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Autore: MaxB    09/05/2016    4 recensioni
Un castello abbandonato, nascosto nel bosco insieme ai suoi segreti.
Un ragazzo senza memorie.
Un gruppo di fantasmi che lo faranno sentire a casa per la prima volta dopo anni.
Ma c'è solo una cosa che Gajeel vuole più della sua memoria: Levy.
La ragazza che ama, che amava, e che sembra essere la chiave del mistero che gira intorno al castello.
Lo scopo di Gajeel è quello di salvarla, ma l'impresa potrebbe rivelarsi più oscura del previsto.
Tra ricordi riportati a galla da un lontano passato ormai dimenticato, amori e macabre scoperte, riuscirà Gajeel a salvare il suo futuro?
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gajil Redfox, Levy McGarden, Mirajane, Pantherlily
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Grazie ad EbiBeatrizP, la mia Pannocchia del cuore, che ha permesso tutto questo inviandomi una foto. E mi ha fatto scoprire che, se voglio, posso arrivare ad una conclusione.

 

Non disponibileCapitolo 1
Il castello infestato dai ricordi



- Gajeel…
Ancora quella voce. Io la conosco, lo so. Mi fa uno strano effetto, dentro, quando la sento. Ma non capisco perché. O come.
- Gajeel salvami. Salvaci tutti. Ti prego.
Un lampo azzurrognolo illumina questo spazio di denso nero, come una nuvola che appare e scompare in preda al vento. So cos’è. Ma non lo ricordo.
- Ricordati chi sono.
Lo stesso avvertimento. Riesco quasi ad anticipare la voce mentre il classico dolore al fianco mi assale.
- Ricordati chi sei…
 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~

Gajeel si svegliò in un bagno di sudore, le coperte umide e appiccicose in quella notte autunnale. Ma nel suo cuore era inverno.
Ancora quel sogno. Come ogni notte, da un po’ di tempo a quella parte.
Nel giro di un anno i suoi simpatici e macabri sogni avevano cominciato a diventare sempre più frequenti. Una volta ogni due mesi, una volta al mese, due volte al mese, quattro, uno alla settimana. Uno al giorno.
Tutti riportavano lo stesso invito finale, fatto da quella voce calda che a Gajeel ricordava tanto il suo passato, una questione chiusa a chiave in una porta del suo cervello. E non perché non voleva ricordarlo. Semplicemente perché lui non poteva ricordarlo. Non riusciva.
A volte erano sogni abbastanza tranquilli, in cui la cosa peggiore che potesse succedere era quel dolore al fianco. Lancinante, bruciante, come se un coltello gli avesse trafitto una cellula alla volta, straziandolo in una lenta tortura.
Dolore fantasma, lo chiamavano i medici. Come quando chi ha perso una gamba o un dente continua a sentire dolore a quella parte del corpo. Che non c’è più.
Lui aveva ancora tutto quanto però, a parte la memoria e una bella quantità di sangue. Non aveva perso nulla: ci aveva guadagnato. Un’elegante cicatrice frastagliata sul fianco. E quattro sulle braccia. Ma quelle alle braccia erano superficiali, nonostante fossero brutte da vedere. Quella sul fianco, invece… dopo gli incubi il solo sfiorarla con la maglia gli faceva vedere le stelle.
Nei sogni peggiori, invece, c’era sangue. E non il suo. Gajeel lo avrebbe quasi preferito. Sangue di altri. Persone uccise brutalmente. Lui vedeva solo i cadaveri straziati, alla fine dell’opera macabra, e aveva voglia di vomitare, ma a quel punto la voce gli rammentava che doveva ricordare e lui si svegliava con il mal di testa. Uno schifo di situazione che andava avanti da troppe settimane.
La voce. Quella voce. Gli diceva sempre qualcosa prima di svanire e svegliarlo. Ma ciò che riferiva non lo aveva mai sentito. Però, a lui sembrava che fosse una cosa fondamentale.
Erano solo le sei della mattina e dalle persiane chiuse filtrava una luce tenue e decisamente fiacca, come se anche lei stesse dormendo e non volesse impegnarsi nell’alzarsi. Sudato per sudato, si sarebbe fatto una corsetta per sfiancare il corpo: dopo sarebbe tornato a letto per recuperare il sonno perso. Gli incubi gli rubavano la vita, oltre alla forza fisica per affrontare la giornata.
