo del proprio destriero. «Tristan, Lancelot. A voi il compito di trovare un luogo confortevole in cui soggiornare. Mi sembra superfluo ricordarvi che non dobbiamo attirare troppo l'attenzione».

I soldati chinarono il capo. «Luogo confortevole, basso profilo. Ricevuto. Provvediamo subito, Altezza» asserì Tristan, efficiente come sempre.

Dopo aver rivolto un cenno rispettoso a Gwen e al loro capitano, i due spronarono i cavalli e proseguirono lungo la via, mischiandosi nelle tenebre.

«Da qui in poi sarà meglio proseguire a piedi, Altezza». Gawain scese da cavallo con un rapido balzo e le porse una mano per aiutarla a fare altrettanto. Quel gesto galante venne debitamente ignorato dalla Principessa, che si limitò a scoccargli un'occhiata ironica.

Più grande di lei di appena tre anni, Gawain Von Lear era stato il suo unico compagno di giochi quando era bambina e, successivamente, si era eletto suo cavalier servente. La trattava con un rispetto e una cortesia quasi irritanti, le dava del 'voi' come se non la conoscesse e si ostinava a riferirsi a lei con appellativi quali 'Vostra Altezza' o 'Maestà'.

Visto che contestare i suoi modi cerimoniosi non sortiva alcun effetto, Gwennyfer aveva presto imparato a fingere di non notare tutte quelle inutili moine.

Si lasciò scivolare con grazia giù dalla sella e sistemò meglio il cappuccio sul capo. Dopo aver controllato anche lo stato dei propri abiti, alzò gli occhi su quelli del capitano Von Lear. «Solo perché sono una principessa, non significa che sia debole o incapace di badare a me stessa» proclamò, prima di superare il ragazzo e dirigersi verso i capannelli di studenti fermi in mezzo alla strada.

Anche se era rimasto qualche secondo indietro per legare i cavalli, Gawain la raggiunse in poche falcate. Lei continuò a parlare senza guardarlo, lo sguardo fiero dritto davanti a sé. «Non lo sono mai stata, non ho certo intenzione di cominciare ora. Mi sembra di avertelo già detto parecchie volte, Wain».

Pur non vedendolo, colse il sorriso nelle parole dell'amico. «Questa è solo la quinta, per oggi. L'avete ripetuto quando ho steso il mio mantello ai vostri piedi per evitarvi di calpestare una pozzanghera questa mattina, in seguito quando ho insistito perché indossaste degli abiti più pesanti e poi quando …».

Gwen lo interruppe con un gesto della mano. «Questo significa che il tuo non è affatto un problema d'udito, bensì una carenza di intelligenza. Proprio come immaginavo».

Le risate degli studenti schiamazzanti non riuscirono a mascherare quella roca del ragazzo al suo fianco. «Vostra Altezza, sapete bene che sono soltanto un umile soldato. Il mio compito non è far sfoggio delle mie capacità intellettuali». Il suo tono scherzoso si velò di serietà nell'aggiungere: «Ho giurato di proteggervi, a costo della vita. E lo farò, anche contro la vostra volontà».

Gwennyfer ricompensò quell'accorata affermazione di lealtà con uno dei suoi rari sorrisi. «Lo so, Wain. Te ne sono grata. Ma sai anche che ci sono cose da cui non posso essere protetta».

Con la coda dell'occhio lo vide stringere i pugni lungo i fianchi. Gawain sapeva a cosa alludeva e difatti non replicò. Come avrebbe potuto? Esistevano pericoli molto più temibili di briganti, pozzanghere melmose e animali selvatici.

Gwen si strinse nel mantello e si fece largo con eleganza in quel mare di feluche e divise studentesche. Suo zio affermava spesso con orgoglio che lei era quel tipo di donna in grado di uscire da una tempesta di neve con i vestiti perfettamente stirati e non un capello fuori posto. E suo fratello Arthur ci teneva sempre a precisare che, nel remoto caso in cui le sue gonne si fossero sgualcite, la tempesta stessa si sarebbe inginocchiata ai suoi piedi e premurata di eliminare ogni piega.

Arthur. Era lui il motivo di quel viaggio, la meta tanto agognata.

