Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: HannibalLecter    09/05/2016    2 recensioni
Liam Carter Wright è un giovane avvocato esperto in divorzi e furiosi litigi, tipico topo di città la cui unica idea di contatto con la natura comprende un dissetante cocktail servito in una noce di cocco, calda sabbia bianca e donne dalla pelle dorata dal sole.
Felicity Van Houten, testa tra le nuvole e lentiggini, invece lavora quotidianamente immersa nel verde e ogni sera si rifugia nella sua casetta di campagna alquanto malandata, circondata da un vero e proprio paradiso fiorito, che la tiene impegnata a tal punto da farle scordare di fare la spesa o pagare le bollette.
Il sole stava calando e tutto il giardino aveva assunto una deliziosa sfumatura aranciata. Diressi il getto dell'acqua verso il cespuglio di azalee e mi misi a canticchiare tutta allegra:
«Le rose sono rosse
le viole sono blu
Liam Carter Wright è una testa di cactus
e presto lo scoprirai anche tu!»
Passai al rododendro che tenevo in un bellissimo vaso di terracotta decorata e innaffiai abbondantemente anche lui.
«Miss Van Houten, lei è una poetessa sublime»
Mi voltai di scatto e mi trovai di fronte in tutto il suo splendore Mr. Testa di Cactus meglio conosciuto come Liam Carter Wright.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

Liam

 

«Sono le dieci e quaranta, Mr. Carter Wright. Tra meno di venti minuti avrà inizio l'udienza; non voglio metterle fretta ma deve ancora chiamare quelli della Brooks & Brooks e leggere l'ultimo fascicolo su Mr. Fry...». Diane era terribilmente irrequieta quella mattina e il suo continuo andirivieni dal mio ufficio accompagnato agli sguardi preoccupati che mi lanciava di soppiatto, convinta che io non me ne accorgessi, non aiutavano certo a calmare i miei nervi già a fior di pelle.

Lasciai perdere la mail che da dieci minuti buoni stavo cercando di concludere con scarso successo e alzai esasperato lo sguardo. «Cosa c'è ancora, Diane?»

Mi guardò dubbiosa, gli occhi indagatori e le braccia strette attorno alla sua, o per meglio dire mia, agenda voluminosa.

«Non ha messo la cravatta stamattina. Chiamo Inés e le chiedo di portargliene una? Grigio scuro? Vuole anche una camicia bianca pulita?»

Abbassai lo sguardo e fissai stranito il cotone verde pallido della camicia che indossavo, camicia che non ricordavo neanche di possedere.

Che mi stava succedendo?

«Lascio fare a te, Diane. Ora per favore concedimi un minuto di respiro», la congedai infastidito.

Mi pentii quasi subito del modo scortese con cui mi ero rivolto a quella santa donna che era la mia segretaria. Probabilmente se io fossi stato nei suoi panni mi sarei già macchiato di omicidio nei confronti del mio caro superiore, ovvero il sottoscritto.

Dovevo apparire davvero insopportabile agli occhi degli altri: posizione di spicco, conto in banca straripante, auto di lusso e resort esclusivi. E stronzaggine acuta inclusa nel pacchetto.

La triste verità però era un'altra: avvocato ultratrentenne, divorziato con figlia, pochi amici, famiglia lontana e un appartamento vuoto.

Mi domandai da quando fossi così diventato un amante dell'autocommiserazione. Mi ero sempre goduto quello che avevo, forse lo avevo fatto in modo superficiale ed egoistico, ma mi bastava così, mi andava bene così.

Allora cos'era cambiato? Quando avevo iniziato ad aspirare ad una vita che assomigliasse di più a quella dei miei genitori? Sembrava un controsenso, aspirare ora, a trentaquattro anni, alla vita da cui a diciotto era fuggito senza voltarmi indietro.