Così si infilò al volo le scarpe, dei pantaloni larghi lunghi, una maglietta smanicata e una più calda che si sarebbe tolto quasi subito.
Cominciò a correre come se gli incubi lo inseguissero, come se fosse l’ultima corsa che faceva. Come se, fermandosi, avesse rischiato di rivedere tutto. Correva per non pensare, perché aveva la mente così vuota da non poter pensare a niente.
E la mancanza di ricordi lo faceva impazzire lentamente.
Gajeel Redfox. Di sé, sapeva solo quello.
 
La foschia mattutina si diradava lentamente, anche se la nebbia non accennava a dissiparsi. Gajeel correva in un quartiere abbandonato che non aveva mai visto. Era uscito dal centro residenziale in cui viveva e aveva costeggiato il bosco. Non aveva più guardato la strada fino a quel momento, concentrandosi solo sulla sua stanchezza e sulla fatica, sul fuoco nelle cosce e sul ritmo del suo respiro, che lentamente aumentava come i battiti del suo cuore forte.
Poi, però, era passato di fianco ad una serie di cancelli divelti. Sbarramenti alti, come quelli che si mettono quando si fanno i lavori agli edifici, inferriate che circondano i siti di costruzione. Gajeel non ci aveva fatto caso e, trovato un passaggio, vi si era infilato senza pensarci. Perché non stava pensando.
E infatti solo un cretino che spegne il cervello può sorpassare delle barriere tappezzate di manifesti con il triangolo del pericolo e ordini di non oltrepassare.
Zona vietata.
Pericolo.
Area soggetta ad indagini.
Indagini.
Ma tanto lui non l’aveva letto!
Per questo quando iniziò a distinguere i contorni di edifici disabitati e diroccati cominciò a chiedersi dov’era finito. Dai buchi dell’asfalto in pessimo stato fuoriuscivano erbacce alte e infestanti. La carcassa di qualche macchina con i vetri rotti e le ruote mancanti occupava quella strada che sembrava inutilizzata da anni.
Gajeel rallentò quando riuscì a scorgere una porta divelta e un portico di legno marcio, con le assi vecchie e muschiose crollate sotto al peso degli anni. Diminuì la velocità fino a fermarsi. Né il canto di un uccello, né un gatto appollaiato da qualche parte a sonnecchiare, né degli stramaledetti corvi, o dei topi, o un dannato fiore che desse un po’ di colore! No. Solo nebbia grigia, muri grigi, pietre grigie, erba morta grigia. Tutto grigio.
- Ma dove sono finito? – mormorò Gajeel, che finalmente si accorse della sua stupidità.
Già, soprattutto perché era davvero riuscito a non pensare a niente, come desiderava, per cui non aveva nemmeno guardato dove stava andando. Quindi dov’era l’uscita da lì? Non conosceva neppure il quartiere dove viveva, figuriamoci quello!
Un uomo facoltoso, mosso a pietà dal suo stato di amnesia, gli aveva offerto lavoro come cuoco in un ristorante della sua catena. Lo aveva trovato all’ospedale, solo e abbandonato, senza nessuno che gli tenesse compagnia e senza ricordi. Senza identità. Così lo aveva accolto dandogli un lavoro con vitto e alloggio compresi in un appartamentino modesto a due passi dal ristorante.
Quella era la sua vita: appartamento, ristorante, supermercato.
Non aveva nemmeno un cellulare. Nessuno lo aveva mai, mai, cercato.
- E ora dove accidenti vado?
Leggermente a disagio, con il sudore che gli si appiccicava alla pelle come una presenza scomoda, mosse qualche passo guardandosi attentamente intorno. E poi sussultò.
Due occhi giallognoli brillavano nel buio. Dal sottobosco che circondava la strada (o meglio, il cadavere della strada) sbucò un gatto. Pelo marrone scuro e orecchie insolitamente tonde, cicatrice sull’occhio. Si avvicinò a Gajeel senza timore, segno che non era un gatto selvatico. Inclinò il musetto e si sedette proprio ai suoi piedi, guardandolo con attenzione. Sembrava quasi che lo conoscesse.
Il gatto gli diede un colpetto sul polpaccio, come per spronarlo. Il ragazzo si chinò appoggiando i gomiti sulle cosce e diede una pacchetta in testa al gatto.
- Anche tu in attesa che io mi ricordi?
L’animale lo fissò senza fiatare, restituendo la pacca alla sua mano.
- Io e te ci conosciamo?
