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Autore: Francine    09/05/2016    4 recensioni
Ha deciso. Oggi si chiamerà Athanasios. Colui che non muore. Gli è sembrato un nome appropriato, anche se il soggetto che ha scelto non è l’uomo più puro al mondo. Anzi.
Suo fratello avrà qualcosa da ridire, su quella e su molte altre delle sue scelte, ma pazienza. I fratelli maggiori brontolano per contratto. E quel corpo deve piacere a lui, deve calzargli come un
exomis di buona fattura che non costringa i movimenti, ma li esalti.
E deve piacere a lei; quel tanto che basta per farsi ascoltare, si capisce. E decidere che, forse, il gioco vale la candela.
Genere: Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Hades, Poseidon Julian Solo, Saori Kido
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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6.
 
 




Svegliarsi è come riemergere dalle profondità del mare.
Puoi farlo di colpo, come un delfino che salta a pelo dell’acqua e si rituffa e risalta e si rituffa, a cercare l’abbraccio del sole sulla pelle. Oppure puoi riemergere per gradi, come fa la medusa attratta dalla luce della luna, i lunghi tentacoli che danzano nell’acqua con movimenti ritmici, come se stesse ascoltando una musica che sente nella sua testa.
Oppure puoi ricevere un bacio dal tuo principe azzurro, una carezza a fior di pelle, che te l’increspi come fosse velluto pettinato con le dita, e trovare l’aroma caldo del caffè appena fatto che ti abbraccia e ti avvolge come una nuvola di dolci promesse. Sarà una giornata bellissima, dice – garantisce – di solito. Ed è questo il modo che lei preferisce, con l’odore pungente della salsedine che le risveglia i sensi intorpiditi dal sonno.
Spesso non ci si vuole svegliare perché si deve di necessità alzarsi e lasciare il letto. Ma chi l’ha detto? I risvegli migliori sono quelli che si protraggono per qualche minuto in più e ti obbligano a restare ancora un po’ tra le lenzuola – una mezz’ora, un’ora, tutta la mattinata. Questo lo decidi tu. E gli occhi blu profondo di lui, due polle d’acqua in cui annegare d’amore, non chiedevano di meglio, quando il mondo era giovane e loro due ancora inesperti e fragili, con il fuoco della passione a divorare i lombi ed il cuore in una vampa che arrivava fino alle stelle ed oltre.
Ed è così che le sarebbe piaciuto svegliarsi, stamane. Riemergere dal sonno – magari col fischiettare allegro dei merli – allungare una mano e trovare la sua schiena possente accanto a sé. Lasciargli scivolare le dita sulla pelle, accarezzargli un fianco e accompagnarlo nel più dolce dei risvegli. È sempre stato un leone, al mattino. E a lei è sempre venuta bene la parte della timida cerbiatta.
Invece, no.
Se solleva le palpebre, la testa ancora intontita, è perché il sole che filtra dalle persiane accostate ha deciso di stazionare sul suo viso. Chiamandola, come farebbe un bambino petulante con la sua adorata mammina. Così, lei dischiude appena un occhio, il destro, e sbircia il mondo da sotto le ciglia.
Non riconosce la stanza in cui si trova. Si scherma il viso con una mano, sbatte la palpebra e cerca di mettere a fuoco i contorni. Le persiane accostate sono righe di luce sulla parete di fronte a lei. Luce calda e dorata come solo il tramonto sa essere, quando il sole decide di ardere a piena potenza, minacciando di portarsi il mondo appresso, in una fiammata gloriosa.
Quanto ho dormito?, si chiede. Sbadigliando e stiracchiandosi per bene, con lentezza, come fanno i gatti dopo un pomeriggio d’estate speso a sonnecchiare all’ombra di un muricciolo. Non trova risposte. Strofina il viso contro il cuscino, ché la voglia di ignorare il sole e girarsi dall’altra parte è una tentazione fortissima; ma funzionerebbe? No, si risponde, ché oramai è sveglia e il dolce abbraccio del sonno è svanito come un ricordo portato via dal vento. Come se non fosse mai esistito.
Sbuffa. Scalcia i piedi, tra le lenzuola sfatte, e poi si arrende. Un sospiro, un’ultima stiracchiata e si mette a sedere.