Eppure ci avevo già provato e il fallimento si palesava sotto forma dell'assegno di mantenimento a tre zeri che ogni mese dovevo versare per mantenere una figlia che non conoscevo e una ex moglie verso cui non provavo altro che rancore.

Tiffany era una spocchiosa ragazzina abituata ad avere un'autista da schiavizzare e un padre con cui bastavano due moine per poter spillare continuamente denaro.

Eppure era terribilmente bella. Si aggirava per il campus a mento alto, i sandali che ticchettavano al suo passaggio e uno sguardo altezzoso celato dalle lenti scure di un paio di ampi occhiali da sole con la montatura ad ali di farfalla.

Ai miei occhi di ragazzo povero di provincia lei rappresentava tutto ciò a cui io aspiravo. Ovviamente io ai tempi, matricola con le camicie in flanella e i libri di seconda mano, non avevo alcuna possibilità di avvicinarmi a lei e così mi limitavo a fissarla di soppiatto come si fa con gli animali più rari ed esotici allo zoo.

Tutto cambiò quando Mildred, migliore amica di Tiffany, iniziò a frequentare Matt e così, grazie ad un'uscita a quattro, ci ritrovammo per la prima volta faccia a faccia.

Il nostro primo incontro fu disastroso, lei si limitò a salutarmi con fare altero dopo che ci presentarono l'uno all'altro e poi passò tutta la sera a bisbigliare all'orecchio di Mildred, a fissarsi le unghie laccate di smalto lucido e a rigirare nel piatto le tre tristi foglie di insalata che aveva ordinato per cena.

Passarono due anni, Matthew e Mildred tra alti e bassi continuavano a stare insieme, io avevo aggiunto due corsi sulla finanza al mio programma di giurisprudenza e mi ero trovato un secondo lavoro presso il bar vicino all'università.

Tiffany l'avevo intravista spesso alle poche feste a cui partecipavo e ad seminario sul marketing ma non eravamo mai andati oltre un paio di cenni di saluto distratti. Non avevamo assolutamente nulla in comune se non i drammi d'amore periodici che vivevano i nostri migliori amici e perciò non avevo mai tentato di iniziare una conversazione.

Poi una sera di marzo, un temporale terribile a squarciare il cielo notturno e la sala del bar semi deserta, qualcosa era cambiato. Stavo sciacquando due boccali di birra mentre alla radio davano una vecchia canzone degli Smiths quando la porta si era spalancata e insieme ad una folata d'aria gelida aveva fatto il suo ingresso Tiffany.

Aveva i capelli umidi, il viso dal trucco sbavato e un impermeabile leggero completamente fradicio. Ricordo ancora come il suo portamento sempre fiero ed elegante riusciva a non farla apparire mai fuori posto, nonostante gli occhi arrossati o il look non proprio da prima pagina come al solito.

Ancora oggi sono convinto che uno può credere quello che vuole sul fatto che il destino sia già scritto o meno ma quella fu una mera coincidenza giocataci dal caso. Quella sera non ero di turno ma avevo dovuto sostituire all'ultimo momento il mio collega che si era beccato la mononucleosi per la terza volta nel giro di due mesi e in seguito scoprii che Tiffany si era gettata proprio in quel locale e non in quello di fronte per il semplice fatto che la nostra insegna aveva un aspetto più elegante e signorile.

Non mi riconobbe subito. Si sedette al bancone, lo sguardo fisso nel vuoto, e quando le domandai cosa potessi portarle mi chiese un thè caldo senza zucchero. Quando glielo servii mi ringraziò senza guardarmi negli occhi e iniziò a mescolare distrattamente il liquido ambrato nella tazza di fronte a lei. La osservavo in silenzio mentre mi domandavo cosa potesse essere successo per portare Tiffany Kennedy ad abbandonare il suo solito aspetto impeccabile e il suo atteggiamento fiero.

«Potrei avere una fettina di limone?». Lo chiese piano, così piano che inizialmente la sua voce si confuse con quella di Joni Mitchell che cantava in sottofondo e io pensai di essermelo immaginato.