In risposta, il gatto miagolò, un miagolio insolitamente profondo e roco per essere quello di un micio, e si allontanò verso il punto da cui era comparso: un groviglio di rami e cespugli alti.
- Be’, è stato un piacere – scherzò Gajeel alzandosi.
Fece per proseguire in avanti, ma un miagolio decisamente irritato del gatto lo distrasse.
- Che c’è?
Il gatto rimase fermo, toccando davanti a sé con una zampina.
- Devo venire? – domandò allora il ragazzo, avvicinandosi con precauzione.
Il suo nuovo amichetto sparì nel verde (grigio ovviamente), e Gajeel spostò alcuni per arbusti solo per scoprire che dall’altra parte c’era… un sentiero.
Il felino lo aspettava seduto su un mucchio di foglie morte e umidicce. Appena il ragazzo si liberò dai rami, si incamminò a passo svelto.
- Va bene… ti seguo. Basta che poi mi riaccompagni a casa perché io non so come tornarci.
Gajeel seguì un gatto randagio per un tempo che gli sembrò interminabile. Alberi dal tronco rosicchiato e dalla corteccia cascante lo accompagnavano in quella piccola avventura mentre la foschia lo avvolgeva come una coperta sudicia e vecchia.
Poi, all’improvviso, in quello che aveva tutta l’aria di essere il nulla più assoluto, il gatto si fermò e alzò la testolina, miagolando. Poi mosse una zampa, toccando l’aria, conversando con lei.
- No, scusami tanto. Gatto. Tu, maledetto, mi hai portato qui per…cosa? Mi hai fatto venire in questo buco dimenticato da Dio per quale stramaledetto motivo?! Gattaccio, sto parlando con te. Tu ora…
Ma la sfuriata di Gajeel gli morì in gola nel momento in cui una ragazza dai lunghi capelli bianchi si materializzò davanti al gatto, la mano protesa verso la sua nuca e il viso voltato verso il ragazzo.
- Gajeel… sei proprio tu?
Una delle poche cose che sapeva della sua vita era che l’inespressività era il suo forte. A volte passavano intere giornate senza che Gajeel mutasse espressione, e lui ne era consapevole. Ma quella che aveva dipinta in volto era la definizione, l’essenza, la personificazione dello stupore. O dello shock. Quella tipa era apparsa dal nulla. Letteralmente.
- Gajeel, non posso crederci! Ragazzi, venite fuori! È tornato Gajeel!
E così, ad uno ad uno, attorno al ragazzo apparvero altri ragazzi e ragazze, tutti giovani e pallidi, che lo fissavano con sgomento. La bocca gli tremava mentre cercava di formulare una frase di senso compiuto. Senso compiuto. Una cosa che al momento sembrava non avere.
- Gajeel… figliolo – disse una voce ai suoi piedi.
Il ragazzo abbassò la testa e vide un vecchio con un buffo cappello e abiti sgargianti che lo fissava con il collo allungato, le lacrime che uscivano dagli occhi chiusi.
La situazione non poteva essere più assurda di così. Da dove era spuntato quel nonnetto?
- Vieni, fatti abbracciare – disse allargando le braccia e circondandogli la gamba.
E se la cosa era stata incredibilmente irreale fino a quel momento, quando il vecchio gli passò attraverso la gamba sbucando alle sue spalle, tutto divenne surreale. Impossibile. Intollerabile.
E Gajeel svenne.
 
- Svegliati. Gajeel? Hai dormito abbastanza, su. Sei stato lontano da noi troppo a lungo, torna tra i vivi.
Quella voce dolce trafisse la mente del ragazzo, insinuandosi come un fastidioso serpente tra i fumi narcotizzanti che proteggevano il suo cervello da un danno permanente causato dallo shock.
Gajeel farfugliò qualcosa e si mosse, ancora obnubilato dal sonno. Solo quando la luce del giorno, seppur fioca, gli accarezzò le palpebre abbassate, iniziò a riscuotersi.
Luce che stava attraversando la ragazza che aveva davanti, quella con i capelli bianchi che lo aveva chiamato per nome, prima.
Aveva gli occhi chiari.
- Dai dormiglione. Non sei cambiato affatto. Devo chiamare Natsu?
- Chi… sei? – farfugliò lui, deglutendo a vuoto.
- Non ti ricordi di me? – domandò lei, un’espressione di doloroso sconcerto dipinta in volto. – Siamo compagni, Gajeel.