Arthur Russell MacWarden era il suo adorato fratellino di diciassette anni, suo unico parente ancora in vita, se si escludeva l'arzillo zio Percival. Da due anni lontano da casa per seguire le lezioni all'Università, Arthur tornava a Stormhold soltanto nei mesi di vacanza e anche in quei periodi Gwen riusciva a vederlo appena.

Non era più un bambino: un giorno sarebbe diventato Re e Gwen cercava in tutti i modi di aiutarlo in quel duro cammino fatto di studio e responsabilità. Questa era una delle ragioni che l'avevano spinta fuori dai confini del regno: trascorrere il più tempo possibile assieme ad Arthur prima che...

Non voleva pensarci. Si rifiutava di pensarci. Le restava ancora un po' di tempo e l'avrebbe impiegato al meglio, l'aveva giurato a se stessa.

La voce rauca di Gawain ruppe di nuovo l'intreccio dei suoi pensieri. «Vogliamo fare un tentativo?» propose, indicando con un cenno del capo una locanda tra le più affollate.

Gwennyfer prese un profondo respiro. Non era ancora entrata e già le mancava l'aria. «Credi che mio fratello si trovi lì dentro?» domandò, con un tono a metà strada tra scetticismo e raccapriccio.

Il capitano Von Lear inclinò la testa, osservando con interesse quasi scientifico un vivace gruppetto di studentesse. «Conoscendo i gusti del Principe, ne dubito. Ma da qualche parte dovremo pur iniziare. Al Collegio non c'era, dove altro potrebbe essere?».

Meglio non approfondire la questione, si disse Gwen. Preferiva mille volte pescare suo fratello ubriaco in un'osteria, piuttosto che saperlo nella casa di qualche scostumata cortigiana.

Abbassò il cappuccio sulle spalle, tanto nessuno tra gli avventori l'avrebbe riconosciuta. Erano troppo impegnati a darsele di santa ragione, urlare insulti a caso e brindare allegramente.

Gawain, nell'ennesimo sfoggio di galanteria, le tenne aperta la porta e lei entrò a passi misurati, guardandosi attorno con attenzione per individuare la familiare chioma corvina e riccioluta di Arthur. Le occorsero pochi secondi per capire che, in mezzo a quel chiasso infernale, le speranze di scorgere anche solo un lembo del mantello del fratello fossero pressoché nulle.

Camminando a testa alta e seguita a ruota da Gawain, si inoltrò nel caos e si fece largo tra la folla armata soltanto della sua innata grazia principesca. E dei suoi impietosi stivali dalla punta rinforzata in acciaio e dal tacco a stiletto.

Gawain si appoggiò mollemente al bancone e fece un cenno all'oste, senza mai perdere di vista lei o le persone che le giravano attorno. Bastò una sua occhiata a far retrocedere alcuni studenti che avevano trovato il coraggio di avvicinarsi a Gwennyfer.

Lei lo guardò sbattendo le ciglia. «Non sarete geloso, capitano» lo provocò, imitando il tono civettuolo e adorante con cui gli si rivolgevano di solito le cameriere a palazzo.

Gawain perse per un attimo il cipiglio corrucciato e ammiccò. «Sarò sempre geloso di voi, Altezza» disse, accompagnando le parole con un tenero sorriso. Le spostò un ciuffo di capelli dalla fronte - uno dei pochi gesti di confidenza che si concedeva quando erano insieme - e poi si rivolse all'uomo dietro al bancone. «Mi perdoni, gentile signore, potrebbe ...».

Nemmeno in quell'occasione i suoi squisiti modi cavallereschi vennero apprezzati. Il nerboruto oste lo squadrò dalla testa ai piedi con sufficienza e lo interruppe a metà frase con un brusco: «Poche ciance. Se volete da bere, vi servo subito. Altrimenti, addio. Ho già il mio bel daffare stasera». E così dicendo indicò il centro della sala, dove due ragazzi si apprestavano a sfidarsi a duello. Uno munito di un boccale di peltro, l'altro di una sedia a cui mancava una gamba.

L'espressione di Gawain, comicamente scioccata, fece ridere Gwen. Lei gli rifilò una gomitata nelle costole per farlo spostare e sorrise all'oste, che la guardò con meraviglia.