Pescai un limone abbandonato nelle profondità del frigorifero del bar, locale non solitamente frequentato da avventori che ordinavano tisane calde, lo affettai e, dopo aver disposto qualche spicchio su un piattino, glielo servii.

«Hai corretto il mio thè, vero?»

Alzai lo sguardo e per la prima volta incontrai quegli occhi così glaciali da mettere a disagio chiunque avesse il coraggio di fissarli a lungo. Annui quasi imbarazzato ma non guardai altrove, deciso a non mostrarmi più debole di lei.

Dopotutto non era altro che una viziata figlia di papà a cui importava solamente di sé stessa, continuavo a ripetermi nella mente ricordando tutte le parole poco lusinghiere con cui Matt si rivolgeva a lei quando ne parlava.

«Ne avevo bisogno, grazie», mormorò sempre bisbigliando come se ci trovassimo in un luogo in cui dovessimo rispettare il silenzio. Poi corrugò la fronte e mi indicò, «Io ti conosco, vero?»

Disse proprio così e io mi sentii l'essere più patetico sulla faccia della terra. Io di lei sapevo praticamente tutto mentre lei neanche si ricordava di me.

«No. Sono amico di Matthew e conosco Mildred...», risposi allontanandomi da lei e tornando verso il lavello e le poche stoviglie che ancora attendevano di essere lavate.

Già ai tempi io e Mildred ci detestavamo cordialmente nonostante ci sforzassimo di mantenere sempre una patina di forzata cordialità quando ci trovavamo l'uno in presenza dell'altra.

Ad anni di distanza posso tranquillamente affermare che Mildred continuerà a non piacermi anche se in fondo potrei quasi considerarla un'amica ormai. Lei sicuramente si considera tale nonostante la scarsa gentilezza e le battute al vetriolo che continua a dedicare solo al sottoscritto.

Tiffany quella sera era diversa, probabilmente meno concentrata sul suo ego rispetto al solito o forse solo bisognosa di traslare la sua attenzione su qualcosa che non fossero i suoi problemi, e così si alzò e si posizionò sullo sgabello di fronte al lavandino dove mi trovavo io, palesemente intenzionata a non lasciarmi stare.

«Io ti conosco. E so anche il tuo nome...Louis? Neil?»

«Liam»

Lei sorrise come per scusarsi della sua dimenticanza e si sporse verso di me. «Hai degli occhi bellissimi. Chissà perché a Mildred è piaciuto di più quel broccolo di Matthew e non tu...», borbottò pensosa mentre con un dito seguiva il bordo della tazza in ceramica.

Iniziò tutto così e ancora oggi a volte mi domando come sia possibile che nel giro di due anni mi fossi ritrovato incastrato in un matrimonio che mi avrebbe portato a demonizzare in futuro qualsiasi tipo di amore a lungo termine.

Tiffany mi aveva prosciugato anima e corpo e per questo non l'avrei mai perdonata. Erano passati quattro anni dalla nostra separazione e ancora non avevo fatto pace definitivamente con me stesso, colpevole di averle permesso tutto quel potere su di me.

Lei voleva sempre di più e io avevo tentato in tutti i modi di offrirglielo ma i primi anni erano e sono duri per ogni neolaureato che non abbia già le spalle coperte da una famiglia influente e benestante e così quello che facevo non bastava mai. Quando era arrivata Arabella eravamo già in crisi da tempo e l'idea che un bambino avrebbe potuto riavvicinarci era stata un abbaglio. Non fece altro che sottolineare le nostre idee agli antipodi e mettere in luce l'ambiente completamente diverso da cui provenivamo.

Sono stato un pessimo padre ma non ho mai saputo come comportarmi nei confronti di quella bambina innocente, mia figlia, verso cui ho sempre provato un senso di colpa che probabilmente superava l'affetto paterno. Io e Tiffany eravamo colpevoli per aver voluto mettere al mondo quel piccolo essere per guarire i nostri problemi e alla fine tutto era andato in frantumi, come era prevedibile, e Arabella, a solo un anno di vita, si era trovata con due genitori separati che non sapevano minimamente cosa volesse dire fare da madre e padre.