Allungò una mano per sentirgli la fronte, ma questa vi passò in mezzo e Gajeel schizzò giù dal letto. Per la prima volta fece caso a dov’era: una stanzetta dalle pareti di un pallido giallo con mobili laccati bianchi. Una specie di infermeria. Anche se i muri e la pulizia di quel posto avevano visto giorno migliori.
- Scusami – disse allegramente la ragazza, per niente sorpresa dalla sua reazione. – E’ facile dimenticarsi di essere morti quando tutti quelli con cui interagisci sono… be’, morti anche loro.
- Che?! Io non sono morto! – sbottò Gajeel. Il non capire lo rendeva alquanto indisponente.
- Non tu, sciocco. Non sei cambiato per niente.
- Frena, frena, frena. Chi diavolo sei tu e come mi conosci?
La ragazza sospirò, affranta, ma quando parlò di nuovo il sorriso era tornato a brillare sul suo volto liscio. – Sono Mirajane, Gajeel. Sono una tua compagna. Siamo cresciuti insieme, qui a Fairy Tail.
- E… okay, sì, certo.
- Adesso ti ricordi?
- No per niente.
- Chiamo Natsu?
- Chi cavolo è Natsu?! – esclamò, esasperato.
Ma Mirajane, così aveva detto di chiamarsi, non lo ascoltò minimamente. Si affacciò oltre la porta e, sporgendosi, urlò: - Natsu! Gajeel vuole vederti!
Nella stanza apparve un ragazzo con i capelli rosa e l’aria alquanto… irritante. A Gajeel stava antipatico a pelle. Specialmente perché era ad un palmo dal suo naso.
Gli tirò un pugnò che beccò… il centro della sua testa vuota.
- Leva quel pugno arrugginito dalla mia faccia – sibilò il ragazzo offeso.
Gajeel non era il tipo che prendeva ordini dal primo che passava, e nemmeno da chi conosceva, ma la situazione era troppo bizzarra per farsi scrupoli e così levò la mano dal posto in cui c’era la testa immateriale di Natsu.
La scosse con disgusto.
- Guarda che è aria, mica melma.
- Ragazzi non ricominciate. Insomma, non vi vedete da due anni e vi salutate così? – li rimproverò Mirajane.
- Due anni? Io non l’ho mai visto! – gridò Gajeel.
- Anche io vorrei non averti mai visto! E me ne vado!
Detto ciò, Natsu scomparve.
- Dai, Natsu! Almeno chiamami il Master!
In quel preciso momento, nella stanza riapparve Natsu, mentre il vecchio che aveva tentato di abbracciare la gamba di Gajeel nel bosco entrò dalla porta aperta.
- No! – disse Natsu prima di sparire di nuovo.
Il nonnetto sospirò, aggrottando le grosse sopracciglia cespugliose. – Non so se essere felice o demoralizzato all’idea che niente sia cambiato. Ma ora passiamo a te, Gajeel. Di sicuro hai molte domande a cui…
- Perché se quel tipo può apparire e scomparire a comando non l’hai semplicemente chiamato, donna? Potevi evitare di sporgerti dalla porta ed urlare! – disse lui interrompendo il nonnetto.
- …vorrei darei risposte un po’ più serie di queste, razza di cretino! Lasciaci illudere di essere ancora vivi!
Appena il silenzio piombò sulla stanza come una pioggia improvvisa, Gajeel diede un calcio al vecchio. Calcio che, ovviamente, lo oltrepassò. – Davvero riesci ad illuderti?
- Bè, fra di noi sì. Ora che sei tornato sarà molto più difficile.
- Frena, nonno. Tornato dove, esattamente?
- A casa.
- Uh-uh. Va bene. Questa specie di magione ottocentesca è roba mia? – domandò il ragazzo, la fronte solcata da rughe ciniche.
- Tecnicamente, è casa mia. Ma è, o meglio, era, un orfanotrofio, ed essendo tu uno dei miei ragazzi adottati sì, è anche casa tua.
- Mh – assentì lui, braccia incrociate e sguardo vacuo.
Mirajane continuava a sorridere, come se non fosse stata un fantasma e la vita fosse stata meravigliosa.
- Master, forse dobbiamo raccontargli la storia per bene – esordì pacatamente.
- Ma no, tu dici? Non mi pare ce ne sia bisogno. Insomma, io sono un orfano e vivevo qui, in questo orfanotrofio, ma voi siete morti mentre io sono vivo. Chiarissimo.