Gwen era dolorosamente consapevole del proprio fascino; a Stormhold i pretendenti alla sua mano si presentavano a frotte. Peccato che lei considerasse la propria bellezza esteriore come la più crudele tra le maledizioni che il destino le aveva inflitto.

«Comprendiamo, signore» disse, nel suo tono più dolce. «Volevo solo chiedervi il permesso di utilizzare il vostro stupendo pianoforte».

L'idea le era venuta dopo aver scorto di sfuggita lo strumento, tutto solo in un angolo e ricoperto da un telo impolverato. La musicista che era in lei lo prese come un affronto personale e un esplicito invito. Non era mai riuscita a resistere: non appena vedeva uno strumento musicale sentiva le dita prudere, fremere dalla voglia di impossessarsi di corde e tasti.

«Pianoforte?».

«Stupendo?».

L'oste e Gawain parlarono in simultanea: il primo con stupore, il secondo con palese sarcasmo. Che gli valse un'altra occhiata iraconda da parte del proprietario del locale.

«Ma certamente, signorina» si affrettò a dire quest'ultimo, uscendo da una porticina a lato del bancone per mostrarle lo strumento in questione. Era collocato sopra un piccolo soppalco e, polvere a parte, pareva in perfette condizioni.

Mentre sollevava con prudenza il coperchio e faceva scorrere lentamente le dita sui tasti, Gwen si rese conto che, nonostante quel pianoforte fosse vecchio di almeno un secolo, era stato accordato di recente.

L'oste ripulì il sedile foderato di pelle con uno straccio logoro, per poi gettarlo di malagrazia sul primo tavolo disponibile. La incoraggiò a prendere posto, del tutto dimentico del frastuono della sala e degli avventori da tenere sotto controllo. «Riconosco subito un musicista quando lo vedo. Venite, fanciulla. Fate onore al mio umile pianoforte».

Gwennyfer gli sorrise e si sedette davanti allo strumento, sotto lo sguardo ironico ed esasperato del capitano Von Lear. «Per fortuna che non dovevamo dare nell'occhio, Altezza» sospirò, incrociando le braccia. Sotto lo sguardo ammonitore dell'oste, aggiunse frettolosamente: «Però potrebbe rivelarsi utile per rintracciare vostro fratello. Sappiamo bene che nessuno riesce a resistervi quando cantate. State a vedere», dichiarò rivolto all'uomo che lo stava ancora scrutando con un cipiglio non proprio benevolo sul volto, «risolverà tutti i vostri problemi dopo un solo accordo».

Lei non distolse gli occhi dai tasti. «Adulatore» proferì, lasciando vagare le dita da una nota all'altra con fluidità. Un piccolo sorriso si formò sulle sue labbra nel notare la buona qualità del suono. Girò il viso per osservare Gawain. «Qualche preferenza?».

Lui alzò una spalla. Voleva fingersi indifferente, ma i suoi occhi brillavano. Gwen sapeva che adorava sentirla cantare, il che accadeva raramente da un paio di anni a quella parte.

«Qualsiasi cosa, anche quella filastrocca tremenda che avete scritto a cinque anni, purché cantiate».

Gwen sorvolò sull'offesa esplicita ad una delle sue prime composizioni e intonò il preludio della romanza preferita di Arthur.

Se suo fratello si fosse trovato a portata d'orecchio, di sicuro l'avrebbe riconosciuta e si sarebbe fatto vivo.


 

*
 

 

Ci risiamo, pensò Bryce Vandemberg mentre chinava il capo con grazia per schivare un bicchiere lanciato a tutta velocità nella sua direzione.

Con studiata noncuranza si scostò i riccioli dalla fronte e osservò compiaciuto il proprio riflesso in uno degli specchi decorativi appesi alla parete. Alla sua destra, seduto scomposto sulla dura panca di legno grezzo, stava un sospirante Gilbert Morgan.

Bryce gli lanciò un'occhiata esasperata da sopra il boccale di vino. Pietoso era il termine perfetto per descrivere lo stato dell'amico, che aveva lo sguardo perso nel bicchiere colmo di sidro come se stesse meditando di affogarcisi dentro.

«Perché, perché non mi vuole?» piagnucolò con enfasi, attirando su di sé l'attenzione dei restanti due membri della compagnia. Axel distolse rapidamente lo sguardo da Eloise - non poteva che trattarsi di lei, dato il sorriso sul suo volto -, e Stephen smise di sfogliare il suo fidato taccuino pieno zeppo di schemi e appunti.

