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Autore: ness6_27    14/05/2016    0 recensioni
Due ragazzi rimangono da soli in una villa senza elettricità. Decisero di raccontarsi una storia per passare il tempo. La storia di una ragazza che si trasferisce controvoglia in un piccolo paesello, e diventa la protagonista insieme a un introverso ragazzo, di eventi piuttosto particolari, legati al folklore di quel paese. Tante storie popolari, tra lupi, spiriti, e altro. Non proprio cose di tutti i giorni.
Genere: Generale, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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"..."
"..."

A cosa si pensa quando si cade? Si dice che passi tutta la vita davanti, che ogni ricordo ormai dimenticato ritorni a galla nella frenetica e furiosa attività che inizia a compiere il cervello, nella speranza di rimanere vivo. Non è un po’ strano? Teoricamente non avresti il tempo di rivivere tutte le tue memorie. Non importa quanto sia alto il punto dal quale cadi o ti butti, i secondi che ti distanziano dalla morte saranno sempre troppo pochi. I momenti tra quel gesto e il rovinare del tuo corpo al suolo, nel tentativo troppo affrettato di tornare alla terra, non saranno mai e poi mai abbastanza per rimpiangere la vita dalla quale sei scivolato via.
Il mio cruccio non era questo, purtroppo.
Stavo cadendo già da una buona manciata di attimi, ma perché non mi succedeva niente?
Cadevo e basta. Nel buio più tetro, ebbi l’impressione di abituarmi all’oscurità, e di vedere le rocce creparsi e scricchiolare intorno a me. Non riuscivo più a muovere un muscolo a causa dello sgomento che quella caduta mi stava provocando. Ero in apnea, con gli occhi sbarrati. Ciondolavo nel vuoto in maniera del tutto libera, come fa un peso morto quando viene buttato da un punto in alto.
La persistente mancanza di respiro mi stava anche facendo perdere coscienza, sostituita da un fortissimo mal di testa che mi annebbiava la vista.
Tutto ad un tratto mi piegai all’indietro e provai un dolore lancinante alla schiena. Dovevo aver sbattuto contro qualche roccia sporgente. Iniziai a provare freddo, tanto freddo. Avevo quasi sicuramente una ferita aperta e molto vistosa alla schiena, sentii un forte gelo letteralmente dentro le ossa, e fiotti di sangue che mi sporcavano il fondoschiena, le braccia, quando mi capovolgevo anche il collo.
Perché il buio? Prima ci vedevo. Riuscivo a vedere quell’orrore profondo, fatto di pietre scivolose e ammuffite, ma sempre dure e impietose. E in quel momento invece nulla. Non riuscivo nemmeno a sentire la gravità che fino a un attimo prima mi trascinava sempre più giù, quasi...quasi fossi arrivata al centro del mondo. Mi sentii sempre più leggera, sforzandomi di guardare verso il basso mi vedevo quasi come un panno di feltro arrotolato, le gocce di sangue che prima mi macchiavano le spalle e si facevano immancabilmente superare dal mio corpo pesante, ora piano piano andavano a permeare tutto il mio essere, e formarono un lettino rosso nella quale sprofondavo, mentre si formava il baldacchino con le sue tendine. Questa sensazione si fece ancora più forte, mi ero davvero adagiata su una coltre vermiglia.Perché quella luce? Cos’è? Quanto è distante? Di che cosa brilla? È una cosa che vedrei solo io, se non fossi sola?

Sono sola?
Magari no.
Cosa cala da quel bagliore?
PLIC
Una goccia?
Mi sta rubando l’anima.
Dove sto finendo?

