Liam
«Sono
le dieci e quaranta, Mr. Carter
Wright. Tra meno di venti minuti avrà inizio l'udienza; non
voglio metterle fretta
ma deve ancora chiamare quelli della Brooks & Brooks e leggere
l'ultimo
fascicolo su Mr. Fry...». Diane era terribilmente irrequieta
quella mattina e
il suo continuo andirivieni dal mio ufficio accompagnato agli sguardi
preoccupati che mi lanciava di soppiatto, convinta che io non me ne
accorgessi,
non aiutavano certo a calmare i miei nervi già a fior di
pelle.
Lasciai
perdere la mail che da dieci
minuti buoni stavo cercando di concludere con scarso successo e alzai
esasperato lo sguardo. «Cosa c'è ancora,
Diane?»
Mi
guardò dubbiosa, gli occhi
indagatori e le braccia strette attorno alla sua, o per meglio dire
mia, agenda
voluminosa.
«Non
ha messo la cravatta stamattina.
Chiamo Inés e le chiedo di portargliene una? Grigio scuro?
Vuole anche una
camicia bianca pulita?»
Abbassai
lo sguardo e fissai stranito
il cotone verde pallido della camicia che indossavo, camicia che non
ricordavo
neanche di possedere.
Che
mi stava succedendo?
«Lascio
fare a te, Diane. Ora per
favore concedimi un minuto di respiro», la congedai
infastidito.
Mi
pentii quasi subito del modo
scortese con cui mi ero rivolto a quella santa donna che era la mia
segretaria.
Probabilmente se io fossi stato nei suoi panni mi sarei già
macchiato di
omicidio nei confronti del mio caro superiore, ovvero il sottoscritto.
Dovevo
apparire davvero insopportabile
agli occhi degli altri: posizione di spicco, conto in banca
straripante, auto
di lusso e resort esclusivi. E stronzaggine acuta inclusa nel pacchetto.
La
triste verità però era un'altra:
avvocato ultratrentenne, divorziato con figlia, pochi amici, famiglia
lontana e
un appartamento vuoto.
Mi
domandai da quando fossi così
diventato un amante dell'autocommiserazione. Mi ero sempre goduto
quello che
avevo, forse lo avevo fatto in modo superficiale ed egoistico, ma mi
bastava
così, mi andava bene così.
Allora
cos'era cambiato? Quando avevo
iniziato ad aspirare ad una vita che assomigliasse di più a
quella dei miei
genitori? Sembrava un controsenso, aspirare ora, a trentaquattro anni,
alla
vita da cui a diciotto era fuggito senza voltarmi indietro.
Eppure
ci avevo già provato e il
fallimento si palesava sotto forma dell'assegno di mantenimento a tre
zeri che
ogni mese dovevo versare per mantenere una figlia che non conoscevo e
una ex
moglie verso cui non provavo altro che rancore.
Tiffany
era una spocchiosa ragazzina
abituata ad avere un'autista da schiavizzare e un padre con cui
bastavano due
moine per poter spillare continuamente denaro.
Eppure
era terribilmente bella. Si
aggirava per il campus a mento alto, i sandali che ticchettavano al suo
passaggio e uno sguardo altezzoso celato dalle lenti scure di un paio
di ampi
occhiali da sole con la montatura ad ali di farfalla.
Ai
miei occhi di ragazzo povero di
provincia lei rappresentava tutto ciò a cui io aspiravo.
Ovviamente io ai
tempi, matricola con le camicie in flanella e i libri di seconda mano,
non
avevo alcuna possibilità di avvicinarmi a lei e
così mi limitavo a fissarla di
soppiatto come si fa con gli animali più rari ed esotici
allo zoo.
Tutto
cambiò quando Mildred, migliore
amica di Tiffany, iniziò a frequentare Matt e
così, grazie ad un'uscita a quattro,
ci ritrovammo per la prima volta faccia a faccia.