Tutti e tre, Bryce incluso, si sporsero nel medesimo istante per impedire che la testa di Gilbert entrasse in collisione col bordo affilato del boccale.

Lui non si prese nemmeno il disturbo di ringraziarli: batté un braccio sulla superficie del tavolo e ci affondò la faccia. «Lara, io ti amo. Amo solo te. Perché non mi vuoi? Perché?».

Gli altri tre ragazzi si scambiarono uno sguardo e sospirarono all'unisono, sconfortati.

Se l'avesse canticchiata da sobrio, quella strofa avrebbe potuto includersi nel suo vasto repertorio di ballate d'amore e forse – forse - sarebbe perfino riuscita a far ammorbidire il cipiglio scontroso che l'Onorabile Lara Degret sfoggiava solo in sua presenza. Pronunciate con quel tono, tuttavia, quelle parole sembravano proprio ciò che erano: farfugli senza senso di un imbecille ubriaco.

Bryce si chiese per quale assurdo motivo non avesse declinato l'invito di Axel, che l'aveva convinto a raggiungerlo in quella bettola maleodorante e dall'arredamento quantomeno discutibile. Avrebbe fatto meglio a restarsene nelle serre, in compagnia delle sue adorate rose, oppure a discutere dell'ultima moda in fatto di urne funerarie con Morton. Entrambe le opzioni erano preferibili a rimanere lì ad ascoltare i lamenti di Morgan.

In quel preciso istante il diretto interessato alzò la testa di scatto, rovesciando gran parte del sidro sul tavolo. «Da dove viene questa musica?» domandò, con sorprendente lucidità.

Axel corrugò le sopracciglia. «Musica? Quale musica?».

Gil chiuse un attimo gli occhi, un'espressione estasiata sul volto. «Questo canto angelico. Non lo sentite?». Notando gli sguardi perplessi degli amici, deglutì e cominciò a tastarsi il petto. «Oh no. Si tratta dei cori del paradiso? Sto per morire? No, non posso morire. Sono troppo giovane per morire. Lara, amore mio, non...».

Dal momento che gettare l'amico giù dalla panca non avrebbe affatto contribuito a fargli chiudere la bocca - come aveva dimostrato più volte, Morgan era capacissimo di cantare alla perfezione anche imbavagliato e a testa in giù -, Bryce fece l'unica scelta possibile per salvaguardare la propria sanità mentale: terminò il vino e si alzò in piedi.

Dopo un breve cenno ad Axel e Stephen, si aggiustò gli alamari del mantello e si diresse con eleganza verso l'uscita, schivando abilmente chiunque si parasse sul suo cammino.

Aveva quasi raggiunto la soglia della taverna, un piede già sollevato per superare una pozza non meglio identificata sul pavimento, quando una scarica di brividi gli percorse la nuca, riversandosi come un'onda sulla spina dorsale e sui nervi delle braccia.

«Ma che...?» mormorò, perdendo per un istante la compostezza che l'aveva reso celebre in tutto lo Studium.

Impiegò qualche attimo di troppo per recuperare l'equilibrio e la padronanza di sé. Si sentiva come se un dardo rovente gli si fosse piantato nella schiena. Voltò automaticamente il capo, quasi si aspettasse di incontrare lo sguardo soddisfatto di un bandito munito di arco e frecce.

Bryce rabbrividì di raccapriccio nell'immaginare la scena. No, non sarebbe morto nel bel mezzo di un'osteria, attorniato da un nauseante puzzo di alcol e fumo. Aveva una dignità da preservare, che diamine. E, non per ultimo, una bara ancora da scegliere.

Ora che ci penso, devo ricordarmi di dire a Morton di scegliere un nuovo tipo di legno. Quello di rovere non mi convince, molto meglio uno più chiaro, più...

«… bianco» esalò, mentre un'altra vertigine lo faceva vacillare sul posto.

Si appoggiò allo stipite della porta con un braccio, incurante delle macchie di unto che gli insozzarono il bordo del mantello.

Una voce gli martellava nel cervello, voce che Bryce classificò senza ombra di dubbio come l'origine dell'inquietante sensazione che ancora gli serpeggiava sulla pelle.