Cos’ero diventata? Un ammasso di quanti? Forse di monadi?
Tutta questa questa pressione...mi sta facendo male....
Finii in mare. Un mare calmo e accogliente, che mi cullava tra le sue onde. Di contro, un cielo nerissimo che mi guardava beffardo e meschino, nella sua misera svogliatezza. Nemmeno una stella, ovvero un sole, la luce diffusa nell’etere dall’aria ionizzata. Nessun confine intorno a me. Solo sopra e sotto. La mia vista non era più la mia. Non aveva limiti. Non era umana. Però, cosa brillava di luce e cosa di ombre non lo sapevo. Della seconda, sicuramente le mie orbite. Riuscivo a girarmi? Ci provai. Sentivo che se non mi muovevo non sarei stata me stessa. Nemmeno i resti mi sarebbero mai più appartenuti. Ma non potevo muovermi. Invece iniziai a scivolare. L’acqua si sforzò di tenermi a galla, ma la mia ferita aperta schiacciava i polmoni già vuoti. Non era importante, avevo esalato l’ultimo respiro da troppo tempo. Non respiravo. Però avevo tanta paura. Non sapevo cosa ci stesse sotto, e non riuscivo a vederlo.
Se riuscissi...a g-girarmi…
Non riuscì a capire cosa effettivamente stessi guardando. Il fondo di quel mare era impossibile da vedere, era troppo profondo, sembrava scorrere all’infinito, immerso in una luce vitrea e fredda. Era come macchiato però da un buco nero. Una immensa vastità di nero impassibile si stagliava al centro della mia visione, mentre delle onde vorticose fluttuavano minacciose intorno ad essa. Ma questa oscurità non sembrava volerne sapere di svanire e cedere il posto a questo incontrastato potere che l’attanagliava. Questo vortice appariva minaccioso, ma in realtà non sembrava voler attaccare direttamente il nero. Lo scrutava, lo giudicava. Però in realtà aveva paura, come se quell’entità potesse tutto ad un tratto inglobare tutto. Come se tutto ad un tratto si sarebbe potuta scatenare una forza ben più potente di quel vortice.
Si agitava tutto intorno, guizzava, ma il tratto più vicino a quel centro era calmo, come se non si volesse muovere per il terrore, o fosse impossibilitato a farlo.
Ero rimasta talmente incantanta ad ammirare questa orchestra che mi si parava davanti, che non mi ero nemmeno accorta di quanto stessi scendendo giù. Non avevo bisogno di aria, però la pressione dell’acqua si faceva sempre e sempre più forte, iniziò a darmi fastidio. Lo spettacolo davanti a me non sembrava avvicinarsi, non riuscii davvero a immaginare quanto fosse lontano.
Singolari luccichii vidi danzare davanti gli occhi, mentre un grande alone rosso mi ricopriva lo sguardo. L’acqua ormai stava deformando l’ultima parte ancora intatta di organi interni, i cui capillari, rompendosi, donarono a questa immensa distesa vitrea una sfumatura sanguigna. Piano piano iniziai a non vederci più, pur senza perdere coscienza. Man mano che mi coglieva il buio, la mia paura, e il desiderio di capirci qualcosa, prendevano il sopravvento.
Non seppi mai se quella grandissima spazzata di acqua che distrusse quel poco che era rimasto del mio cadavere fosse stata generata dal vortice di acqua messo molto più in sotto di me. So solo che mi sembrò di morire per una seconda volta. 

Un grande arcobaleno frastagliato si stagliava dinanzi a me, agitato e impazzito, quasi inferocito come un cane colto dalla rabbia. Mi morse con un grande balzo. Si plasmò. Mostrò tutta la sua feroce cattiveria verso i miei confronti.
Mi ritrovai in una stanza di ospedale.
Il letto bianco, con quel suo materasso anti piaghe, le coperte fatte con materiale molto ruvido, ma maledettamente accogliente. Troppe persone dicono che non vorrebbero mai provare il letto di un ospedale, ed è maledettamente comprensibile. Ma quei letti, seppur fatti con la freddezza consapevolezza di dover essere prodotti in scala industrale per riempire tante stanze di ospedale, sono di un’accoglienza unica.
Quell’olezzo misto di alcol, omogeneizzato, e fiati pesanti, stanchi. La classica colorazione delle pareti bianca e verde acqua, impilati e accostati malamente, magari a mosaico. Secondo dei precetti della cromoterapia, che nemmeno so se la medicina ufficiale accetta, questi colori vengono scelti perché uno permette di riportare alla calma un animo agitato, e portanto a essere più aperti verso le altre persone, specialmente i medici, l’altro dona vitalità a un corpo affaticato e stanco.
Ma io ho saputo dare un altro valore a questi colori. Non so se considerarlo un complotto, ma penso che mi potrei sentire come Edward Norton quando in Fight Club scopre a cosa servono le mascherine che calano sopra la vostra testa quando un aereo precipita.
Non servono per farvi respirare. Servono per mantenervi euforici e tranquilli fino alla fine...
Non che il verde e il bianco nelle pareti degli ospedali servano a questo, però…
Una volta passata, fui accolta da una grandissima distesa di acqua color smeraldo, che non fece altro che portarmi giù, sempre più giù.
Il bianco è sempre stato il colore della purezza e del candido, chi vede bianco in questo caso sa già dove andrà, a cosa sarà eternamente destinato, e lo capirà con un sospiro di sollievo e col calore dell’abbraccio di un perfetto sconosciuto.
Io non vidi il bianco, nel mio viaggio. Io vidi solo il nero. A me tocca questo: l’inferno. O forse il nulla? Quale posto sarebbe il peggiore, tra i due?
Ormai posso preoccuparmi solo di questo, non posso versare lacrime amare nella speranza di un’ulteriore maledizione che mi riporti a una condizione umana.
Sto in un ospedale, ma non sono uno dei malati, e non sono nemmeno un visitatore.
Io sono morta, morta per sempre, e nemmeno mi sarà concesso sapere se verrò mai ritrovata.

  
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