Non riconosce la stanza in cui si trova. C’è un letto – ampio, sfatto, coi cuscini alla deriva sulle lenzuola – dei comodini, un ventaglio rosso sopra la testiera di vimini, una sedia accanto alla porta d’ingresso, un armadio a muro. E uno specchio, di quelli a figura intera, coperto da una camicia da notte in seta nera, di quelle che non lasciano nulla all’immaginazione.
Aggrotta le sopracciglia, in cerca di un indizio qualsiasi. Dove si trova? Un albergo, con tutta probabilità uno di quelli che si affaccia sul lungomare di Glyfada. Si trovavano lì, ieri sera, giusto? Glyfada. Il mare, la luna e loro due, le stelle testimoni della loro ritrovata unione. Alla faccia tua, Anfitrite.
Però, pensandoci bene, le suona strano che Ennosigeo l’abbia portata in un alberghetto sul mare. Lei li legge, i giornali. Per tenersi informata, s’intende. E, sempre per tenersi informata, lei sa del patrimonio immobiliare dei Solo. Delle loro ville. Della tenuta a Markopoulo. Dell’attico in centro di Julian. Possibile che fossero talmente bisognosi di ritrovarsi da non badare al dove? Sì e no, si dice, ché Ennosigeo è sempre stato molto attento, a certi dettagli. E anche quando la portava in certe grotte ed in certi anfratti, come quello scoglio troppo cresciuto ad ovest della Sicilia, era sempre attento a farle trovare qualcosa di magico. Unico. Inimitabile.
Si stringe nelle spalle.
Lui non c’è. Per un istante, uno soltanto, la sfiora la paura che abbia tagliato la corda. Una toccata e fuga impetuosa e nulla più. Si morde le labbra. No, si dice. La stanza profuma ancora dell’odore penetrante di Eros. Le lenzuola sfatte, la camicia da notte alla deriva, i cuscini sprimacciati, le persiane accostate, tutto questo grida della loro passione. No, Ennosigeo è semplicemente sceso a farsi una nuotata, come suo solito, ché uno come lui non lo tieni lontano dall’acqua troppo a lungo. Nossignore.
Quindi, le si aprono due strade. Aspettarlo in camera, fingendo di essere addormentata, e lasciare che lui la svegli con un bacio che sa di sale e vento e sole al tramonto. Oppure vestirsi e raggiungerlo in spiaggia. E magari riprendere il discorso da dove si erano interrotti la sera prima. Opta per la seconda ipotesi, ché se Ennosigeo è sempre stato uno spettacolo appena emerso dall’acqua – con i rivoli che gli accarezzano i muscoli torniti e i riccioli scuri e grondanti – la curiosità di sapere dove si trovino, e quanto possano spingersi oltre, è più forte di tutto.
Così, posa i piedi a terra, sul pavimento impolverato. È caldo. Caldo e secco, cosa che lo rende più sopportabile. L’armadio è vuoto. Lei è nuda. E non può certo scendere in spiaggia con indosso solo la camicia da notte. Ennosigeo gradirebbe, ma i mortali? Come la mettiamo con loro?
Così si aggira per la stanza, raccogliendo le lenzuola ed ammucchiandole alla rinfusa sul letto, e avvicinandosi alla sedia accanto alla porta d’ingresso. C’è della sabbia rossa che s’insinua sotto il legno azzurro carico. Siamo in spiaggia, si dice. Ma dove?
Poi ricorda che i Solo posseggono un’isola, nello Ionio, proprio accanto a quella degli Onassis. Avrebbe senso, si dice. Notando il suo vestito rosso ripiegato sulla sedia. Lo indossa, si sistema i capelli ravviandoli con le dita, elimina una piega inesistente sullo sprone, ed apre la porta.
Fuori non c’è il mare. Nemmeno quello dei palazzi che ammantano Atene, vista dall’Acropoli. C’è una distesa di terra rossa a perdita d’occhio. Né un albero, né una nuvola, né dell’erbetta fresca su cui posare i piedi. Ci penso io, si dice, mentre il suo divino cervello le ricorda che non ha sentito il suono della risacca, alzandosi. Ma allora dove diamine siamo?, si chiede, stendendo la mano davanti a sé.
La terra resta immota. Non si scuote, non si ricopre di erba, le timide piantine non spuntano a vedere il sole. Non succede nulla. Il suolo se ne resta lì, sotto di lei, come una cosa morta.
Com’è possibile?, si chiede. Aggrottando le sopracciglia.