Una voce limpida e cristallina come l'acqua che sgorga da una fonte.

Un timbro candido come la prima neve d'inverno.

E bianca era la proprietaria di quella voce.

Nell'angolo opposto del locale, seminascosta dal bordo del bancone sudicio, una ragazza stava suonando al pianoforte.

Da che Bryce ricordava, l'oste non aveva mai permesso ad anima viva di ciondolare a neanche tre metri dallo strumento, custodendolo con lo stesso amore e la stessa cura che un'altra persona avrebbe riservato alla propria compagna o al proprio figlio.

Ora, al contrario, il proprietario della taverna se ne stava seduto in prima fila davanti al soppalco e fissava la fanciulla, rapito ed estasiato come se si trovasse al cospetto di una dea. E Bryce dovette ammettere che ne aveva tutti i diritti: lei era...semplicemente indescrivibile.

Oltre alla splendida voce di sirena, la ragazza incarnava tutto ciò che il terzogenito dei Vandemberg intendeva per 'perfezione'. Lineamenti delicati e proporzionati, pelle di porcellana, lunghi e folti capelli di un biondo quasi bianco...se solo avesse avuto le iridi color del cielo, Bryce avrebbe potuto scambiarla per Freya, una delle divinità minori venerate nei paesi del Nord.

Incantato e confuso allo stesso tempo, Bryce tese le orecchie per afferrare il testo della canzone: narrava la storia di un giovane poeta, pronto a scalare picchi nebbiosi e attraversare foreste insidiose per ricongiungersi alla propria musa. Non era una romanza allegra, come allegra non era di certo la fine: la tanto amata musa spirava tra le braccia del poeta senza che questi potesse fare nulla per sottrarla alla falce della Morte.

La melodia malinconica e struggente sfumò nel silenzio quasi reverente del locale, dove la folla di avventori in adorazione nemmeno respirava per non perdere neppure una nota di quella toccante composizione.

Un lento battito di mani interruppe l'atmosfera e fece sussultare Bryce. Al suo fianco, sulla porta, era comparso un ragazzino, alto e dai folti capelli neri come ebano. Non poteva avere più di diciassette o diciotto anni, constatò il terzogenito dei Vandemberg. L'aveva visto qualche volta in giro per l'Università, il suo viso non gli era nuovo.

Il ragazzo smise di applaudire e sorrise. «Non potevi farmi sorpresa più gradita» affermò, con lo sguardo rivolto alla giovane musicista. «Sorella» aggiunse, e le strizzo l'occhio. «Posso abbracciarti, o credi che un inchino formale sarebbe più appropriato?».

Prima di terminare quella domanda scherzosa, l'aveva già raggiunta a grandi falcate e circondata con le braccia. Anche se la superava di una spanna buona in altezza, il ragazzo si strinse a lei come un bambino farebbe con la madre dopo un incubo.

La fanciulla gli arruffò i capelli con affetto. «Non sei cambiato di una virgola. Sei sempre il solito ruffiano insolente».

«Così mi offendi, sorella» ribatté il giovanotto, con un'allegra risata. «Sei venuta fin qui solo per rimproverarmi? Ed io che credevo che …».

Le parole del ragazzino si confusero nel chiasso della taverna, dove il pubblico improvvisato aveva perso la posa statica e aveva ricominciato a farsi sentire.

Nonostante il progetto iniziale prevedesse un viaggio immediato e di sola andata verso la residenza cittadina dei Vandemberg, Bryce si ritrovò impossibilitato anche solo a muovere un passo.

E ad invidiare quel ragazzo come non aveva mai fatto con nessuno prima di allora.

Non credeva nemmeno gli sarebbe mai successo: era stato abituato fin da piccolo ad avere qualsiasi cosa desiderasse. Gli bastava allungare una mano, o semplicemente chiedere, perché chiunque esaudisse ogni sua richiesta.

Ora, invece, osservava la mano di quel giovanotto posata sulla vita di lei e l'unica cosa a cui riusciva a pensare era che avrebbe dovuto essere la sua.

Lui, Bryce Jason Vandemberg, avrebbe dovuto essere il solo ad avere il privilegio di avvicinarsi a lei, avvolgerla tra le braccia, toccarle i capelli. Non sapeva come altro descrivere il miscuglio di sensazioni che gli imperversava nel petto, se non come un'inaspettata e irragionevole gelosia.