Il
nostro primo incontro fu
disastroso, lei si limitò a salutarmi con fare altero dopo
che ci presentarono
l'uno all'altro e poi passò tutta la sera a bisbigliare
all'orecchio di
Mildred, a fissarsi le unghie laccate di smalto lucido e a rigirare nel
piatto
le tre tristi foglie di insalata che aveva ordinato per cena.
Passarono
due anni, Matthew e Mildred
tra alti e bassi continuavano a stare insieme, io avevo aggiunto due
corsi
sulla finanza al mio programma di giurisprudenza e mi ero trovato un
secondo
lavoro presso il bar vicino all'università.
Tiffany
l'avevo intravista spesso
alle poche feste a cui partecipavo e ad seminario sul marketing ma non
eravamo
mai andati oltre un paio di cenni di saluto distratti. Non avevamo
assolutamente nulla in comune se non i drammi d'amore periodici che
vivevano i
nostri migliori amici e perciò non avevo mai tentato di
iniziare una
conversazione.
Poi
una sera di marzo, un temporale
terribile a squarciare il cielo notturno e la sala del bar semi
deserta,
qualcosa era cambiato. Stavo sciacquando due boccali di birra mentre
alla radio
davano una vecchia canzone degli Smiths quando la porta si era
spalancata e
insieme ad una folata d'aria gelida aveva fatto il suo ingresso Tiffany.
Aveva
i capelli umidi, il viso dal
trucco sbavato e un impermeabile leggero completamente fradicio.
Ricordo ancora
come il suo portamento sempre fiero ed elegante riusciva a non farla
apparire
mai fuori posto, nonostante gli occhi arrossati o il look non proprio
da prima
pagina come al solito.
Ancora
oggi sono convinto che uno può
credere quello che vuole sul fatto che il destino sia già
scritto o meno ma
quella fu una mera coincidenza giocataci dal caso. Quella sera non ero
di turno
ma avevo dovuto sostituire all'ultimo momento il mio collega che si era
beccato
la mononucleosi per la terza volta nel giro di due mesi e in seguito
scoprii
che Tiffany si era gettata proprio in quel locale e non in quello di
fronte per
il semplice fatto che la nostra insegna aveva un aspetto più
elegante e
signorile.
Non
mi riconobbe subito. Si sedette
al bancone, lo sguardo fisso nel vuoto, e quando le domandai cosa
potessi
portarle mi chiese un thè caldo senza zucchero. Quando
glielo servii mi
ringraziò senza guardarmi negli occhi e iniziò a
mescolare distrattamente il
liquido ambrato nella tazza di fronte a lei. La osservavo in silenzio
mentre mi
domandavo cosa potesse essere successo per portare Tiffany Kennedy ad
abbandonare il suo solito aspetto impeccabile e il suo atteggiamento
fiero.
«Potrei
avere una fettina di
limone?». Lo chiese piano, così piano che
inizialmente la sua voce si confuse
con quella di Joni Mitchell che cantava in sottofondo e io pensai di
essermelo
immaginato.
Pescai
un limone abbandonato nelle
profondità del frigorifero del bar, locale non solitamente
frequentato da
avventori che ordinavano tisane calde, lo affettai e, dopo aver
disposto
qualche spicchio su un piattino, glielo servii.
«Hai
corretto il mio thè, vero?»
Alzai
lo sguardo e per la prima volta
incontrai quegli occhi così glaciali da mettere a disagio
chiunque avesse il
coraggio di fissarli a lungo. Annui quasi imbarazzato ma non guardai
altrove,
deciso a non mostrarmi più debole di lei.
Dopotutto
non era altro che una
viziata figlia di papà a cui importava solamente di
sé stessa, continuavo a
ripetermi nella mente ricordando tutte le parole poco lusinghiere con
cui Matt
si rivolgeva a lei quando ne parlava.
«Ne
avevo bisogno, grazie», mormorò
sempre bisbigliando come se ci trovassimo in un luogo in cui dovessimo
rispettare il silenzio. Poi corrugò la fronte e mi
indicò, «Io ti conosco,
vero?»
