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Autore: fiammah_grace    14/05/2016    1 recensioni
[Resident Evil: code Veronica X]
"Seppur la non fisicità di Alexia, la sua presenza era rimasta come un alone costante nella vita dell’uomo che abitava oramai da solo quel vuoto castello.
Una costante fittizia, ma così viva e forte che a un certo punto lui stesso l’aveva resa reale continuando a dare un nome, un volto e un ruolo alla sua venerata e lontana sorella, muovendo uno spaventoso gioco di ruolo mentecatto in cui ella esisteva e non lo aveva mai lasciato.
Nulla avrebbe avuto importanza per lui. Avrebbe sacrificato ogni cosa al fine del benessere e del successo della sua Unica Donna, la sua Unica Regina. Persino se stesso.
Qualcuno tuttavia aveva osato disturbare la sua macabra attesa.
Claire Redfield. Il nome della donna dai capelli rossi che aveva invaso il suo cammino nel momento più prezioso. Il nome dell’infima donna che aveva sporcato l’universo perfetto di lui e Alexia, portando scompiglio nel suo territorio.
Quella formica che gli aveva dato del filo da torcere…persino troppo. Più di quanto potesse sopportare."

[Personaggi principali: Alfred Ashford, Claire Redfield]
Genere: Angst, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Alfred Ashford, Claire Redfield
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 13: soliloquio di un cuore serrato
 
 
 
 
“Amore non è amore se muta quando scopre un mutamento
o tende a svanire quando l'altro s'allontana.
Oh no! Amore è un faro sempre fisso
che sovrasta la tempesta e non vacilla mai.
Amore non muta in poche ore o settimane,
ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio;
se questo è errore e mi sarà provato,
 io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato.”
 
(Shakespeare)
 
 
 
 
 
 
 