Non l'aveva mai vista, non conosceva neppure il suo nome, eppure Bryce si convinse, contro ogni buonsenso, che quell'incontro non fosse un puro frutto del caso. Si era sempre tenuto alla larga da qualsiasi legame amoroso, non voleva nemmeno sentir nominare la prima sillaba della parola 'matrimonio', eppure...forse per lei sarebbe stato disposto a fare un'eccezione.

Mosse un passo in avanti, quasi senza rendersene conto. Schivò agilmente una delle indaffarate cameriere che trasportava un vassoio ricolmo di boccali, e si diresse verso la coppia. Non importava che fossero fratello e sorella, si disse. Non avrebbe concesso a nessun altro, oltre a se stesso, di …

Si immobilizzò a metà strada. Non perché si fosse finalmente reso conto dell'assurdità del proprio comportamento, o perché qualcuno gli avesse sbarrato la strada.

No, Bryce si era fermato all'improvviso nel bel mezzo dell'osteria per un altro motivo. Un motivo in carne ed ossa, con due stupefacenti iridi azzurro ghiaccio.

Lei.

Bryce deglutì a vuoto e si sentì cedere le ginocchia, tanto era forte il potere di quello sguardo puntato nel suo. Non aveva mai provato una debolezza simile, neanche durante il più spietato dei duelli.

In un'altra circostanza si sarebbe infuriato con se stesso per quell'inaudita mancanza di contegno e, successivamente, avrebbe implorato Eloise di sottoporlo ad ogni possibile controllo medico. In quell'istante, invece, si limitò a fissare quel viso dalle linee anche troppo perfette e a rimanersene lì impalato mentre l'espressione della ragazza sconosciuta, da sorpresa, si tramutava in una maschera di inorridito sgomento.

Bryce batté lentamente le palpebre, come se si stesse svegliando da un lungo sonno, ma la situazione non cambiò. Lei lo stava ancora guardando, le labbra socchiuse e puro terrore negli occhi. Una ciocca d'oro bianco le ricadde sulla guancia quando si voltò di nuovo verso il fratello, tanto rapidamente da far svolazzare il bordo inferiore del mantello.

Forse era veramente giunta la sua ora, pensò Bryce. Oppure i discorsi sdolcinati sulle anime gemelle, ardentemente declamati da Gilbert Morgan, l'avevano influenzato a tal punto da farlo ammattire.

La ragazza dagli occhi di ghiaccio scambiò qualche altra parola col fratello, poi si rivolse all'uomo che le stava a fianco, probabilmente una guardia o un soldato, a giudicare dall'uniforme e dalle armi che portava appese alla cintura.

Lui si chinò verso la fanciulla e le tolse dalla fronte quel ricciolo sfuggito alle forcine, un gesto che fece irrigidire ulteriormente Bryce.

Il principe di Aldenor provò un moto di fastidio per la reazione del tutto spropositata del proprio corpo a quella vista, ma ciò non gli impedì di fulminare il soldato con lo sguardo quando questi gli lanciò un'occhiata. Al contrario di quelli della ragazza, gli occhi dell'ufficiale furono percorsi da una scintilla di stupore che si tramutò quasi all'istante in...comprensione?

Sempre più confuso, Bryce decise che per quella sera ne aveva avuto abbastanza. Non importava quanto si sentisse attratto da lei, quanto desiderasse avvicinarlesi e toccarla.

La cosa migliore da fare in quel momento era tornare a casa e riflettere con calma su quanto accaduto. Avrebbe avuto tutto il tempo di rintracciarla in seguito, si disse. Anche a costo di sguinzagliare ogni matricola disponibile in tutti gli alloggi e le locande della Vecchia Capitale.

Lanciò un ultimo sguardo a quella chioma dai riflessi argentati, racchiusa in una folta treccia laterale, quasi sperando che lei si voltasse e lo guardasse di nuovo.

Non accadde: la ragazza continuò a dargli le spalle e a discutere animatamente con il soldato dagli occhi scuri come onice.

Bryce emise un sospiro frustrato, tentennò ancora per qualche secondo, poi imboccò l'uscita senza ulteriori esitazioni. Se Morton avesse assistito all'intera scena, si sarebbe affrettato ad allertare i propri becchini di fiducia e a sollecitare gli operai a velocizzare i lavori di restauro del mausoleo.