Disse
proprio così e io mi sentii
l'essere più patetico sulla faccia della terra. Io di lei
sapevo praticamente
tutto mentre lei neanche si ricordava di me.
«No.
Sono amico di Matthew e conosco
Mildred...», risposi allontanandomi da lei e tornando verso
il lavello e le
poche stoviglie che ancora attendevano di essere lavate.
Già
ai tempi io e Mildred ci
detestavamo cordialmente nonostante ci sforzassimo di mantenere sempre
una
patina di forzata cordialità quando ci trovavamo l'uno in
presenza dell'altra.
Ad
anni di distanza posso
tranquillamente affermare che Mildred continuerà a non
piacermi anche se in
fondo potrei quasi considerarla un'amica ormai. Lei sicuramente si
considera
tale nonostante la scarsa gentilezza e le battute al vetriolo che
continua a
dedicare solo al sottoscritto.
Tiffany
quella sera era diversa,
probabilmente meno concentrata sul suo ego rispetto al solito o forse
solo
bisognosa di traslare la sua attenzione su qualcosa che non fossero i
suoi
problemi, e così si alzò e si
posizionò sullo sgabello di fronte al lavandino
dove mi trovavo io, palesemente intenzionata a non lasciarmi stare.
«Io
ti conosco. E so anche il tuo
nome...Louis? Neil?»
«Liam»
Lei
sorrise come per scusarsi della
sua dimenticanza e si sporse verso di me. «Hai degli occhi
bellissimi. Chissà
perché a Mildred è piaciuto di più
quel broccolo di Matthew e non tu...»,
borbottò pensosa mentre con un dito seguiva il bordo della
tazza in ceramica.
Iniziò
tutto così e ancora oggi a
volte mi domando come sia possibile che nel giro di due anni mi fossi
ritrovato
incastrato in un matrimonio che mi avrebbe portato a demonizzare in
futuro
qualsiasi tipo di amore a lungo termine.
Tiffany
mi aveva prosciugato anima e
corpo e per questo non l'avrei mai perdonata. Erano passati quattro
anni dalla
nostra separazione e ancora non avevo fatto pace definitivamente con me
stesso,
colpevole di averle permesso tutto quel potere su di me.
Lei
voleva sempre di più e io avevo
tentato in tutti i modi di offrirglielo ma i primi anni erano e sono
duri per
ogni neolaureato che non abbia già le spalle coperte da una
famiglia influente
e benestante e così quello che facevo non bastava mai.
Quando era arrivata
Arabella eravamo già in crisi da tempo e l'idea che un
bambino avrebbe potuto
riavvicinarci era stata un abbaglio. Non fece altro che sottolineare le
nostre
idee agli antipodi e mettere in luce l'ambiente completamente diverso
da cui
provenivamo.
Sono
stato un pessimo padre ma non ho
mai saputo come comportarmi nei confronti di quella bambina innocente,
mia
figlia, verso cui ho sempre provato un senso di colpa che probabilmente
superava l'affetto paterno. Io e Tiffany eravamo colpevoli per aver
voluto
mettere al mondo quel piccolo essere per guarire i nostri problemi e
alla fine
tutto era andato in frantumi, come era prevedibile, e Arabella, a solo
un anno
di vita, si era trovata con due genitori separati che non sapevano
minimamente
cosa volesse dire fare da madre e padre.
Non
avevo neanche tentato di tenere
Arabella con me, avevo paura che il tutto si sarebbe concluso solo con
il
trascurarla e il delegarne le veci di genitore alla povera
Inés e non volevo
farle vivere l'incubo di una battaglia legale per l'affidamento tra me
e sua
madre, e così avevo accettato passivamente che andasse a
vivere in California
con Tiffany e i Signori Kennedy e mi ero accontentato delle quattro
settimane
annuali stabilite dal giudice che mi spettavano.
Crescendo
a miglia e miglia di
distanza da me, Arabella si era fatta sempre più distante e
ogni volta che
veniva a trovarmi mi accorgevo sempre più di non conoscerla.