Il sarcasmo di Gajeel era tagliente come le lame di un rasoio, ma nessuno sembrava farci caso.
- Come puoi non ricordare? – mormorò il vecchietto, un velo di tristezza negli occhi.
- Sai, è quello che mi chiedo ogni santo giorno quando mi sveglio nel mio letto e mi alzo per andare a lavorare domandandomi se avrò mai un futuro dal momento che non ho più un passato – sputò con acredine, ogni parola intrisa di dolore.
- Tu non…
- Non ricordo nulla. Nessun’infanzia, nessuna famiglia, niente, vuoto. Mi sono svegliato all’ospedale due anni fa e da allora faccio il cuoco in un ristorantino che ha visto giorni migliori, in una cittadina minuscola popolata da vecchi. Potrebbe andarmi peggio. Ringrazio il mio fascino per avermi parato le chiappe quando il magnate per cui lavoro mi ha trovato e si è impietosito di fronte alla mia storia.
Il nonnetto e Mirajane si fissarono con tanto d’occhi.
- E tu chi sei? – chiese in malomodo Gajeel, per rompere quel silenzio teso.
- Makarov. Benveuto a Fairy Tail.
 
Gajeel e i suoi due… fantasmi… magari nemmeno suoi…
Insomma, Gajeel stava passeggiando da qualche minuto nel bosco, in attesa che Makarov, noto come Master, iniziasse a parlare.
Una volta individuato il tronco di un albero divelto da una recente tempesta, vi si accomodarono, mentre il ragazzo continuava a fissare colui che avrebbe benissimo potuto scambiare per un nano da giardino.
- Cosa vuoi sapere? – chiese Makarov.
- Non lo so. Tutto. Ero orfano, giusto?
- Tecnicamente lo sei anche ora – sospirò il vecchietto, facendo grugnire Gajeel. – I miei genitori, e i miei nonni prima di loro, fondarono questo orfanotrofio per i bambini…
- Wow, non l’avrei mai detto… - lo interruppe, acido.
- Guarda che anche se sono vecchio e basso posso batterti ad occhi chiusi.
Gajeel inarcò un sopracciglio metallico.
- Cioè… - mugugnò Makarov. – Se non fossi un fantasma. Comunque stavo dicendo, che è un orfanotrofio speciale perché non ci sono adozioni e una volta che i bambini crescono non devono andarsene. Possono stare qui con me. È un palazzone grande il mio. Ci stavamo benissimo tutti quanti. Era proprio bello.
Gajeel alzò la testa per osservare le mura di mattoni grigi e il porticato di legno chiaro. Le guglie facevano sembrare quella villetta un castello. Mancava solo il fossato e il drago pronto a proteggere i suoi abitanti. La luce del solo che riusciva a filtrare tra le fronde dei rigogliosi alberi faceva brillare le pietre che Gajeel indovinò quindi essere di marmo.
Doveva essere costata una fortuna, dal momento che da quella distanza non la si riusciva ad abbracciare con lo sguardo.
Ad una seconda occhiata, però, l’unica cosa che si notava erano i rampicanti infestanti che i erano fatti largo tra le finestre aperte e la porta divelta. La targhetta che riportava il nome della costruzione, Fairy Tail, era in parte coperta dal muschio e in parte rosicchiata dalle tarme. E i cocci di vetro per terra davano a quel luogo magico un aspetto quasi spettrale.
- Io… come mi hai trovato? – chiese il giovane, senza ombra del consueto astio.
Era malinconico quel posto. Era l’ombra, il ricordo sbiadito di un passato felice ormai seppellito dal corso degli eventi.
- Tu eri un bambinetto del quartiere qui vicino. Combattevi sempre con Natsu. Non so cosa sia successo alle vostre famiglie, gli abitanti della città vi davano sempre un po’ di vestiti e qualcosa da mangiare, ma quello non era vivere. Così vi ho presi con me. C’era stata un’epidemia che aveva indebolito tutti gli adulti, per questo abbiamo avuto un boom di orfani. Chissà se ora il quartiere è tornato a stare bene…
- Se parli di quello che ho attraversato per venire qui, ne dubito – bofonchiò Gajeel ripensando alla desolazione a cui aveva assistito. Per lo meno nel bosco c’erano i fantasmi. In quella piccola cittadina, invece, solo il vuoto. L’assenza.