Riprova.
Niente.
Ancora.
Sempre lo stesso risultato.
Cosa sta succedendo, qui? Si solleva e si guarda intorno allarmata. Fa per chiamarlo, «Ennosigeo!», ma scopre che l’aria è irrespirabile. È morta anch’essa. E il suono non si propaga, se non c’è l’ossigeno a fargli da cassa di risonanza. Si porta una mano al collo. Fa male anche stare a bocca aperta. E non c’è niente per chilometri e chilometri, solo questa terra dal grembo sterile, spaccata fin nelle viscere, ed un cielo del colore del bronzo. Quello brunito degli scudi, reso più scuro dal sangue e dalla polvere che si porta dietro una battaglia. Una di quelle lunghe, aspre e sanguinarie. Una in cui il Guerriero amerebbe sguazzare come una papera nello stagno.
Non capisco, si dice. Facendo il giro della casa, un cubo bianchissimo dal tetto pericolante e dall’intonaco sbeccato; come se, alle sue spalle, potesse esserci chissà quale salvezza. Ma il panorama non cambia. Anzi, se possibile, è ancora peggiore, con dei nuvoloni color viola melanzana che si avvicinano a grande velocità, carichi di livore e pronti ad oscurare il cielo stesso.
Quando torna alla porta d’ingresso, nota che il legno è marcito. All’istante. La vernice azzurro carico è a terra in piccole scaglie. Butta uno sguardo all’interno. C’è solo polvere. Polvere, ragnatele e le lenzuola sono chiazzate dalla muffa.
Che diamine sta succedendo, qui?!
Si volta, in cerca di una spiegazione, quando nota qualcosa. Una bizzarria, in quel panorama di per sé bizzarro oltre ogni logica. Un albero di limoni. Prima non c’era, si dice, schermandosi la vista con una mano. Ne sono sicurissima. Poi pensa che forse il suo potere funziona male. Che, forse, quell’albero lo ha fatto crescere lei, insistendo così tanto sul terreno morto. Forse è morto solo davanti alla casa. Forse, laggiù, a pochi metri da lei, c’è ancora speranza, e la terra ha risposto al suo richiamo. Eppure volevo solo del prato all’inglese, si dice, notando qualcosa tra i rami dell’albero. Qualcuno. Sta facendo dei gesti con la mano, come a volerla salutare, o richiamare la sua attenzione. Ennosigeo?, si chiede. Raccogliendo l’orlo del vestito in grembi ed avvicinandosi all’albero.
Non è Ennosigeo, no. C’è un uomo, tra i rami del limone, ma non è il suo amante. Indossa una palandrana nera, con dei dettagli d’argento. Ma non ha caldo?, si chiede lei, il sudore che le scorre sulla fronte, tra i capelli e giù per la schiena. Fa caldo anche solo a pensarci. Non spira un alito di vento, e, anche se succedesse, sarebbe una boccata d’aria calda che esce da un forno aperto. Le fronde dell’albero, però, sono di un verde intensissimo, come se se ne fregassero di quello che gli accade attorno. Sembra quasi di sentire l’albero dire: L’apocalisse termonucleare? E allora? Che problema c’è? Mi sposto un po’ più in là. E a lei sembra quasi possibile.
Raggiunge la base dell’albero e si appoggia con una mano al tronco. Fresco. Giovane. In salute. Lei stessa non avrebbe saputo fare di meglio. Prende fiato, ché l’ombra delle fronde è piacevole dopo quella breve camminata sotto al sole inclemente. E poi alza lo sguardo alla figura che la stava chiamando. Prima non poteva distinguerlo, per via del miraggio di Morgana, ma non c’è aria calda che sale lungo il fusto dell’albero, nossignore. E lei può vedere.
«Buongiorno!»
È quella mezza cartuccia di suo genero. Che poi è anche quello smidollato di suo fratello. Apre la bocca per parlare. Poi si ricorda che no, non si può parlare perché non c’è ossigeno, e la richiude. Poi si dice che lui ha parlato, invece. E allora la riapre e chiede: «Che significa, tutto questo?».
Lui sorride, quella smorfia che l’ha sempre irritata peggio delle unghie sull’ardesia di una lavagna, e le getta un limone. «Avrai sete», le dice.
Lei afferra quel frutto, grosso come un cedro, dalla buccia rugosa e profumata.