Non sapevo cosa le
piacesse fare nel tempo libero, quale fosse il suo cartone animato
preferito o
quale gusto di gelato prediligesse. I nostri weekend si trascinavano
nel mio
imbarazzo di fronte all'incapacità di farle da padre e i
suoi lunghi silenzi
intervallati solo dalle poche parole che mi rivolgeva per chiedermi se
poteva
andare in bagno e quanto mancava al suo ritorno a casa.
Un
lieve bussare mi distolse da
quella marea di tristi riflessioni che mi aveva travolto.
«È
ora. Nell'antibagno le ho lasciato
camicia, giacca e cravatta e un'aspirina nel caso ne avesse bisogno. Il
taxi
l'aspetta all'ingresso sul retro», elencò Diane,
gli occhi sempre più colmi di
sincera apprensione mentre constatava che il fascicolo giaceva nella
stessa
posizione in cui lo aveva lasciato lei poco prima e che avevo riposto
la
cornetta del telefono in modo tale che risultasse occupato a chiunque
avesse
tentato di contattarmi. «Se posso fare
qualcos’altro…»
La
ringraziai e le assicurai che
aveva già fatto tutto il necessario e anche di
più in modo impeccabile come al
suo solito.
«Bene,
allora in bocca al lupo e si
rilassi: è il migliore nel suo campo e nessuno
può metterla in difficoltà se
lei dà il meglio di sé come al solito. Ci vediamo
più tardi», e con un sorriso
incoraggiante si eclissò discreta e silenziosa come sempre.
Avrei
dovuto dare una festa super
sfarzosa in onore di quella donna che da anni e anni mi sopportava, mi
sosteneva e si prendeva cura di me senza mai risultare inopportuna o
indiscreta. Diane era stata al mio fianco quando mi ero separato da
Tiffany e
non aveva mai sottovalutato il dolore che io cercavo di fingere di non
provare.
Sfilai
quell’orribile camicia verde,
colore che probabilmente solo mia sorella Judith avrebbe potuto trovare
elegante e indossabile, e mi vestii con gli abiti perfettamente
abbinati e
stirati che trovai nella stanza da bagno del mio ufficio.
Detti
una rapida occhiata alla mia
figura riflessa nell’ampio specchio, recuperai la mia
ventiquattr’ore e mi
avviai verso l’ascensore. Il taxi mi attendeva dove mi era
stato indicato dalla
mia efficiente segretaria e nel giro di pochi minuti mi ritrovai
immerso nel
traffico mattutino di Boston.
Avrei
potuto ripassare i dati più
specifici che avrei dovuto esporre nel corso del mio intervento in
tribunale ma
non ne sentivo il bisogno perciò per distrarmi estrassi il
telefono dalla tasca
interna della giacca dove lo avevo fatto scivolare poco prima.
Scorsi
annoiato le diciassette email
che mi erano arrivate nell’ultima ora, risposi rapidamente ad
un paio di esse,
le più urgenti, e chiusi la mia casella di posta. Sorrisi
nel vedere la foto
inviatami da Matt di suo figlio Gabriel sulla sua prima micro
bicicletta,
bardato da capo a piedi di protezioni in caso di caduta, che aveva
un’espressione
terrorizzata. Mi domandai se Arabella sapesse andare in bicicletta e mi
riproposi di demandarglielo la sera stessa.
Il
simbolo di una nuova mail illuminò
lo schermo del mio telefono e stavo per metterla in attesa come tutte
le altre
quando mi accorsi chi fosse il mittente.
Mr.
Liam,
Come
stai? Devo ammettere che
lo scoprire che hai una figlia mi ha lasciato un po’
interdetta. Perché non ne
hai mai parlato? È una bambina deliziosa e ti assomiglia
moltissimo, e non mi
riferisco solo a quegli enormi e bellissimi occhi grigi.