Claire Redfield rientrò nella stanza di Alexia Ashford. Una stanza elegante ricolma di fronzoli, maestosità e bellezza, eppure così tristemente cupa e vuota.
Il carillon suonava la sua melodica armonia, rintoccando con le sue note penetranti per tutto il pianerottolo di quell’ala del castello, come fosse la voce di un ricordo innocente di vita che forse un tempo animava quel luogo oramai abbandonato.
La ragazza dai capelli rossi attese che le lamelle d’acciaio vibrassero sullo spartito, ovvero un disco rotante color ottone, questo per far sì che il passaggio segreto, posto al piano superiore oltre il letto a baldacchino, si rivelasse.
Nella stanza del biondo gemello Ashford aveva ritrovato la Formica Rossa, da utilizzare nella stanza di Alexia; potette quindi mettere in funzione il carillon e costatare di persona quel “cuore” nascosto dove “giaceva la sua metà”.
La frase faceva così: “Dove giace la mia metà, giace il mio cuore.”
Si chiese cosa avrebbe trovato.
Una volta giunta in quella soffitta buia ritrovò soltanto una comune mansarda. Esattamente come nella stanza del fratello, anche quella di Alexia sembrava non celare particolari segreti.
A differenza però delle cianfrusaglie accumulate nella stanza adiacente, in questa ritrovò molto più ordine. Era un luogo desolato, eppure perfettamente pulito. Vi era una libreria, ricolma di manuali circa la biologia e la chimica; e una scrivania di legno massiccio, sulla quale era poggiata una lampada ad olio perfettamente funzionante. Salendo una piccola rampa di scale, vi era persino una zona di esposizione ove erano tenute sotto vetro una serie di insetti di ogni tipologia. Farfalle, api, coleotteri, formiche, ragni…
Claire, che in verità non adorava particolarmente gli insetti, non potette comunque non ammirare affascinata quella stravagante mescolanza di colori che rendevano quei cimeli tutt’altro che disgustosi.
Erano assolutamente stupendi, facevano venir voglia di essere ammirati. Nonostante fossero insetti.
Alla fine, però, finalmente qualcosa di più utile si rivelò nascosto fra quei corpi inanimati.
Perfettamente mimetizzata fra tante forme e colori diversi, fra quegli insetti era posta una chiave.
Era fra una libellula sgargiante e un’ape regina.
La ragazza costatò che era possibile aprire lo scomparto di vetro, dunque potette prendere la chiave senza grossi sforzi.
La ripose in tasca e si diresse fuori da quella stanza, desiderando ardentemente di allontanarsi il prima possibile dalla ‘tana dei due gemelli’.
Scese dunque le scale a pioli e andò via, inoltrandosi nel corridoio e decidendo di appartarsi in una qualsiasi zona di quel palazzo, purché fosse isolata.
Ancora abbastanza sconvolta dai recenti accadimenti, non poteva indugiare ancora.
Aveva bisogno di delle risposte e forse il diario di Alfred reperito nella sua stanza poteva sopperire ai quei turbamenti.
Avrebbe quindi rallentato le ricerche per ritagliarsi quel momento di riflessione per approfondire qualcosa su di lui.
Probabilmente, scosso com’era, persino il biondo non sarebbe venuto a cercarla almeno per un po’. Dunque quello era il momento migliore per approfondire la questione e magari venire a capo di quella personalità così devastata.
Fu lieta di costatare che le temperature rigide che dapprima avevano reso davvero sofferte le sue indagini all’inizio di tutto, adesso fossero state ripristinate.
L’ambiente era finalmente caldo e vivibile, ciò le consentì di poter lasciare quell’ala per dirigersi in quella più abbandonata e polverosa posta oltre quel passaggio nel magazzino dove erano depositati gli alimenti. Raggiunse quello studio dove cercò di passare qualche ora di riposo prima di avventurarsi nei meandri della residenza Ashford. Lì sarebbe stata tranquilla, era un buon luogo dove appartarsi.
Una volta arrivata, girò la chiave e chiuse la porta dall’interno. L’ambiente rispetto all’ultima volta era molto più caldo, se ne sollevò.
Prese un lume riposto su una mensola e lo appoggiò sulla scrivania. Lo accese, dopodiché si adagiò sulla poltrona e si mise comoda, pronta a cimentarsi nella lettura di quel documento che forse avrebbe chiarito qualcosa.
Sentì qualcosa di strano agitarla internamente.
Il suo cuore batteva incessantemente, turbata ancora da quell’evento che aveva inesorabilmente segnato il loro rapporto.
Questo perché la sua mente non riusciva a scacciare il ricordo di quel che era accaduto recentemente: quel bacio prepotente, intimidatorio e violento, che poi si era improvvisamente trasformato in una passione sconvolgente e inarrestabile.
Prima di cimentarsi in quella tortuosa lettura alla ricerca di nuove speranze per sopravvivere, era come se necessitasse di elaborare quello shock.
Di quel momento sconvolgente ed inaspettato, Claire ricordava solo poche cose.
Ricordava la moquette rossa sotto le sue mani, l’affanno che le bloccava il respiro e poi… il tremore.
Il suo corpo tremava senza riuscire a fermarsi. Probabilmente era l’adrenalina che aveva in corpo che si stava scaricando tutta in un momento e che cominciò a farla diventare fredda e accaldata allo stesso tempo. Sentiva tutto molto confuso, non sapendo più cosa fosse accaduto davvero oppure no.
Un momento prima era intenta a raccogliere il famoso diario che adesso era fra le sue mani, l’attimo dopo era fra le braccia di quel tiranno impazzito travestito da sua sorella Alexia.
Accadde tutto in modo così repentino che ella stesso si sentì sconvolta non solo da quel che era accaduto, ma dal fatto che non avesse avuto i nervi saldi per reagire prima che tutto degenerasse.
Le sue labbra bruciavano come il fuoco e l’immagine di quella pelle pallida, di quegli occhi luminosi e indecifrabili, di quel volto etereo e androgino. Non sapeva più se aveva Alfred oppure Alexia di fronte a sé.
La sua mente andò completamente nel panico, perdendosi nel tormentoso buio della paura e della disperazione.
Tuttavia riuscì a rimanere calma. Stette seduta a terra per molto tempo, non sapeva quanto con esattezza.
La sua mente si chiuse e non riuscì ad analizzare o elaborare nulla di quell’episodio.
Decise così di limitarsi semplicemente a proseguire.
Si era alzata e si era diretta verso il carillon, in modo da usare la formica rossa appena reperita, non rievocando più quel che era accaduto.
A mente fredda, adesso, quelle immagini stavano diventando finalmente più chiare.
A differenza di quel forte senso di ansia e paura, in quell’istante vedeva solo accavallarsi una serie di domande che non facevano che arricchire quel mosaico di punti interrogativi circa le multiple personalità di quel ragazzo.
Egli aveva trasmesso una brama che lei difficilmente avrebbe dimenticato. Era qualcosa difficile da elaborare, eppure non era stato il bacio in sé per sé a sconvolgerla. Ma il sentimento che lo aveva trasportato.
Questo mise in secondo piano i fatti concreti, portandola a interrogarsi circa le ragioni che avevano scaturito tale morboso desiderio.
Per quanto cercasse di ricordare, però, non ricordava altro se non il viso di Alfred/Alexia e la sua bocca che la profanava con l’avidità di chi arriva a possedere qualcosa che aveva desiderato ardentemente.
Forse lui aveva rivisto Alexia in lei? Era accaduto questo?
Come succedeva quando la teneva prigioniera?
Eppure stavolta era lui che era mascherato da Alexia e questo particolare gettava ancora più nel caos la sua mente oramai martoriata.
Se solo Alfred avesse fatto quel gesto come “uomo” poteva avere un senso per lei. Era…un uomo in fondo! Bastava questo a giustificare quella fisicità.
Invece il fatto che a farlo era stata la sua versione femminile l’agitava. Cosa significava?
Cercò comunque di non evidenziare troppo quel singolo particolare. Se pensava che sul piano esterno era come se fosse stata baciata da una donna, l’idea le faceva accapponare la pelle. Non era contro l’omosessualità, affatto. Semplicemente lei era etero e quindi non avrebbe mai voluto trovarsi in quella situazione.
Fu tuttavia rassicurante per lei ricordarsi che stava solo farneticando, in quanto Alfred era un uomo, quindi non aveva motivo di sentirsi a disagio.
Sbuffò, cercando di scacciare quel senso di oppressione che stava schiacciando i suoi nervi.
I suoi occhi tutto d’un tratto si abbuiarono.
Nella sua mente andò a figurarsi il volto angustiato del giovane che, forse sconvolto più di lei, a stento si reggeva in piedi dopo l’accaduto.
La regalità che trasmetteva quando era Alexia scomparve del tutto, lasciando al suo posto un uomo travestito da donna tremante e impaurito, che scappò via terrorizzato forse più da se stesso che da quello che aveva fatto concretamente.
Il suo cuore si strinse mentre cercava di comprendere il malessere che lo aveva fatto reagire in quel modo, nonostante lui avesse deciso di baciarla di sua spontanea volontà.
Lei…non aveva fatto assolutamente nulla.
Aveva fatto tutto lui.
Qualcosa aveva trasformato il suo desiderio di violentarla psicologicamente, in un tormentato trasporto emotivo e passionale. Tuttavia trovava improbabile che Alfred la desiderasse a tal punto. Era…assurdo…anche solo pensarlo.
Eppure più pensava alle sue labbra che si comprimevano bramose sulle sue, più l’incertezza si abbatteva su di lei, impedendole di dimenticare quel bisogno che aveva sentito sulla sua pelle.
Tornò a guardare il diario del biondo, decisa stavolta a fare chiarezza non solo su quanto accaduto, ma sulla situazione generale in cui si trovava.
Era arrivato il momento di guardare quel tavolo da gioco.
Mentre le sue dita scorrevano su quella copertina rigida e poi fra le pagine consumate di quel diario, era come se avvertisse la presenza di Alfred Ashford, il quale aveva abbandonato se stesso in quelle righe.
Era come se potesse vederlo con i suoi occhi, agitato all’idea che qualcuno stesse per toccare con mano qualcosa di così personale per lui.
Involontariamente accarezzò la copertina, un gesto istintivo che non si accorse nemmeno di compiere; fu come se avesse voluto consolarlo, come se avesse voluto dirgli: “Non preoccuparti, voglio solo leggere quello che può essermi utile per capire dove mi trovo, per comprendere il tuo mondo. Non voglio infangare i tuoi ricordi, non voglio ferirti.
Il proprietario di quel testamento non era lì fisicamente, eppure Claire sentiva come se stesse davvero per parlare con Alfred.
Per questo mentalmente stette diversi minuti a pensare a lui, preparandolo psicologicamente alla sua intrusione nei suoi ricordi, che avrebbe fatto nell’assoluto rispetto della persona.
Infine aprì il diario, cominciando a sfogliarlo un po’ a caso.
La lettura di quei passaggi aprì la sua mente non solo ai suoi pensieri o ai suoi ricordi, ma a molto di più. Arrivare a conoscere una terra inesplorata e contorta può far aprire orizzonti nemmeno immaginabili, e Claire stava per farne le sue spese.
 