Non avevo neanche tentato di tenere Arabella con me, avevo paura che il tutto si sarebbe concluso solo con il trascurarla e il delegarne le veci di genitore alla povera Inés e non volevo farle vivere l'incubo di una battaglia legale per l'affidamento tra me e sua madre, e così avevo accettato passivamente che andasse a vivere in California con Tiffany e i Signori Kennedy e mi ero accontentato delle quattro settimane annuali stabilite dal giudice che mi spettavano.

Crescendo a miglia e miglia di distanza da me, Arabella si era fatta sempre più distante e ogni volta che veniva a trovarmi mi accorgevo sempre più di non conoscerla. Non sapevo cosa le piacesse fare nel tempo libero, quale fosse il suo cartone animato preferito o quale gusto di gelato prediligesse. I nostri weekend si trascinavano nel mio imbarazzo di fronte all'incapacità di farle da padre e i suoi lunghi silenzi intervallati solo dalle poche parole che mi rivolgeva per chiedermi se poteva andare in bagno e quanto mancava al suo ritorno a casa.

Un lieve bussare mi distolse da quella marea di tristi riflessioni che mi aveva travolto.

«È ora. Nell'antibagno le ho lasciato camicia, giacca e cravatta e un'aspirina nel caso ne avesse bisogno. Il taxi l'aspetta all'ingresso sul retro», elencò Diane, gli occhi sempre più colmi di sincera apprensione mentre constatava che il fascicolo giaceva nella stessa posizione in cui lo aveva lasciato lei poco prima e che avevo riposto la cornetta del telefono in modo tale che risultasse occupato a chiunque avesse tentato di contattarmi. «Se posso fare qualcos’altro…»

La ringraziai e le assicurai che aveva già fatto tutto il necessario e anche di più in modo impeccabile come al suo solito.

«Bene, allora in bocca al lupo e si rilassi: è il migliore nel suo campo e nessuno può metterla in difficoltà se lei dà il meglio di sé come al solito. Ci vediamo più tardi», e con un sorriso incoraggiante si eclissò discreta e silenziosa come sempre.

Avrei dovuto dare una festa super sfarzosa in onore di quella donna che da anni e anni mi sopportava, mi sosteneva e si prendeva cura di me senza mai risultare inopportuna o indiscreta. Diane era stata al mio fianco quando mi ero separato da Tiffany e non aveva mai sottovalutato il dolore che io cercavo di fingere di non provare.

Sfilai quell’orribile camicia verde, colore che probabilmente solo mia sorella Judith avrebbe potuto trovare elegante e indossabile, e mi vestii con gli abiti perfettamente abbinati e stirati che trovai nella stanza da bagno del mio ufficio.

Detti una rapida occhiata alla mia figura riflessa nell’ampio specchio, recuperai la mia ventiquattr’ore e mi avviai verso l’ascensore. Il taxi mi attendeva dove mi era stato indicato dalla mia efficiente segretaria e nel giro di pochi minuti mi ritrovai immerso nel traffico mattutino di Boston.

Avrei potuto ripassare i dati più specifici che avrei dovuto esporre nel corso del mio intervento in tribunale ma non ne sentivo il bisogno perciò per distrarmi estrassi il telefono dalla tasca interna della giacca dove lo avevo fatto scivolare poco prima.

Scorsi annoiato le diciassette email che mi erano arrivate nell’ultima ora, risposi rapidamente ad un paio di esse, le più urgenti, e chiusi la mia casella di posta. Sorrisi nel vedere la foto inviatami da Matt di suo figlio Gabriel sulla sua prima micro bicicletta, bardato da capo a piedi di protezioni in caso di caduta, che aveva un’espressione terrorizzata. Mi domandai se Arabella sapesse andare in bicicletta e mi riproposi di demandarglielo la sera stessa.