Ti
scrivo per chiederti se a
te e Arabella andrebbe di venire una sera a cena da me. Spero davvero
accetterete l’invito.
A
presto!
Felicity
***
Qualche
ora più tardi, dopo aver
lasciato l'ufficio ed essermi districato nel solito ingorgo serale di
persone
che rientravano a casa, raggiunsi il mio appartamento e mi ricongiunsi
con mia
figlia, permettendo così a Inés di tornare dalla
sua famiglia e prendersi una
pausa dall’occuparsi della mia di famiglia.
«Ti
sei divertita oggi?», domandai
alla bambina seduta a gambe incrociate sul folto tappeto chiaro in
soggiorno e
impegnata a colorare su un ampio quaderno.
Mi
sedetti alle sue spalle e ne
approfittai per liberarmi di giacca e cravatta. Sbirciai oltre le sue spalle minute
per osservare il
suo disegno.
C'erano
tre figure sul foglio: una
piccola, vestita di azzurro e con una grossa A disegnata sulla pancia,
e due
adulti. Una donna dai lunghi capelli castani etichettata con T e un
uomo con i
baffi che recava una panciuta R ricamata sulla camicia.
R
non L di Liam. Strinsi gli occhi
sorpreso dal dolore inaspettato che quel disegno e la mia apparente
esclusione
da esso mi aveva procurato.
Sapevo
benissimo chi fosse
quell'uomo, quei folti baffi a manubrio grigi non potevano appartenere
a
nessuno al di fuori di Mr. Reginald Kennedy. Che tra l'altro ancora mi
riteneva
il diretto responsabile di tutti i problemi della figlia e di riflesso
della
nipote. La verità era però un'altra: era stata
proprio Tiffany a mandare
all'aria tutto, sia la sua vita che la mia.
Suo
padre ai tempi della separazione
aveva inveito per giorni contro di me, lanciandomi accuse e
rivolgendomi
minacce. Erano passati quattro anni dall'ultima volta che avevo avuto
il
piacere di trovarmi al cospetto del vecchio Reginald e speravo con
tutto il
cuore che ne passassero altri cento prima che fossi costretto a
rivederlo.
Aveva
lo stesso carattere sanguigno e
impetuoso della figlia, la medesima radicata convinzione di essere
migliore
degli altri e una altrettanto fastidiosa spocchia.
«Inés
non sa cosa siano i My Little
Pony e dice che le Barbie sono stupide», borbottò
a mezza voce senza
distogliere la sua attenzione da pennarelli e matite.
Sospirai
pensando a quanto Inés
criticasse la società moderna e il materialismo che la
permeava. Me lo ripeteva
sempre: «Señor Liam, stiamo andando
così veloci che tra poco non sapremo più da
dove siamo arrivati e dove volevamo andare». Nonostante il
mio scetticismo
avevo sempre rispettato il lato più spirituale e quasi
profetico della mia
insostituibile governante.
Allungai
una mano verso il foglio
quadrettato che Arabella stava colorando e indicai la figura maschile.
«Com'è
il Nonno Reginald?», le domandai curioso di sapere cosa ne
pensasse quella
bambina così intelligente e seria di quel vecchio burbero e
capriccioso.
Mia
figlia smise di calcare la sua
matita rossa sulla carta e si fermò a riflettere.
«Non posso chiamarlo nonno,
solo Reggie, altrimenti si sente vecchio»
Quell'uomo
era sempre insopportabile
e lunatico come al solito a quanto pareva. Allungai le braccia e
sollevai
Arabella di peso per farla accomodare sulle mie gambe. Parlava come una
adulta
eppure non era altro che una bambina di soli cinque anni. Osservai quel
nasino
spruzzato di lentiggini e non potei fare a meno di pensare quello di
Felicity,
dalla forma meno infantile e più pronunciata ma altrettanto
grazioso. E a
proposito della mia giardiniera...