 
 
 
 

Diario di Alfred Ashford
1981 – marzo
 
 
 
 
Sono appena tornato da scuola, faceva molto freddo.
Mentre ero sul traghetto diretto a Rockfort Island, vedevo delle persone osservarmi di nascosto da lontano. Sapevo bene cosa stavano pensando, ero a conoscenza che sapessero chi sono, ma non mi interessava. Volevo soltanto tornare a casa, è stata una lunga giornata.
Papà mi ha detto che forse lascerò la scuola, che mi troverà un istruttore privato. Questi avanti e indietro dall’isola non mi fanno bene, la verità però è che a me non dispiace lasciare casa qualche ora. Però lo so perché me lo ha detto.
Alexia ha passato tutto l’inverno da sola, chiusa nel palazzo di famiglia.
Sono preoccupato anche io.
Non l’ho vista muovere un solo passo fuori, nemmeno per una passeggiata in giardino. Ora che l’inverno è finito, speravo saremmo riusciti a uscire almeno un po’, ma lei non ha voluto.
A differenza mia, lei non solo ha completato già gli studi, ma ha perfino finito l’università ed adesso lavora come ricercatrice capo per conto dell’Umbrella inc. . Come voleva nostro padre, la nostra intera stirpe, lei ha saputo portare avanti con onore il nome della famiglia Ashford. Sono così orgoglioso di lei.
Pensare che siamo gemelli, eppure siamo così diversi. Lei possiede un genio ineguagliabile, ha qualcosa che le altre persone non hanno.
Eppure…
Eppure non posso fare a meno di essere preoccupato.
Nostro padre vuole assecondare le sue doti e incoraggiarla a perseguire altissimi obiettivi. Tuttavia, per conseguire ciò, io e lei quasi non ci rivolgiamo la parola. Non voglio che il nostro rapporto venga deteriorato così in tal modo!
Lui non capisce…non capisce l’importanza che abbiamo l’uno per l’altra! Senza di lei non ce la faccio e so che per Alexia è lo stesso. Vedo la stanchezza nei suoi occhi. Perché nostro padre non riesce a capire?
E’ per questo che lui vuole che io lasci la scuola, perché pensa che Alexia renderebbe di più sapendomi vicino a lei. Io invece, se lo farò, sarà solo per lei. Non mi interessano i suoi studi.
Odio quelli dell’Umbrella!
Appena il traghetto è approdato in porto, ho aspettato che le persone scendessero. Non volevo mischiarmi fra loro. I loro sguardi mi irritano.
Ho allacciato il cappotto e l’ho stretto sotto il collo, sperando di ripararmi dal vento. Il tempo primaverile in Inghilterra è terribile. Ieri il sole caldo temperava ed illuminava il cielo turchino, oggi invece è tetro e grigio, accompagnato da un vento debole ma costante.
Ho percorso a piedi tutta la landa, mi sarei intrattenuto volentieri a passeggiare se non fosse stato per quel tempaccio.
Quando sono tornato a casa, mi sentivo un ghiacciolo.
Le mie guancie erano fredde, così come le mie mani che, seppur riparate dai guanti, quasi non riuscivo a muoverle.
Cercai di rassettarmi un po’. Avevo tutti i capelli in faccia. Se mio padre mi avesse visto così, si sarebbe infuriato. Secondo lui un lord deve essere sempre in ordine, dice che non è apprezzabile apparire disordinati, con la capigliatura sul viso. Invece so che ad Alexia piaccio più così, ed è solo del suo giudizio che mi importa.
Entrai dalla porta sul retro, mi seccava incrociare la servitù. Loro avrebbero avvertito papà del mio arrivo e sapevo che mi avrebbe impedito di disturbare mia sorella. Invece io desideravo ardentemente vederla, così speravo di fare irruzione nel suo laboratorio e farle una sorpresa.
Avevo preso un regalo per lei. Un compagno di classe aveva festeggiato portando dei dolci, così ne avevo portato un po’ anche per lei. Speravo le avrebbe fatto piacere.
Durante quell’ora di spacco, me ne ero stato da solo, fra me e me. Non avevo per niente voglia di abbuffarmi e fare festa con gli altri della classe. Rimasi ad osservarli da lontano mentre si divertivano e conversavano fra loro, con una noia dipinta sul mio volto di cui credo si siano accorti tutti.
Speravo in cuor mio che i minuti passassero presto e che avremmo ripreso le lezioni. Persi tempo a ripassare la lezione che in verità già sapevo a memoria. L’avevo letta prima di andare a letto solo il giorno prima, eppure l’avevo memorizzata subito. Dentro di me ero fiero della mia capacità mnemonica, mi sentivo orgoglioso degli altissimi voti che in verità conquistavo con assoluta facilità.
Non credo di aver mai studiato seriamente. Mi bastava leggere per sapere tutto.
Eppure, evidentemente, questo passava del tutto inosservato a casa mia. Mi sentivo triste.
Invece a scuola ero considerato una sorta di demonio per questo, persino dalle mie insegnati.
Sono solo persone patetiche, potrei insegnare meglio io di loro, invece che stare a perdere tempo a seguire le loro stupide lezioni!
Mentre gli altri festeggiavano, sapevo cosa pensassero di me. Stetti comunque in disparte, non mi interessava di loro.
Comunque, tornato a casa, ho percorso il corridoio e sono arrivato nell’atrio d’ingresso. La pavimentazione perfettamente lucida rifletteva la mia immagine e la luce dell’enorme e sfarzoso lampadario si irradiava in tutto l’ambiente, facendomi dimenticare lì per lì che fuori il cielo fosse così grigio e spento.
Mentre sfregavo le mani fra loro, ho sentito qualcuno scorgermi da lontano, su per le scale.
Mi sono accorto subito di quella presenza, ma ammetto di essere rimasto sorpreso quando l’ho vista.
 