Una simile perdita di compostezza da parte di Bryce, che si distingueva tra i fratelli Vandemberg proprio per la capacità di mantenere i nervi saldi - nonché portamento e maniere impeccabili - in qualsiasi circostanza, poteva significare una cosa e una soltanto: la fine del mondo era quantomai prossima.


 

*
 

 

Tre ore e molte chiacchiere dopo, Gwen e Gawain camminavano in silenzio lungo la via principale, diretti alla locanda dove gli altri due soldati li stavano aspettando.

Da quando avevano accompagnato Arthur al Collegio dove alloggiava, nessuno dei due aveva più aperto bocca. Gwen teneva gli occhi puntati davanti a sé, senza fissare nulla di preciso, soltanto per non rischiare di incrociare per errore lo sguardo del capitano. Da parte sua, Von Lear le lanciava occhiate velate di preoccupazione ad ogni passo e più di una volta cercò di dire qualcosa, ma venne sempre anticipato da un'occhiata della Principessa e tanto bastò a farlo desistere.

Gwennyfer Rowena MacWarden aveva a disposizione un'arma molto più temibile delle lame che tanto amava maneggiare: un suo sguardo era sufficiente a raggelare anche il guerriero più ardito.

Gawain sospirò e rinunciò a provare ad iniziare una conversazione. La Principessa l'avrebbe interpellato a tempo debito, su quello non aveva dubbi: Gwen non era il tipo da lasciar correre un affronto di quel tipo. Nemmeno se si trattava di una bugia bianca, un'omissione volontaria, una verità taciuta a fin di bene. Gawain Von Lear si era macchiato del peggiore dei crimini, perlomeno agli occhi della fanciulla: aveva tradito la sua fiducia.

Il falco albino di Lancelot li aveva raggiunti mentre stavano uscendo dal Collegio e li aveva condotti ad una locanda poco distante: il Giglio Nero.

La trascurata e modesta facciata dell'edificio traeva in inganno: l'ambiente interno era confortevole e tutt'altro che anonimo. Tutto, dal mobilio alle tappezzerie, lasciava presupporre un tocco chiaramente femminile. E difatti vennero accolti dalla proprietaria della locanda in persona, una gentile matrona dalla pelle scura.

Eccentrica era l'aggettivo che più si confaceva a Zara de Guyse, nome col quale si presentò la donna. Oltre ad una quantità spropositata di gioielli - anelli, braccialetti tintinnanti e collane dal peso non indifferente -, Zara sfoggiava una chioma vaporosa e variopinta che la faceva assomigliare ad un gigantesco arcobaleno.

Era impossibile non rimanere incantati da una persona del genere, pensò Gwen. La donna emanava positività e spensieratezza, aveva modi spicci e premurosi al tempo stesso, sapeva intrattenere gli ospiti senza risultare invadente. Due minuti in sua compagnia e la Principessa si sentiva già a proprio agio.

«Le vostre stanze sono già state preparate. Per qualsiasi richiesta, rivolgetevi pure a me. Vi basterà suonare» aggiunse Zara, indicando una corta catenella appesa accanto alla porta della camera. Gwen la ringraziò e le augurò la buonanotte, lasciando a Gawain il compito di avvertire i compagni del loro arrivo.

La Principessa osservò con fare pensoso l'alloggio, grande nemmeno la metà della propria stanza a palazzo. Si affacciava sulla strada principale ed era arredato con gusto: si lasciò sfuggire un sorriso quando notò il piccolo pianoforte verticale posto a ridosso della parete. Il caminetto incassato nel muro davanti al letto era stato acceso e il fuoco che vi bruciava all'interno gettava ombre spigolose sui pochi restanti mobili: un vecchio scrittoio e un armadio a due ante.

Terminato il sopralluogo, Gwen si sfilò il mantello e lo ripiegò con cura, per poi infilarlo in uno degli scomparti dell'armadio. Poi si sedette sul letto e attese.

Attese in silenzio, con lo sguardo perso nel vuoto, finché non udì bussare. A quel punto si riscosse dall'immobilità e proruppe in un secco: «Entra».