«Arabella,
ti piacerebbe andare a
cena da Felicity? Te la ricordi? La ragazza che hai conosciuto ieri in
campagna...», le proposi sperando con tutto il cuore che
dicesse di si o per lo
meno facesse un sorriso o dimostrasse un po' di quel sano entusiasmo
che
caratterizza i bambini.
Lei
mi sorprese e fece di più;
arricciò le labbra in un sorrisetto ironico e mi chiese:
«La ragazza delle
fragole? Quella che ti piace?»
I
bambini e la loro disarmante
sincerità. No, non li avrei mai capiti quei piccoli folletti
sempre persi tra
le nuvole eppure ancora capaci di vedere la realtà in modo
puro e autentico e
di provare stupore di fronte ad esso.
«Giusto,
la ragazza delle
fragole...», asserii ignorando volutamente la sua seconda
domanda, «Mi ha
chiesto se ti andrebbe di cenare da lei una sera di questa settimana:
che ne
dici?»
Lei
mi squadrò pensierosa prima di
controbattere chiedendo se a me avrebbe fatto piacere accettare
quell'invito.
Quella
bambina era decisamente troppo
intelligente e non sapevo se dedurre orgogliosamente da ciò
che il mio patrimonio
genetico poteva avere in qualche modo influito o se preoccuparmi per la
precocità di mia figlia.
Quegli
occhioni grigi, esatta copia
dei miei, mi fissavano attenti, in attesa di una risposta. C'era una
risposta
giusta e una sbagliata? Oppure per Arabella era lo stesso?
«È
stata gentile ad invitarci perciò
io pensavo di accettare ma prima volevo sapere cosa ne pensavi tu.
Questa
dovrebbe essere la nostra settimana e dobbiamo fare solo cose che ti
piacciono...»
La
piccola tra le mie braccia si aprì
in un ampio sorriso e per una volta sembrò semplicemente una
bambina senza
pensieri, «Allora andiamo! Sembrava simpatica anche se un po'
strana
Felicity...», esclamò appoggiando la testolina sul
mio petto e sbattendo le
ciglia di fronte al sole calante che penetrava dalla vetrata alle mie
spalle.
I
suoi soffici capelli castani mi
solleticavano il collo e il ritmo
regolare del suo respiro lieve mi mise addosso una serenità
che non provavo da
tempo. Restammo così per alcuni minuti che parvero
cristallizzare il tempo per
renderli il più infiniti possibile prima che Arabella
iniziasse a scalciare per
scendere dalle mie gambe e mi riportasse alla realtà.
«Papà,
ho fame!», esclamò con fare
imperioso tirandomi per la manica della camicia come ad esortarmi a
ricordare
quali fossero i miei doveri basilari in veste di genitore.
Le
chiesi se Inés avesse cucinato
qualcosa, nonostante sapessi già la risposta, e lei mi
raccontò per filo e per
segno tutti i passaggi più minuziosi per preparare
un’insalata di pollo e del
sorbetto ai frutti di bosco. Quando le consigliai di mettersi qualcosa
di
comodo per la cena, non volendo macchiare quello splendido abitino rosa
confetto e dare a sua madre un pretesto per incolparmi per una
sciocchezza, lei
mi guardò dubbiosa e ripeté esitante le mie
parole, come a volersi sincerare
della loro veridicità: «Cambiarmi il vestito?
Posso davvero?»
Guardai
senza capire mia figlia e lei
mi spiegò di come Tiffany e Reginald ci tenessero al fatto
che ci si vestisse
eleganti, o perlomeno con un po’ di cura in più
rispetto al giorno, per andare
a cena.
«Certo
che sì! Siamo in famiglia qui
e puoi vestirti come preferisci…Anzi, sai che ti dico?
Andiamo entrambi a
toglierci questi abiti scomodi, ok?». Le afferrai la mano e
la guidai verso la
sua camera, dove un ampio guardaroba laccato di bianco svettava
nell’angolo,
spalancai le ante dell’armadio per lei e una fila ordinata di
vestiti appesi
alle loro grucce si parò davanti ai nostri occhi.