Makarov, troppo immerso nei ricordi, non lo sentì nemmeno. – All’inizio fu dura. Eravate dei bambini pieni di energia violenta e poi degli adolescenti strabordanti di testosterone. Ma era bello vedervi. Davate vita alla casa. E anche morte, visto la quantità di mobili che rompevate. Vi lamentavate sempre, tu, Natsu, Gray, e minacciavate sempre di andarvene. Ma non ho mai dubitato del fatto che non sarebbe mai successo. Questa era casa vostra. Non un orfanotrofio. La vostro famiglia.
Gajeel fissò il vecchio in silenzio, sentendo una punta di affetto per quel nonnetto con le sopracciglia così folte da potergli fare un parrucchino. Sentiva di appartenere a quel luogo. Era un richiamo incredibile, assurdo. E gli sembrava che però mancasse qualcosa.
Deglutì. – Quanti eravamo? E cos’è successo?
- Eravamo tanti. Tanti. E lo siamo ancora. Laxus, mio nipote, e i suoi amici Freed, Bixlow ed Evergreen, i fratelli Strauss, Elfman con Mirajane e Lisana, Erza, Gerard, Natsu e Gray, Juvia, Lucy, Kana, la piccola Wendy con la sua gatta, Makao e Wakaba che, anche se avevano moglie e figli, erano sempre qui, Reedus, Max, Warren, Nabu, Kinana, Jet, Droy e… Levy.
L’ultimo nome lo bisbigliò, la voce così carica di dolore da sembrare sul punto di spezzarsi.
Gajeel rabbrividì. Fece per parlare, ma Makarov ricominciò a raccontare.
- Era tardo pomeriggio quando accadde. Un bel pomeriggio invernale. Fuori nevicava e le ragazze stavano preparando la cioccolata calda nella cucina mentre voi ragazzi attizzavate il fuoco che scaldava tutta la casa. La neve aveva sempre un potere calmante su di voi, e per un giorno, un giorno perfetto, nessuno litigava. Io avevo un presentimento, non so come mai. Mi sentivo soffocare, era una cosa opprimente, ma davo la colpa alla mia vecchiaia. Invece, poi, udimmo un urlo, e il panico si scatenò...
 
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- Inutile Testa di Ferro, dammi una mano qui! – grida un ragazzo con i capelli neri e gli occhi ancora più neri.
È a petto nudo nonostante la temperatura sia evidentemente bassa. La sua voce mi irrita.
Gray. Si chiama Gray.
- Pervertito, cosa pensi di fare? Non sei capace nemmeno di accendere il gas in cucina! Scansati! – mi sento dire mentre lo spingo via.
Il mio corpo si muove da solo, meccanicamente, come se sapessi esattamente come fare.
Come se questo percorso fosse già stato tracciato e io dovessi solo seguirlo.
Come se l’avessi già vissuto.
La mia mente, però, è vigile.
Spingo via Gray e mi metto ad armeggiare con carta, legna e fiammiferi, finché una mano rude mi spinge via.
- Cretini, solo io so fare. Voi siete incapaci! – grida un ragazzo con i capelli rosa saltellando sul posto, fregandomi carta e legna e accendendo un fuoco in un battito di ciglia.
Natsu.
Vorrei chiedergli come ha fatto, visto che sembra abbia compiuto una magia, ma la mia mano gli sferra un pugno dritto alla mascella e dalle nocche parte un rumore sordo che mi riverbera fin nella viscere.
Mi ritrovo coinvolto in una zuffa in un secondo, pienamente consapevole dei calci e dei pugni che mi arrivano da ogni dove. Invece che fermarci, gli altri ragazzi che arrivano si aggiungono a noi ridendo e gridando.
Ma sono idioti?
Mano a mano che li vedo, i loro volti sembrano assumere un significato, pare che escano direttamente dalla mia memoria, dal mio cervello. Io li conosco.
Elfman che grida qualcosa sugli uomini prima che un pugno lo zittisca.
Makao e Wakaba che alla fine si ritrovano a litigare tra di loro.
Jet e Droy che arrivano per difendere l’onore di Levy.
Levy…
- Basta, ragazzi! – urla un coro di voci femminili.
Nell’immenso soggiorno dalle pareti di legno con il pavimento di marmo coperto da pesanti tappeti si sono riversate tantissime giovani donne che si dirigono verso di noi. Io sto ancora lottando e non ci faccio nemmeno caso. Il mio istinto cerca qualcosa, qualcuno, mentre il mio cervello registra che ogni ragazza sta trascinando via un lottatore.
Una ragazza bionda porta via Natsu mentre una con i capelli azzurri si appiccica a Gray.