“Alexia!”
 
Ho detto con tono lieto, contento di vederla. La mia voce è apparsa più alta per via dell’eco.
Alexia era in cima alla scalinata più bella del palazzo, la quale si intrecciava con un altro paio di rampe che conducevano nei vari ambienti. Era tutta rivestita di un tappeto color porpora, che dona regalità e splendore, soprattutto se a solcarla era lei.
Mia sorella era bellissima.
I suoi lunghi capelli biondi, pettinati di lato, sembravano i filamenti dell’oro più raffinato. Luminosi e leggeri, si muovevano assecondando ogni sua movenza. Era qualcosa che rendeva soave la sua immagine così divina. La sua pelle candida, marmorea addirittura, assieme agli occhi chiarissimi, le conferivano un aspetto regale e delicato allo stesso tempo che spesso mi induceva a guardarla per ore senza nemmeno accorgermene. Ero estasiato da lei.
Negli ultimi tempi era cresciuta molto e nonostante avessimo solo dieci anni, entrambi sembravamo già degli adulti.
Lei era già molto alta e i suoi lineamenti sembravano sempre di più quelli di una donna.
Ancora di più quel giorno, in cui aveva indossato il suo abito più bello.
La vidi poggiare una mano sulla ringhiera e guardarmi.
Il suo vestito era lungo oltre le caviglie. Era di una tinta di viola scuro, abbastanza vistoso da farsi notare, nonostante si confondesse con il nero. Era diviso in balze, che cadevano dolci seguendo le sue curve. Le spalle erano lasciate scoperte e dei lunghi guanti bianchi la coprivano lungo tutte le braccia.
Infine troneggiava sul suo collo il suo prezioso collier nero, sul quale era incastonata la gemma di famiglia.
Né io né lei ce ne separavamo mai, sebbene lei fosse più solita indossala come spilla.
Notai che era persino un po’ truccata, non accadeva spesso in quel periodo.
Come già scritto, era stata tutto l’inverno chiusa in laboratorio, quindi vederla così raggiante fu una sorpresa per me.
Mi venne spontaneo sorriderle.
Mi sentivo così piccolo e comune vicino a lei.
Lei era magnifica. Era come il sole, che è il re delle stelle, le quali non potranno mai parificare il suo splendore. 
Passai una mano fra i capelli, sentendomi in disordine di fronte la sua bellezza, io che ero appena tornato da scuola e avevo preso tutto quel vento fuori.
Lei prese a scendere lungo la scalinata, non scostando gli occhi da me. Osservai ogni suo passo, incantato.
Quando mi fu abbastanza vicino, le volli esternare la mia contentezza nel vederla così elegante.
 
“Sei bellissima, Alexia.”
 