Tutto
ciò era opera di Diane, alla
quale avevo chiesto l’ennesimo favore che eludeva dai suoi
compiti
professionali, che si era mostrata gentile e disponibile come al solito
e mi
aveva aiutato in quell’ardua impresa, nella quale io, se
fossi stato solo,
avrei fallito miseramente non avendo la benché minima idea
riguardo a cosa una
bambina di cinque anni potesse trovare carino da indossare.
Mia
figlia, poteva aver pure
ereditato da me la sua pronta intelligenza ma il suo essere una piccola
fashion
victim in fasce era da imputare solo e soltanto alla madre. La piccola
infatti,
mani posate sui fianchi e sguardo pensieroso, prese a osservare
attentamente
gli abiti di fronte a lei prima di indicarmene uno color pesca.
Sganciai la
gruccia e glielo mostrai ma lei si limitò a scuotere il capo
e a farmi cenno di
metterlo via. Ricordava tantissimo Tiffany e il suo atteggiamento da
principessina
e questo non poteva certo rassicurarmi.
«Papà?
Potresti prendermi in braccio?
Da qui non vedo nulla», mi domandò avvicinandosi
alle mie gambe e aggrappandosi
ai miei pantaloni. Mi chinai e la accolsi tra le mie braccia,
posizionandomi di
fronte all’armadio aperto per darle modo di avere una
panoramica completa del
suo contenuto.
«Che
ne dici di questa tuta in cotone
rosa?», le proposi pescando la prima cosa capitatami
sottomano.
Lei
per tutta risposta storse il naso
e sbuffò. «Papà! Cosa dici? Non
dobbiamo andare a fare ginnastica!». Il suo
rimprovero mi fece tornare alla mente lo stesso sentimento di
umiliazione che
provavo nei primi tempi del mio fidanzamento con Tiffany quando lei mi
trovava
impegnato a rammendare una calza o smacchiare una camicia e si metteva
a ridere
dicendo che le cose buche o sporche si cambiavano e basta.
Acciuffai
la tuta, chiusi l’armadio e
le feci appoggiare i piedi a terra. «Sei una bambina e i
bambini mettono le
tute quando sono in casa per stare comodi e poter giocare liberamente
senza
impicci. Forza, ora ti aiuto a sfilarti questo abitino da
principessa…», non
feci la voce cattiva ma non ce ne fu bisogno. Nel sentire il mio tono
fermo
Arabella abbassò la testolina e mugugnò un va
bene sottovoce.
Pochi
minuti più tardi, entrambi
vestiti in modo decisamente più casalingo, iniziammo a
preparare il tavolo per
la cena. Estrassi la tovaglia, rinunciando per una sera alla mia triste
tovaglietta di plastica, e la dispiegai sul tavolo e non sul bancone,
dove
solitamente consumavo in tempo record i miei pasti, a volte addirittura
senza
neanche sedermi. Arabella mi aiutò volentieri e fu una
collaboratrice molto efficiente
fino a quando iniziò a fare i capricci perché
pretendeva per sé quello che lei
chiamava il ‘coltello degli adulti’ e non quel
pezzo di plastica colorata per
nulla tagliente che era stato pensato per
l’incolumità dei più piccoli.
«Papà?».
Quando Arabella finì di
strafogarsi di insalata di pollo e patate, sembrava che quella bambina
non
toccasse cibo da mesi, posò la forchetta e si rivolse al
sottoscritto.
Continuai
a sbucciare la mela che
avevo tra le mani, con l’intenzione di farne delle fettine
per lei, e annuii,
in tacito segno di continuare.
Lei
allunga la sua piccola mano
paffuta e la posò sulla mia, senza stringere. «Ti
voglio bene», sussurrò
sorridendo subito dopo.
E
il mio cuore perse un battito.
***
Eravamo
partiti verso le sei, con il
sole ancora luminoso, e ci eravamo lasciati il traffico e lo
strombazzare dei
clacson alle spalle. Arabella sembrava molto entusiasta; aveva
insistito per
vestirsi elegante e aveva obbligato Inès a preparare un
cheesecake insieme.