Lucy e Juvia.
Juvia ha i capelli azzurri, ma non è il suo il colore che cerco.
Il contatto è così leggero che quasi non me ne accorgo, ma sono così in tensione che potrei percepire persino lo spostamento di una piuma. Una mano calda e delicata si appoggia sul mio braccio ed esercita una piccola pressione per allontanarmi dalla rissa.
- Possibile che devi sempre cacciarti nei guai? – mi chiede una voce acuta ma pacata, come quella di una bambina.
È una voce che conosco molto bene, ma che negli ultimi tempi ho potuto sentire solamente tinta del terrore e delle suppliche di chi è disperato.
Con la coda dell’occhio vedo il blu che cerco, un azzurro con più riflessi di quello di Juvia, un azzurro più puro e cristallino seppur profondo. È inimitabile.
È lei. È Levy.
La ragazza dei miei sogni.
Letteralmente. Quella che mi tortura ogni notte con le sue richieste.
Ora mi ricordo di lei. A sprazzi, ma è già qualcosa. È questo che voleva che rammentassi?
La mia bocca grugnisce una risposta che probabilmente è già stata data, in quell’occasione.
Io sono solo un ospite, un intruso.
Un fantasma.
- Non borbottare, lo sai che sembri un orso! – mi rimbrotta lei, girandosi a guardarmi mentre mi porta in un’altra stanza, quella da pranzo.
Ha gli occhi scuri quando si arrabbia e chiari quando è serena, di un colore nocciola misto al miele scuro. Sento il mio corpo scaldarsi involontariamente nel momento in cui la vedo.
Poi lei mette il broncio e gonfia le guance, assomigliando ancora di più ad una bambina, le piccole labbra arricciate.
- Per caso in giro c’è qualche assurda festa in costume? – mi sento chiedere sgarbatamente.
E non ho tutti i torti. Cioè, non ne ha il mio me stesso di anni fa.
Che casino.
- Perché? – replica lei.
- Non è carnevale, è natale. Non vedo per quale motivo vi siete vestite come se foste delle dame dell’Ottocento a caccia di marito!
In effetti è vero. Le ragazze qui dentro, da quello che ho visto, portano sfarzosi abiti che andavano di moda come minimo due secoli fa, tutto corpetti e gonne ampie. Manca solo la parrucca alta e pidocchiosa.
- Non lamentarti tanto, dopo te lo devi mettere pure tu – mi avvisa lei, forse leggermente offesa.
- La gonna?!
- Non la gonna, scemo! Il vestito antico. È una cosa bella! Quest’anno l’orf… casa nostra, compie duecento anni. È il caso di festeggiare!
L’entusiasmo soppianta immediatamente la sua irritazione e gli occhi le si schiariscono, sciogliendosi.
- Conciati come dei pagliacci?
- E smettila! Entra anche tu in tema!
- Se vuoi entro in tema natalizio… e ti faccio indossare quel bel vestitino corto rosso e bianco che ti ho comprato la settimana scorsa. Puoi stare certa che festeggerò di sicuro.
Mi vedo, e mi sento, mentre le poso le mani sui fianchi, avvicinando il suo corpo al mio e il mio viso al suo, fino a che i nostri nasi si sfiorano.
Ora capisco perché il mio corpo era in tensione: era pronto a stuzzicarla.
Levy avvampa, ma non si ritrae, e alza timidamente gli occhi incatenandoli ai miei.
Per fortuna ho solo il controllo della mia mente, perché già quella è paralizzata. Figuriamoci il corpo.
- Qualcuno potrebbe sentirti… - mormora lei, ma non sono sicuro di cogliere un allarme nel suo tono. Non c’è nemmeno convinzione.
- E allora? Tanto lo sanno tutti che sei mia.
Oh. Quindi io e lei… noi… sì, insomma. Sì.
Penso che non mi dispiaccia. No. Decisamente no.
Devo assolutamente ricordare. Ora più che mai.
Sento la mia nuca avvicinarsi ancora di più alla sua, lentamente, ma alla fine è lei a colmare la piccola distanza residua e a premere le sue labbra morbide sulle mie, con decisione.
Non c’è l’imbarazzo tipico delle prime volte, sembra che sia, che siamo, abituati a tutto questo.
Sento le sue mani scivolarmi sulle spalle e accarezzarmi il collo mentre le mie braccia la stringono in vita e la sollevano.