Non seppi dire altro, eppure quella parole furono le uniche che riuscirono a riassumere il mio pensiero.
Lei allargò debolmente le labbra, contenendosi visibilmente, ma io sapevo apprezzare i suoi lievi sorrisi.
Non tutti sapevano vedere i tenui gesti di Alexia.
Io invece potevo leggere nitidamente già nel suo sguardo se avesse gradito oppure no qualcosa, oppure quali fossero i suoi pensieri.
La nostra sincronia era qualcosa che ci accomunava fin dalla nascita. Una cosa di cui ero lieto ed onorato.
Ci rendeva unici e speciali.
Era qualcosa che andava oltre il legame di sangue o l’essere gemelli. Io e Alexia eravamo qualcosa di più profondo.
Mentre la osservavo, notai che lo sguardo di mia sorella scivolò da me a qualcun altro oltre le mie spalle. C’era qualcuno all’ingresso, quindi?
Fu dopo che mi accorsi, infatti, che il portone era socchiuso, e poggiato su di esso vi era un uomo alto vestito di nero.
Conoscevo quell’uomo.
La sua figura possente, severa ed arrogante non poteva passare inosservata, in nessun luogo, con nessuna persona. Nemmeno se si lavorava in un ambiente come ‘quello’, ove della gente non ci s’importa granché.
I suoi capelli biondi perfettamente tirati indietro e le lenti scure che non lasciavano mai vedere i suoi occhi, mettendo in risalto la sua ossatura robusta.
Egli era Albert Wesker, anche lui un ricercatore presso l’Umbrella Inc. . Cosa ci facesse a casa mia e cosa volesse da mia sorella, mi fece infuriare prima ancora di conoscere le sue intenzioni sulla sua venuta.
Lo vedevo come un nemico, era una persona pericolosa. Non mi piaceva.
Si poteva dire che lo odiassi.
Fu qualcosa a pelle, fin da quando lo vidi la prima volta.
Lui sembrò accorgersi del mio astio ed in tutta risposta, ebbi come la sensazione che mi sorridesse. Non con fare affettuoso, era ovvio. Ero certo sapesse che non lo sopportassi, si stava quindi solo divertendo, esercitando la sua autorevolezza con quel ghigno irritante.  
Corrucciai la fronte, non distogliendo lo sguardo da lui. Non m’importava di fare la figura della persona maleducata. Non mi avvicinai e non accennai cortesia per nessun motivo nei suoi riguardi.
Lui e gli altri scagnozzi di quel circolo del male, che non faceva che portare via dalla mia vita ciò che amavo.
Nonostante la mia evidente ostilità, tuttavia, dovetti sorbirmi la sconfortante immagine di Alexia che elegantissima si allontanava da me per affiancarsi a lui. La vidi passarmi accanto, fino a quando di lei non vidi solo le spalle che si intravedevano dai sottili capelli distesi sulla schiena.
Ella camminò soave, muovendosi sui tacchi come se galleggiasse su una nuvola.
Wesker le tese educatamente la mano, in un gesto che più che cortesia, sembrava affermare possessione. Era questo ciò che provai.
Alexia posò la sua candida mano sulla sua così grande e massiccia.
Mi fece un delicato cenno di saluto, al quale seguì anche quello di quell’uomo viscido vestito di nero.
Infine lasciarono il palazzo, dirigendosi chissà dove; non ne fui reso partecipe.
Il portone chiuso mi ricordò di essere solo.
La rabbia invase ancora di più il mio corpo.
Lo odiavo.
Odiavo lui.
Odiavo l’Umbrella.
Odiavo tutti.
Perché non facevano che portami via la mia Alexia?!
 

 
 
 
 
 
 
 
Claire fece una pausa. Cosa aveva appena letto?
‘Albert Wesker’ ….quindi Alfred lo conosceva?
Claire conosceva Wesker solo di nome, come capitano del team Alpha della STARS. Era inoltre lo stesso individuo losco che lei stessa aveva incontrato a Rockford Island recentemente.
Egli era un uomo duro e imponente. La sua aurea nera e il suo sguardo impietoso e dispotico erano un qualcosa che erano rimaste ben impresse nella sua mente. Alcuno avrebbe mai potuto dimenticare la crudeltà di uno spirito simile.
Chris le aveva parlato di lui, definendolo come una persona autorevole, ma che sapeva essere il caposaldo della sua squadra. Tuttavia, da quel che aveva avuto modo di costatare la ragazza, egli sembrava tutt’altro che una persona su cui contare. Si era subito rivelato un nemico dichiarando apertamente il suo desiderio di distruggere suo fratello.
Cosa era accaduto fra loro? Non aveva ancora avuto modo di scoprire nulla.
Inoltre, a quanto pareva dalle pagine di diario appena lette, doveva avere anche una sorta di doppia vita dato che, tornando indietro di ben diciassette anni, quell’uomo era già alle dipendenze della casa farmaceutica Umbrella.
Tenne dunque a mente quell’episodio, magari avrebbe potuto essere utile a suo fratello Chris, che stava indagando sul loro conto. (*)
La sua mente, una volta aver ragionato su quel nome familiare, tornò ad Alfred e a quell’episodio di cui aveva appena letto.
Immergersi nei pensieri del biondo Ashford stava inevitabilmente appagando il suo bisogno di conoscere, di capire.
Non era facile trovarsi nella sua posizione, dunque poter leggere direttamente i suoi pensieri, aneddoti della sua vita, paure, gioie, modo di elaborare situazioni, ect, rese l’esplorazione del suo mondo qualcosa di molto intimo e inequivocabile.
Leggendo le note appuntate in quelle pagine, il suo universo appariva normale, per nulla folle o meschino.
Fu qualcosa che la incuriosì ancora una volta: trovare la ‘normalità’ in Alfred, il suo essere una ‘persona’ dietro gli abomini che lo circondavano…era… affascinate e strano.
Sfogliando il suo diario, vedeva i normali pensieri di un ragazzo con difficoltà di socializzazione, dovuta sicuramente ad una spiccata intelligenza e maturità rispetto dei comuni decenni.
Piuttosto, l’idea di un piccolo genio chiuso in se stesso l’attirava. Era qualcosa che cambiava drasticamente il senso di una persona così controversa, invece.
Quegli stessi pensieri la rapirono anche quando lesse del suo corso di studi e del tipo di laurea perseguita.
Alfred dunque chi era davvero?
Un folle psicopatico innamorato del fantasma di una sorella che non esisteva, al livello di diventare pazzo?
Un uomo geniale, ma paranoico e ossessionato?
Una persona bisognosa di cure? Vittima di uno shock emotivo dal quale non riusciva ad uscire?
Oppure era solo uno scagnozzo dell’Umbrella, crudele e ripugnante come tutti?
Claire si rifiutava di catalogare una persona in quel modo così riduttivo. Oramai era ben chiaro nella sua mente: dietro Alfred e sua sorella gemella si nascondeva qualcosa. Nei limiti del suo potere e delle condizioni in cui verteva, voleva venirne a capo.
Sfogliò dunque le pagine seguenti e suo malgrado notò come il biondo fosse costretto da sempre a sopportare quell’infelice solitudine, lontano da qualcuno che adorava così profondamente.
Molte pagine erano relative a sfoghi personali circa Alexia immersa nel suo lavoro, cui lui non poteva approcciarsi per non disturbare le sue ricerche.
In quelle pagine sembrava molto arrabbiato e addolorato, eppure la adorava sempre, incondizionatamente.
Era la sua unica compagnia concreta in quell’isola.
Due bambini costretti a quella solitudine, inseriti in un contesto scientifico così deplorevole.
La loro condizione di vita, che li avrebbe condotti a diventare due gemelli psicopatici e violenti, cominciò a essere chiara nella sua mente.
Come avevano potuto condannarli a questo? Due ragazzini non possono essere cresciuti in tal modo, abbandonati a se stessi!
In questi casi, la ricchezza economica non serve a nulla se non c’è l’amore capace di dare valore alla vita.
Alfred e Alexia in questo senso avevano tutto, ma non avevano niente in termini di umanità…se non loro stessi.
La visione della morbosa unione di quei due fratelli era finalmente più nitida, ma sentiva che qualcos’altro le sfuggiva.
Incuriosita, decise quindi di continuare a leggere.
 