Gawain obbedì e richiuse la porta a chiave prima di affrontare la Principessa. Sebbene temesse l'ira della ragazza, il suo sguardo non vacillò. «Altezza, io …».

«Tu lo sapevi» lo accusò Gwen, con un tono che colpì il capitano come un pugno dritto allo stomaco. Non era né furibondo né sprezzante: era ferito, profondamente ferito. «Tu sapevi. Conosci tutto di me, tutta la storia fin dal principio» continuò lei, sempre mantenendo un'espressione glaciale. «E nonostante tutto, hai agito alle mie spalle. Mi hai ingannata».

Il soldato le si avvicinò cautamente e fece per toccarla, ma lei si ritrasse.

Le spalle le tremavano, le labbra erano strette in una linea dura. Tutto il suo corpo era teso e scosso da violente emozioni, eppure la sua voce restò piatta e fredda. «Tu sapevi...sai che...manca poco». Gwen chiuse gli occhi e deglutì a fatica. «E sai cosa penso riguardo a...lui. Tuttavia non te n'è importato nulla. Hai insistito con mio zio perché mi permettesse di venire in questa città, mi hai perfino accompagnata e...». A quel punto la Principessa non riuscì a frenare un sospiro tremante, che le spezzò la voce. «E per tutto questo tempo tu sapevi che lui era qui. Sapevi anche chi era, vero? Chissà da quanto tempo conoscevi la sua identità e non mi hai detto nulla».

Gawain tentò di ribattere, forse per difendersi da quelle accuse, ma lei lo zittì con un gesto. «So perché hai taciuto. Tu ti ostini a proteggermi da tutto e da tutti, ma, come ti ho già ripetuto, ci sono cose e persone da cui non posso essere protetta».

Von Lear sembrò afflosciarsi sotto il peso di quelle parole. «Mia signora, io...» cominciò, titubante, e si inginocchiò ai piedi di lei, mettendo i loro volti alla stessa altezza.

Gwen non alzò lo sguardo dal pavimento. Strinse le mani in grembo e scosse piano la testa. «Tu sapevi chi era, vero Wain? Forse speravi che, se l'avessi incontrato, le cose sarebbero cambiate, ma non succederà. Non succederà, lo capisci?». Una lacrima le corse lungo la guancia. Poi un'altra e un'altra ancora. Per ognuna di esse Gawain si sentì trafiggere il petto da aghi roventi. «Io non ho più tempo, Wain. Non ho più tempo».

Per quanto fosse straziante assistere a quel pianto silenzioso e disperato, il capitano non si permise di distogliere lo sguardo. Non disse nulla, non c'era nulla che potesse cancellare quell'atroce sofferenza che con le proprie azioni aveva contribuito a portare a galla.

Quella sarebbe stata la sua punizione, decise Wain. Perché guardarla soffrire era peggio che ricevere mille frustate.

Rimase tutta la notte in quella posizione: una mano tesa ad asciugarle le lacrime dal volto e l'altra stretta a quelle di lei.

 










 

 

* * * * * * *

 

 

Note: chi conosce me e il mio modo di scrivere, sa che ogni riferimento all'interno delle mie storie non è affatto casuale. I nomi che ho scelto per i personaggi originali si rifanno quasi tutti a quelli dei protagonisti del Ciclo bretone. Gwennyfer, Arthur, Gawain, Lancelot, Percival, Tristan: sono tutti nomi tratti dalle leggende dei Cavalieri della Tavola Rotonda.

Per quanto riguarda Zara de Guyse, beh, lei è l'eccezione che conferma la regola. Diciamo che è quasi la personificazione del mio carattere, eccentrico e bizzarro. La sua locanda è una mia invenzione, così come il piccolo stato di Stormhold, un omaggio a Neil Gaiman e al suo Stardust. Inoltre, la filastrocca che Gwen cita all'inizio del capitolo è una mia personale storpiatura di una poesia tratta da Il mistero della caverna di ghiaccio di R. L. Stine. La canzone che canta alla taverna, invece, è un miscuglio tra una delle canzoni scritte da Tolkien ne Lo Hobbit e le strofe di The Poet and the Muse, dei Poets of The Fall.

 

Che dire? Spero che il primo capitolo vi sia piaciuto e che continuerete a seguire la storia.

Un bacio,

Lizz

 

   
 
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