«Appena colto», le dice lui. Poi ne stacca un altro dall’albero – albero che ha ancora fiori e frutti – lo passa sulla veste per togliergli la polvere e lo addenta.
Lei resta a guardarlo, come fosse una qualche creatura bizzarra uscita da un sogno del Padre.
«Non mangi?», le chiede. «È buono, sai?»
«Che. Significa. Tutto. Questo?» Dov’è Ennosigeo? Dove l’hai portato? Che gli hai fatto, razza di disgraziato?!
Lui la guarda come se le fosse spuntata una seconda testa. Sbatte le palpebre, l’espressione stupita che sembra sincera. Non m’incanti, cocco.
«Allora?», l’incalza, gettando via il limone e per un soffio non batte il piede a terra, tra le radici dell’albero.
Lui sorride. «Allora», dice, prendendosi una pausa enfatica, «stavolta ho vinto io, mamma.».
Lei sgrana gli occhi. Si guarda attorno, perplessa, come se da un momento all’altro qualcuno possa saltare fuori e gridare «Ci hai creduto!». Quel cretino del Pensiero, ad esempio. O quell’altro perdigiorno dello Straniero. Invece non salta fuori nessuno. E lei riporta il suo sguardo di cielo smarrito sullo Sconosciuto.
«Hai… vinto
«Sissignore!», esclama lui, gonfiando il petto come un tacchino. «Non mi credi? Ascolta!», e le lancia qualcosa. Qualcosa che assomiglia ad una medusa appena pescata, i lunghi tentacoli che danzano nell’aria morta. Strani, quei tentacoli, commenta il suo cervello, mentre la cosa le ricade tra le mani, con un fiotto caldo e viscido. Sangue. Denso e corposo, nemmeno fosse vino liquoroso. È una testa umana. E quelli che lei chiamava tentacoli sono dei lunghi, lunghissimi, e setosi capelli femminili. Sottili. Liscissimi. Per le Erinni, che hai fatto, scellerato?! Ma il suo resta solo un pensiero, ché l’orrore è troppo grande per poter anche solo dire «ah».
«Non la riconosci?», lo sente chiederle. «Voltala!», le dice, come se fosse una stola da ammirare. Un arazzo. Un peplum ricamato. E le sue dita eseguono, portandola a trovarsi faccia a faccia col bel viso della Fanciulla. Mai bello quanto quello della mia bambina. È lei, la vera Fanciulla, non questo maschiaccio, pensa. Ma poi la testa mozzata – mozzata non di netto, ma con il lavorio del seghetto di un coltello da cucina – spalanca gli occhi. E la fissa. Lei l’allontana da sé.
La testa cade a terra. Rotola per un paio di passi, fermandosi con lo sguardo all’insù. Fisso su di lei.
«Ahi», protesta la voce della Fanciulla. Lo Sconosciuto continua a mangiare il suo limone, con un risucchio liquido. Sciupp, sciupp, sciupp.
«Scu… scusami», dice, la voce di un’ottava più alta. «Non… no volevo», aggiunge, rimettendo la testa al dritto. Pettinandole i capelli. E togliendole qualche foglia dal viso.
Il volto della Fanciulla la guarda. Sbatte le palpebre. E poi: «Ha vinto lui», le dice, con quell’inflessione ateniese da signorina con la puzza sotto al naso. «Sei contenta, Terra?»
«No… no…»
«O sì. Certo che sì.», e il viso della Fanciulla sorride, gli occhi che scintillano – pericolosi – nella penombra delle fronde dei limoni. «Adesso la terra appartiene a lui. Soddisfatta, sorella

   

 


Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:
Eccoci qui, con il penultimo capitolo di questa storiella.
Mi sono presa un po' di libertà con il patrimonio della famiglia Solo. La villa a Glyfada - località très chic sulla costa dell'Attica, a sud-ovest di Atene - è quella dove Julian ha festeggiato i suoi sedici anni. No, niente villa a Capo Sounio. Per favore, no.
Markopoulo è una località a sud-est di Atene, dove si produce il Retsina.
L'isoletta dello Ionio è un chiaro riferimento all'isola Skorpios, di proprietà di Aristotele Onassis, ora passata nelle mani di un qualche oligarca russo.
Lo scoglio ad ovest della Sicilia è l'isola Maraone, uno scoglio disabitato dove vanno a nidificare gli Uccelli delle Tempeste.
   
 
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