 

 
 
1981
Giugno
 
Sono tornato a casa carico di ansie e preoccupazioni.
Sono stato via tre giorni per occuparmi di una faccenda familiare per via dell’assenza di nostro padre.
Lui è impegnato con l’amministrazione del laboratorio di ricerche Artico, quindi qualsiasi cosa sono io che devo prendere le sue veci.
Quelli dell’Umbrella lo hanno chiamato qualche giorno fa per qualcosa…non ho capito bene cosa. L’ho visto solo sgattaiolare via durante la notte, non ha salutato né me né Alexia.
E’ stato deprimente dover costatare ancora una volta quanto gli importi di noi solo quando mia sorella ottiene buoni risultati in laboratorio. Sembra sia l’unica cosa gli interessi.
Ricordo ancora quando è entrato in camera mia e mi ha rivolto a stento la parola. Mi ha solo detto velocemente di sbrigare una commissione per lui, che avrei dovuto presiedere in una conferenza fuori da Rockfort come rappresentante della famiglia Ashford.
Sapevo di doverlo fare, l’assenza di un nome come il nostro avrebbe comportato equivoci catastrofici per i nostri affari.
In seguito è andato via, non preoccupandosi di fare un minimo cenno di saluto, e il giorno dopo è partito senza dire niente a nessuno.
L’ho trovato irritante mentre lo osservavo dalla finestra, nascosto dietro la tenda.
Non ha rispetto. Inoltre mi ha costretto a lasciare sola Alexia per tre giorni interi!
Lui ben sa quanto lei sia presa dalle ricerche e abbia bisogno di me.
Mio padre è così fiducioso delle capacità di Alexia da non accorgersi nemmeno delle pressioni che le sta facendo.
Lei è sempre immersa nelle sue ricerche e comincio anche io ad essere preoccupato per lei. Lui invece sembra non importarsene nemmeno, anzi! Talvolta credo non si accorga nemmeno che esista.
Gli interessa solo quel diavolo di progetto, sono certo che è solo per questo che non fa che incoraggiare Alexia.
E’ orgoglioso di lei solo perché è un grande egoista.
Riguardo me, mi sono accorto da tempo di non destargli interesse. Si ricorda del sottoscritto solo quando ha bisogno che qualcuno si occupi di un affare che lui non può curare, come uomo di casa.
Ci ho già fatto l’abitudine, in verità non ci ho mai sofferto. Ho altro su cui investire le mie preoccupazioni. Sono in pensiero per Alexia, è lei la persona che io devo proteggere.
Una ragazza con un intelletto simile è facile che soffra. Io lo so.
Conosco cose di lei che nessuno immagina.
Tutti la vedono come un piccolo genio inarrestabile, limitandosi ad una visione utilitaristica di lei; tuttavia solo io conosco la vera lei e so che ha bisogno di me.
Per questo quando sono sceso dalla nave, non facevo che pensarla. Non smisi un momento.
Avevo un brutto presentimento.
Attraversai il giardino in fretta e, quando aprii il portone d’ingresso, il silenzio sembrò quasi voler congelare il mio intero corpo.
Ad accogliermi non c’era nessuno.
Non sapevo cosa aspettarmi, non sapevo se si fosse semplicemente dimenticata di venire. Sapevo solo che non era da mia sorella non essere lì in quel momento.
Il legame che ci univa era qualcosa che alcuno avrebbe mai potuto comprendere, noi eravamo una stessa anima, non esisteva che fossimo separati o che l’uno dimenticasse dell’altra.
Lei ne passava tante e aveva molte responsabilità sulle sue spalle, eppure non si dimenticava mai di me. Mai.
Le volevo troppo bene per non pensare subito al peggio, così gettai le valige a terra e, senza riposarmi nemmeno un attimo, mi accinsi a cercarla.
Ovviamente il primo luogo dove controllai fu il laboratorio, ma non la trovai. La cosa che tuttavia mi fece gelare il sangue fu costatare che non era chiuso.
Solitamente, se dentro non c’era nessuno, le porte venivano rigorosamente chiuse a chiave per evitare incidenti di qualsiasi genere, rappresentando i delicati esperimenti da lei eseguiti.
Le luci questa volta erano invece accese, sul tavolo erano stati abbandonati dei composti ormai deteriorati, ma soprattutto c’era un gran puzzo di marcio. Era come se qualcuno avesse dimenticato di rassettare dopo un esperimento, o qualcosa del genere.
Alcuni alambicchi erano rovesciati e il loro contenuto aveva macchiato la pavimentazione.
Il cuore cominciò a battere forte. Che cosa aveva impedito ad Alexia di riordinare la stanza e chiuderla?
Non potevo negare di avere paura.
Lo sapevo che non dovevo lasciarla da sola!
Cercai quindi in lungo e in largo, partendo dai tipici luoghi da lei frequentati, fino a esaminare anche quelle stanze in cui non era solita andare.
La casa era esattamente come l’avevo lasciata, come se Alexia non si fosse mossa dal laboratorio per tutti e tre i giorni.
 