Il simbolo di una nuova mail illuminò lo schermo del mio telefono e stavo per metterla in attesa come tutte le altre quando mi accorsi chi fosse il mittente.

 

Mr. Liam,

Come stai? Devo ammettere che lo scoprire che hai una figlia mi ha lasciato un po’ interdetta. Perché non ne hai mai parlato? È una bambina deliziosa e ti assomiglia moltissimo, e non mi riferisco solo a quegli enormi e bellissimi occhi grigi.

Ti scrivo per chiederti se a te e Arabella andrebbe di venire una sera a cena da me. Spero davvero accetterete l’invito.

A presto!

Felicity

 

***

 

Qualche ora più tardi, dopo aver lasciato l'ufficio ed essermi districato nel solito ingorgo serale di persone che rientravano a casa, raggiunsi il mio appartamento e mi ricongiunsi con mia figlia, permettendo così a Inés di tornare dalla sua famiglia e prendersi una pausa dall’occuparsi della mia di famiglia.

«Ti sei divertita oggi?», domandai alla bambina seduta a gambe incrociate sul folto tappeto chiaro in soggiorno e impegnata a colorare su un ampio quaderno.

Mi sedetti alle sue spalle e ne approfittai per liberarmi di giacca e cravatta. Sbirciai  oltre le sue spalle minute per osservare il suo disegno.

C'erano tre figure sul foglio: una piccola, vestita di azzurro e con una grossa A disegnata sulla pancia, e due adulti. Una donna dai lunghi capelli castani etichettata con T e un uomo con i baffi che recava una panciuta R ricamata sulla camicia.

R non L di Liam. Strinsi gli occhi sorpreso dal dolore inaspettato che quel disegno e la mia apparente esclusione da esso mi aveva procurato.

Sapevo benissimo chi fosse quell'uomo, quei folti baffi a manubrio grigi non potevano appartenere a nessuno al di fuori di Mr. Reginald Kennedy. Che tra l'altro ancora mi riteneva il diretto responsabile di tutti i problemi della figlia e di riflesso della nipote. La verità era però un'altra: era stata proprio Tiffany a mandare all'aria tutto, sia la sua vita che la mia.

Suo padre ai tempi della separazione aveva inveito per giorni contro di me, lanciandomi accuse e rivolgendomi minacce. Erano passati quattro anni dall'ultima volta che avevo avuto il piacere di trovarmi al cospetto del vecchio Reginald e speravo con tutto il cuore che ne passassero altri cento prima che fossi costretto a rivederlo.

Aveva lo stesso carattere sanguigno e impetuoso della figlia, la medesima radicata convinzione di essere migliore degli altri e una altrettanto fastidiosa spocchia.

«Inés non sa cosa siano i My Little Pony e dice che le Barbie sono stupide», borbottò a mezza voce senza distogliere la sua attenzione da pennarelli e matite.

Sospirai pensando a quanto Inés criticasse la società moderna e il materialismo che la permeava. Me lo ripeteva sempre: «Señor Liam, stiamo andando così veloci che tra poco non sapremo più da dove siamo arrivati e dove volevamo andare». Nonostante il mio scetticismo avevo sempre rispettato il lato più spirituale e quasi profetico della mia insostituibile governante.

Allungai una mano verso il foglio quadrettato che Arabella stava colorando e indicai la figura maschile. «Com'è il Nonno Reginald?», le domandai curioso di sapere cosa ne pensasse quella bambina così intelligente e seria di quel vecchio burbero e capriccioso.