Sì, va bene, non era solo una mia impressione. Mi sa che non è la prima volta. E nemmeno una delle prime.
Tutte le cose romantiche mi fanno venire la nausea e sarei più propenso a mangiarmi delle ranocchie che a pensare a qualcosa di dolce, ma per una volta vorrei conoscere questa storia d’amore che mi riguarda. Vorrei vedere Levy ridere e arrossire come so che fa sempre. Mi ricordo di lei, nebulosamente, in maniera confusa, ma ci sono verità che non posso cancellare: il modo in cui si illumina quando le porto un fiore, come ride quando le faccio il solletico e si imbroncia se la prendo in giro, come si raggomitola contro di me sotto le coperte, e quanto si irrita quando a tarda notte le chiudo il libro del momento e spengo la luce.
Ma lei dov’è, ora? Non l’ho vista gironzolare insieme ai fantasmi della casa.
I fantasmi! Lei… non può. No. Non può, anche lei, essere…
Il mio filone di pensieri, sempre più ingarbugliato, si blocca repentinamente quando sento un urlo agghiacciante.
Le mie braccia si allentano, liberando Levy dalla mia morsa, ed entrambi guardiamo oltre le mie spalle, verso il punto della casa da cui è provenuto il grido.
- Cos…? – farfuglia lei, raccogliendo l’ampia gonna e dirigendosi verso la porta da cui noi siamo entrati. – Sembrava Kana.
Inizia a correre e io la seguo. Lo farei sempre, in ogni situazione, anche se in questo momento fossi io a controllare questo corpo. Anche se non avessi inserito il pilota automatico.
Attraversiamo l’ampio salone dove il fuoco, acceso da Natsu, scoppietta. Ora, però, mi sembra che abbia un aspetto inquietante. Ho un brutto presentimento.
Oppure mi sto solo facendo suggestionare da… tutto questo.
Con la coda dell’occhio vedo altre persone affrettarsi verso la nostra stessa direzione, scambiandosi occhiate confuse: Lisanna, Jet e Droy, Gray e Juvia.
Iniziamo a correre tutti insieme, come membra di un unico corpo, quando iniziamo a salire al piano superiore e sentiamo delle grida diverse, frammentate e sconvolte. Riesco a percepire il brivido che scuote il corpo di Levy quando raggiunge il piano dei dormitori, il primo piano, e imbocca le scale per la mansarda.
- Lucy! – grida, incespicando.
Con una falcata supero quattro scalini e le poso una mano sul fianco per darle equilibrio.
Quando raggiungiamo il parquet dell’ultimo piano della villa, forse so già cosa aspettarmi. Ma vederlo è comunque destabilizzante e inaspettato.
Kana, con indosso una gonna ottocentesca e la parte superiore di un bikini, giace prona sopra un tappeto che io e Natsu abbiamo comprato insieme a Makarov. I capelli scuri e ondulati impediscono al volto, schiacciato contro il ruvido tessuto, di essere visto. Invece, il coltello che le sbuca dalla schiena insanguinata è più che visibile.
Mano a mano che arrivano, tutti si bloccano e smettono all’unisono di respirare.
Kana non respira più, questo è evidente. Ma noi non fissiamo l’assenza della sua attività polmonare.
No.
Fissiamo Natsu, che ha bloccato Lucy e le ha puntato un altro coltello alla gola.




MaxB
So che avevo detto che avrei postato solo una volta finita la storia, ma non ho resistito. Tanto, finita è praticamente finita. Da ora gli aggiornamenti saranno regolari, ogni lunedì.
Se non ricordate più il prologo non fa nulla. Anzi, meglio così. La storia ha poco a che fare con quello.
Spero che i flashback non creino confusione, all'inizio che ne sono tantissimi.
E spero di cuore che la storia vi piaccia, perché io ci ho messo dentro tutta me stessa, spremuta come un limone.
Pensavo che sarebbe stato un capitolo di Fairy Tales di 10 pagine a farla grande, ma poi è diventata una storiella che credevo avrebbe avuto massimo quattro capitoli, ma quando al quarto capitolo continuavano a venirmi in mente idee e la conlusione finale era lontana anni luce, ho smesso di programmare e ho preso quello che veniva. Per ora sono 103 pagine di Word, ma devo ancora aggiungere delle cose. Inutile dire che diventeranno come minimo 115.
Grazie di cuore a chi mi seguirà in quest'avventura sovrannaturale.
Grazie di cuore.

MaxB
 
  
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