Alla fine la trovai.
Fu straziante per me vederla in quelle condizioni.
Ella era rannicchiata dentro uno stanzino. La porta era chiusa a chiave, ho dovuto insistere perché lei la aprisse.
La chiamai con dolcezza più volte, capendo che era lì dentro per via di una scarpetta abbandonata proprio lì di fronte.
Quando la vidi, dovetti trattenere la collera che in quel momento mandò in escandescenza la mia mente.
Lei non piangeva, non lo faceva mai, ma dai suoi occhi potevo vedere qualcosa di agghiacciante, come se qualcosa avesse devastato la sua mente tanto da annebbiare il suo sguardo intelligente e sagace.
In quel momento era solo una bambina triste, terrorizzata e sola.
Vedevo il suo corpo esile e pallido chiuso in se stesso; abbracciava le sue gambe sottili tenendo lo sguardo vago puntato nel vuoto più assoluto. Le sue iridi azzurre adesso mi sembravano grigie…spente.
I suoi capelli pallidi erano lisci eppure disordinati. Inondavano completamente il capo, coprendo il suo viso puerile eppure così freddo e disincantato.
Aveva addosso un vestitino bianco ed i suoi piedi erano nudi. Potevo vedere che il suo abito era macchiato, era lo stesso reagente chimico che avevo visto nel laboratorio, ne ero abbastanza certo.
Osservando meglio, tutta la sua figura era sporca di tale sostanza e polvere.
Cosa le era accaduto? Aveva fallito un qualche esperimento? Era ferita? Stava male?
Mi piegai verso di lei, ma avevo paura di toccarla. Avevo paura di farle del male.
La vedevo così fredda e rigida, non diceva una parola. In più l’avevo trovata chiusa dentro quello stanzino buio non sapendo nemmeno da quanto tempo fosse lì.
Era così sciupata che cominciai a tremare. Ero terrorizzato.
La chiamai, sperando che rispondesse alle mie domande prima che il mio cuore scoppiasse.
Stemmo l’uno davanti all’altro per diversi minuti, in silenzio. Non osavo farle domande, la vedevo così scossa e impietrita che non volevo turbarla ulteriormente.
Quando con tenerezza avvicinai la mia mano al suo viso, desiderando di alleviare le sue pene, mi sorpresi che fu lei stessa ad avvicinarsi a me.
Alexia avvicinò la sua guancia fredda e pallida alla mia mano tesa che l’aveva appena sfiorata, strofinandosi su essa con soavità e finezza.
Era bisognosa delle mie cure, me lo stava dicendo.
L’abbracciai forte, sperando di comunicarle il mio immenso affetto. Volevo che sapesse che le ero vicino, che ero lì per lei, che mai più l’avrei lasciata sola così a lungo.
Poche ore più tardi, l’accompagnai al bagno per aiutarla a ripulirsi.
La osservai mentre si svestiva. Era così magra e dall’aspetto cagionevole che sentivo il dovere di sorreggerla per paura che potesse cadere da un momento all’altro.
Quando lei si immerse nella vasca calda che le avevo preparato, capii che non voleva che io andassi via. Rimasi con lei dunque persino in quel momento.
Mi girai di spalle rispettando la sua privacy, mi sedetti sul bordo della vasca e aspettai che finisse.
Quel lungo momento non mi turbò per niente. Non ero seccato di farlo.
Sebbene il tenue scroscio dell’acqua che accarezzava il suo corpo fosse l’unico rumore presente nella stanza, a parte i nostri respiri, ero lieto che lei mi volesse accanto. Non mi infastidiva stare al suo fianco anche per ore intere, se lei ne aveva bisogno.
Quando ebbe finito, l’avvolsi in un lungo asciugamano morbido e tenuto al caldo sul termosifone, tenendo rigorosamente la testa rivolta oltre le sue spalle.
Non avrei mai osato osservarla con libidine, io semplicemente avrei fatto di tutto per lei, con l’amore che si rivolge a qualcuno che è tutto il suo mondo.
La aiutai a scendere e rimanemmo seduti sul divano per molto tempo.
 
Dopo, lei mi spiegò cosa era accaduto.
Come avevo dedotto, aveva fallito un esperimento.
E’ qualcosa che tutti gli scienziati affrontano, sapendo di dover impegnarsi per conseguire certi obbiettivi. Il fallimento fa parte della ricerca.
 
Questa realtà però non valeva per noi. Non noi Ashford.
L’eredità della nostra famiglia è più grande di quanto si pensi.
 