Mia figlia smise di calcare la sua matita rossa sulla carta e si fermò a riflettere. «Non posso chiamarlo nonno, solo Reggie, altrimenti si sente vecchio»

Quell'uomo era sempre insopportabile e lunatico come al solito a quanto pareva. Allungai le braccia e sollevai Arabella di peso per farla accomodare sulle mie gambe. Parlava come una adulta eppure non era altro che una bambina di soli cinque anni. Osservai quel nasino spruzzato di lentiggini e non potei fare a meno di pensare quello di Felicity, dalla forma meno infantile e più pronunciata ma altrettanto grazioso. E a proposito della mia giardiniera...

«Arabella, ti piacerebbe andare a cena da Felicity? Te la ricordi? La ragazza che hai conosciuto ieri in campagna...», le proposi sperando con tutto il cuore che dicesse di si o per lo meno facesse un sorriso o dimostrasse un po' di quel sano entusiasmo che caratterizza i bambini.

Lei mi sorprese e fece di più; arricciò le labbra in un sorrisetto ironico e mi chiese: «La ragazza delle fragole? Quella che ti piace?»

I bambini e la loro disarmante sincerità. No, non li avrei mai capiti quei piccoli folletti sempre persi tra le nuvole eppure ancora capaci di vedere la realtà in modo puro e autentico e di provare stupore di fronte ad esso.

«Giusto, la ragazza delle fragole...», asserii ignorando volutamente la sua seconda domanda, «Mi ha chiesto se ti andrebbe di cenare da lei una sera di questa settimana: che ne dici?»

Lei mi squadrò pensierosa prima di controbattere chiedendo se a me avrebbe fatto piacere accettare quell'invito.

Quella bambina era decisamente troppo intelligente e non sapevo se dedurre orgogliosamente da ciò che il mio patrimonio genetico poteva avere in qualche modo influito o se preoccuparmi per la precocità di mia figlia.

Quegli occhioni grigi, esatta copia dei miei, mi fissavano attenti, in attesa di una risposta. C'era una risposta giusta e una sbagliata? Oppure per Arabella era lo stesso?

«È stata gentile ad invitarci perciò io pensavo di accettare ma prima volevo sapere cosa ne pensavi tu. Questa dovrebbe essere la nostra settimana e dobbiamo fare solo cose che ti piacciono...»

La piccola tra le mie braccia si aprì in un ampio sorriso e per una volta sembrò semplicemente una bambina senza pensieri, «Allora andiamo! Sembrava simpatica anche se un po' strana Felicity...», esclamò appoggiando la testolina sul mio petto e sbattendo le ciglia di fronte al sole calante che penetrava dalla vetrata alle mie spalle.

I suoi soffici capelli castani mi solleticavano il collo e il  ritmo regolare del suo respiro lieve mi mise addosso una serenità che non provavo da tempo. Restammo così per alcuni minuti che parvero cristallizzare il tempo per renderli il più infiniti possibile prima che Arabella iniziasse a scalciare per scendere dalle mie gambe e mi riportasse alla realtà.

«Papà, ho fame!», esclamò con fare imperioso tirandomi per la manica della camicia come ad esortarmi a ricordare quali fossero i miei doveri basilari in veste di genitore.

Le chiesi se Inés avesse cucinato qualcosa, nonostante sapessi già la risposta, e lei mi raccontò per filo e per segno tutti i passaggi più minuziosi per preparare un’insalata di pollo e del sorbetto ai frutti di bosco. Quando le consigliai di mettersi qualcosa di comodo per la cena, non volendo macchiare quello splendido abitino rosa confetto e dare a sua madre un pretesto per incolparmi per una sciocchezza, lei mi guardò dubbiosa e ripeté esitante le mie parole, come a volersi sincerare della loro veridicità: «Cambiarmi il vestito? Posso davvero?»

Guardai senza capire mia figlia e lei mi spiegò di come Tiffany e Reginald ci tenessero al fatto che ci si vestisse eleganti, o perlomeno con un po’ di cura in più rispetto al giorno, per andare a cena.