Papà!
Non si va a casa di altre persone senza portare
nulla. Maleducato!,
mi aveva sgridato mia
figlia, facendomi sentire come un bimbo troppo birichino. E
così avevamo
impiattato e coperto la torta che ora riposava tranquilla sul sedile
posteriore, nonostante le continue occhiate apprensive che Arabella
continuava
a lanciarle.
«Piccola, non
scappa la torta! Goditi il
paesaggio piuttosto…», le consigliai indicandole
il finestrino sinistro, oltre
al quale scorreva un campo di fiori gialli.
Pochi
minuti più tardi svoltai nel
vialetto sterrato di fronte alla casa di Felicity, la quale ci stava
già
aspettando sotto il portico con una mano sulla fronte per ripararsi gli
occhi
dalla luce del sole che stava per tramontare.
«Benvenuti!
Arabella, è un piacere
rivederti! E che abito favoloso, sono quasi invidiosa. Mr.
Liam…», trillò tutto
d’un fiato non appena sganciai mia figlia dal suo seggiolino
e questa zampettò
in tempo record verso la ragazza.
«Anche
il tuo vestito mi piace.
Grazie per averci invitato!», cantilenò con un
sorriso a trentadue denti la
bambina non appena raggiunse il portico. «Ci saranno le
fragole per cena?»,
chiese poi speranzosa.
Felicity
scoppiò a ridere e, dopo
averle afferrato la mano, sparì dentro casa trascinando la
piccola con sé. Io
indugiai ancora un poco lì fuori, l’aria satura
dell’odore selvatico delle
piante e dei fiori e la luce rossastra del sole calante a ricoprire
come un’ombra
tutto quanto.
Quando
le raggiunsi Arabella stava
indossando un grembiule giallo da cucina, rimboccato più
volte sulla vita per
fare in modo che non toccasse terra, e con un mestolo di legno stava
mescolando
tutta contenta il contenuto di un’ampia ciotola.
«Mr.
Liam! Vieni ad aiutarci, su! Nessuno
se ne deve stare con le mani in mano…»,
strillò Felicity braccandomi da dietro
e imprigionandomi a mia volta in un grembiule troppo piccolo.
«Ti
fa da gonnellina, papà!», si
prese gioco di me mia figlia, la quale ormai aveva gettato impasto per
tutta la
cucina tanta foga metteva nel mescolarlo.
Quella
scenetta domestica mi fece
sentire a casa e mi ricordò la mia infanzia: Felicity
intenta a controllare il
timer del forno e a rimproverarmi perché me ne stavo
imbambolato con la pila di
piatti che mi aveva messo tra le mani invece di preparare il tavolo
secondo i
suoi ordini; Arabella scapigliata e felice, che ora era passata a
risciacquare
sotto l’acqua le foglie d’insalata a cui sembrava
più stesse facendo un
bagnetto nella vasca da bagno; ed io, grembiule ridicolo legato attorno
ai
fianchi e un senso di pace a pervadermi l’animo.
Quella
era casa.
Buongiooorno!
Questo
capitolo è sì
corto ma ho deciso di pubblicarlo ugualmente per festeggiare il
traguardo delle
1000 visite e letture che il primo capitolo di questa storia ha
ricevuto.
Dedicarvi un immenso grazie è poco e così vi
dedico questo capitolo e un
gigantesco abbraccio. Ammetto di essere incostante
nell’aggiornare e confesso
che questo capitolo mi suona ancora (nonostante ci abbia lavorato a
lungo per
non renderlo zuccheroso da diabete) un pochetto stucchevole ma
vabbè a voi il
giudizio ché tanto io sono sempre scontenta riguardo ai miei
scritti.
Ultimo
appunto: sto
scrivendo una nuova storia e se voleste farci un saltino vi regalerei
anche un
biscotto oltre che ad un abbraccio 💕
(http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3444659&i=1)