«Certo che sì! Siamo in famiglia qui e puoi vestirti come preferisci…Anzi, sai che ti dico? Andiamo entrambi a toglierci questi abiti scomodi, ok?». Le afferrai la mano e la guidai verso la sua camera, dove un ampio guardaroba laccato di bianco svettava nell’angolo, spalancai le ante dell’armadio per lei e una fila ordinata di vestiti appesi alle loro grucce si parò davanti ai nostri occhi.

Tutto ciò era opera di Diane, alla quale avevo chiesto l’ennesimo favore che eludeva dai suoi compiti professionali, che si era mostrata gentile e disponibile come al solito e mi aveva aiutato in quell’ardua impresa, nella quale io, se fossi stato solo, avrei fallito miseramente non avendo la benché minima idea riguardo a cosa una bambina di cinque anni potesse trovare carino da indossare.

Mia figlia, poteva aver pure ereditato da me la sua pronta intelligenza ma il suo essere una piccola fashion victim in fasce era da imputare solo e soltanto alla madre. La piccola infatti, mani posate sui fianchi e sguardo pensieroso, prese a osservare attentamente gli abiti di fronte a lei prima di indicarmene uno color pesca. Sganciai la gruccia e glielo mostrai ma lei si limitò a scuotere il capo e a farmi cenno di metterlo via. Ricordava tantissimo Tiffany e il suo atteggiamento da principessina e questo non poteva certo rassicurarmi.

«Papà? Potresti prendermi in braccio? Da qui non vedo nulla», mi domandò avvicinandosi alle mie gambe e aggrappandosi ai miei pantaloni. Mi chinai e la accolsi tra le mie braccia, posizionandomi di fronte all’armadio aperto per darle modo di avere una panoramica completa del suo contenuto.

«Che ne dici di questa tuta in cotone rosa?», le proposi pescando la prima cosa capitatami sottomano.

Lei per tutta risposta storse il naso e sbuffò. «Papà! Cosa dici? Non dobbiamo andare a fare ginnastica!». Il suo rimprovero mi fece tornare alla mente lo stesso sentimento di umiliazione che provavo nei primi tempi del mio fidanzamento con Tiffany quando lei mi trovava impegnato a rammendare una calza o smacchiare una camicia e si metteva a ridere dicendo che le cose buche o sporche si cambiavano e basta.

Acciuffai la tuta, chiusi l’armadio e le feci appoggiare i piedi a terra. «Sei una bambina e i bambini mettono le tute quando sono in casa per stare comodi e poter giocare liberamente senza impicci. Forza, ora ti aiuto a sfilarti questo abitino da principessa…», non feci la voce cattiva ma non ce ne fu bisogno. Nel sentire il mio tono fermo Arabella abbassò la testolina e mugugnò un va bene sottovoce.

Pochi minuti più tardi, entrambi vestiti in modo decisamente più casalingo, iniziammo a preparare il tavolo per la cena. Estrassi la tovaglia, rinunciando per una sera alla mia triste tovaglietta di plastica, e la dispiegai sul tavolo e non sul bancone, dove solitamente consumavo in tempo record i miei pasti, a volte addirittura senza neanche sedermi. Arabella mi aiutò volentieri e fu una collaboratrice molto efficiente fino a quando iniziò a fare i capricci perché pretendeva per sé quello che lei chiamava il ‘coltello degli adulti’ e non quel pezzo di plastica colorata per nulla tagliente che era stato pensato per l’incolumità dei più piccoli.

«Papà?». Quando Arabella finì di strafogarsi di insalata di pollo e patate, sembrava che quella bambina non toccasse cibo da mesi, posò la forchetta e si rivolse al sottoscritto.

Continuai a sbucciare la mela che avevo tra le mani, con l’intenzione di farne delle fettine per lei, e annuii, in tacito segno di continuare.

Lei allunga la sua piccola mano paffuta e la posò sulla mia, senza stringere. «Ti voglio bene», sussurrò sorridendo subito dopo.

E il mio cuore perse un battito.

 

***

 

Eravamo partiti verso le sei, con il sole ancora luminoso, e ci eravamo lasciati il traffico e lo strombazzare dei clacson alle spalle. Arabella sembrava molto entusiasta; aveva insistito per vestirsi elegante e aveva obbligato Inès a preparare un cheesecake insieme.

Papà! Non si va a casa di altre persone senza portare nulla. Maleducato!, mi aveva sgridato mia figlia, facendomi sentire come un bimbo troppo birichino. E così avevamo impiattato e coperto la torta che ora riposava tranquilla sul sedile posteriore, nonostante le continue occhiate apprensive che Arabella continuava a lanciarle.

 «Piccola, non scappa la torta! Goditi il paesaggio piuttosto…», le consigliai indicandole il finestrino sinistro, oltre al quale scorreva un campo di fiori gialli.

Pochi minuti più tardi svoltai nel vialetto sterrato di fronte alla casa di Felicity, la quale ci stava già aspettando sotto il portico con una mano sulla fronte per ripararsi gli occhi dalla luce del sole che stava per tramontare.

«Benvenuti! Arabella, è un piacere rivederti! E che abito favoloso, sono quasi invidiosa. Mr. Liam…», trillò tutto d’un fiato non appena sganciai mia figlia dal suo seggiolino e questa zampettò in tempo record verso la ragazza.

«Anche il tuo vestito mi piace. Grazie per averci invitato!», cantilenò con un sorriso a trentadue denti la bambina non appena raggiunse il portico. «Ci saranno le fragole per cena?», chiese poi speranzosa.

Felicity scoppiò a ridere e, dopo averle afferrato la mano, sparì dentro casa trascinando la piccola con sé. Io indugiai ancora un poco lì fuori, l’aria satura dell’odore selvatico delle piante e dei fiori e la luce rossastra del sole calante a ricoprire come un’ombra tutto quanto.

Quando le raggiunsi Arabella stava indossando un grembiule giallo da cucina, rimboccato più volte sulla vita per fare in modo che non toccasse terra, e con un mestolo di legno stava mescolando tutta contenta il contenuto di un’ampia ciotola.

«Mr. Liam! Vieni ad aiutarci, su! Nessuno se ne deve stare con le mani in mano…», strillò Felicity braccandomi da dietro e imprigionandomi a mia volta in un grembiule troppo piccolo.

«Ti fa da gonnellina, papà!», si prese gioco di me mia figlia, la quale ormai aveva gettato impasto per tutta la cucina tanta foga metteva nel mescolarlo.

Quella scenetta domestica mi fece sentire a casa e mi ricordò la mia infanzia: Felicity intenta a controllare il timer del forno e a rimproverarmi perché me ne stavo imbambolato con la pila di piatti che mi aveva messo tra le mani invece di preparare il tavolo secondo i suoi ordini; Arabella scapigliata e felice, che ora era passata a risciacquare sotto l’acqua le foglie d’insalata a cui sembrava più stesse facendo un bagnetto nella vasca da bagno; ed io, grembiule ridicolo legato attorno ai fianchi e un senso di pace a pervadermi l’animo.

Quella era casa.

 

Buongiooorno!

Questo capitolo è sì corto ma ho deciso di pubblicarlo ugualmente per festeggiare il traguardo delle 1000 visite e letture che il primo capitolo di questa storia ha ricevuto. Dedicarvi un immenso grazie è poco e così vi dedico questo capitolo e un gigantesco abbraccio. Ammetto di essere incostante nell’aggiornare e confesso che questo capitolo mi suona ancora (nonostante ci abbia lavorato a lungo per non renderlo zuccheroso da diabete) un pochetto stucchevole ma vabbè a voi il giudizio ché tanto io sono sempre scontenta riguardo ai miei scritti.

Ultimo appunto: sto scrivendo una nuova storia e se voleste farci un saltino vi regalerei anche un biscotto oltre che ad un abbraccio 💕 (http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3444659&i=1)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: HannibalLecter