E’ quasi come una maledizione, che incombe su di noi imponendoci di mantenere il prestigio che ha reso nota la nostra famiglia.
Non ne ho mai parlato perché non mi è facile trovare le parole giuste per spiegarlo. Tuttavia questa è una realtà che accompagna la mia vita da sempre. Semplicemente…è sempre stato così.
Per me, mia sorella, mio padre, tutti.
Nostro nonno, il padre di nostro padre, il signor Edward Ashford, era un uomo nobile e rispettabile ed anche il co-fondatore dell’Umbrella inc. .
Egli è l’illustre uomo che ha ridato prestigio alla nostra casata, cimentandosi nell’impresa di costruire un impero di tale portata, equiparando il genio di colei che per noi è come una divinità. Parlo di Lady Veronica, la donna che ha reso celebre e conosciuta la famiglia Ashford.
Noi tutti proviamo grandissimo orgoglio per questo, tuttavia…ne consegue anche una grossa responsabilità.
L’onore e la gloria della nostra stirpe devono essere mantenute e accresciute.
E’ questo il compito di un Ashford.
Per molto tempo, circa dalla morte di nostro nonno, siamo stati lontani dal palco. In azienda nessuno parlava più di noi, limitandosi a etichettarci semplicemente come i co-fondatori, rievocando talvolta i successi che ci resero celebri e rispettati agli occhi dell’Umbrella.
La popolarità era ormai lontana da quei tempi leggendari e non ha più toccato la nostra famiglia per anni.
Questo ha fatto sentire noi tutti lontani dal regno che Edward aveva costruito per i suoi discendenti. Eravamo stati scacciati da un paradiso che nessuno riusciva più a tenere in piedi poiché distanti dall’ingegno e dalla genialità che caratterizzava i membri più illustri della famiglia.
Tutto ciò fin quando non è nata lei: Alexia.
Alexia aveva ridato agli Ashford quello che nessuno era riuscito a raggiungere da anni: l’onore di un tempo.
Eravamo tutti fieri di lei, io primo fra tutti che vedevo in mia sorella un genio eccezionale. Lei era motivo di orgoglio per me e per tutti.
L’Umbrella parlava di noi, eravamo di nuovo qualcuno.
La cosa meravigliosa era che Alexia riusciva ad ottenere successo senza alcuno sforzo. Era un talento rarissimo.
Le sue ricerche evolvevano in modo così naturale che sembrava essere al cospetto di un essere sovrannaturale, nessuno poteva equipararla.
Credo di aver sentito che molti cominciarono a nutrire invidia verso di lei, e di conseguenza anche verso l’intera famiglia Ashford.
La notizia è stata motivo di grande fierezza. Era l’inizio di una nuova e grande risalita.
Mia sorella si dimostrò così capace da terminare gli studi molto presto.
Si è laureata quest’anno, a soli dieci anni. Nessuno poteva credere a una cosa simile.
Sembra che nulla sia impossibile per lei sul piano intellettivo.
Divenne presto capo ricercatrice presso l’azienda farmaceutica, onorata da tutti per essere il membro più giovane e dotato.
Gli stessi sviluppi del Virus Tyrant, nelle sue mani, ha cominciato a conseguire le sperate svolte che alcuno da tempo era riuscito a ottenere.
Alexia aveva finalmente soppiantato quelle tremende dicerie che avevano dato ormai per vinta la nostra stirpe, limitandoci al nostro antico e oramai irraggiungibile splendore.
Tutto era cambiato grazie a lei.
Eravamo di nuovo la gloriosa famiglia Ashford.
 
C’era tuttavia qualcosa che pochi sapevano.
Qualcosa che solo io potevo vedere e comprendere, che nessuno sembrava anche solo ipotizzare.
Era una verità sotto gli occhi di tutti, eppure nessuno se ne rendeva conto.
La tremenda realtà dietro l’intelletto di mia sorella, che la rendeva unica e speciale.
Tuttavia a nessuno importava altro.
Alexia era il genio della famiglia e nulla più.
Questo perché nonostante la gloria che aveva finalmente investito di nuovo noi Ashford grazie a lei, la mia meravigliosa sorella era intrappolata in un baratro dal quale non sarebbe mai più uscita.
Una rara intelligenza che alla fine stava diventando una condanna.
La maledizione di noi Ashford.
Per via del tipo di studi conseguiti, ma soprattutto del suo tipo d’intelletto, per Alexia non fu mai facile stringere un qualsiasi rapporto con alcuno, ne avere un qualsiasi tipo di vita sociale.
Era difficile per me, che mi sentivo così distante dai comuni adolescenti, figuriamoci per lei: laureata e ricercatrice presso l’Umbrella alla sola età di dieci anni.
Era pressoché impossibile per mia sorella avere una vita normale, sia per le responsabilità che vertevano sulle sue spalle, sia per un’incapacità propria.
Lei era diversa da chiunque. Nessuno era mai al suo livello. Nessuno destava mai il suo interesse.
Tutti detestavano avere a che fare con una mente come la sua, difficile, ermetica, superiore.
Quelle rare volte che accadeva, dopo un po’ la vedevo isolarsi trovando disturbanti le minuscole formiche con cui era costretta ad avere a che fare.
‘Formiche’ erano come definiva lei stessa le persone comuni, quelle insulse presenze che non sono altro che ombre inanimate nel nostro mondo.
Tantissime, inutili, avvinghiate a una società di massa spregevole di fronte la regalità e la preziosità di una mente elevata come quella di Alexia.
Io ero una delle poche persone che potevano approcciarsi a lei.
Non le importava che io non fossi intelligente come lei; Alexia mi voleva bene e voleva che le fossi sempre accanto.
Io ero felice di questo.
Noi avevamo sempre condiviso tutto assieme. Ogni cosa aveva un senso se entrambi potevamo esserci l’uno per l’altra. Non conoscevo altra persona più simile a me e credo che anche per lei sia sempre stato lo stesso. Nonostante lei fosse così geniale rispetto a me.
Nonostante mi sentissi sempre secondo, nonostante a nessuno importasse di me, Alexia era l’unica che mi lodava e che notava le mie doti.
Non era nulla a suo confronto, ma rispetto un uomo comune sì. E lei lo sapeva e mi valorizzava.
Conosceva i miei successi, i miei progressi, i miei studi, le mie soddisfazioni, i miei pensieri più intimi.
Il mio vasto intelletto e la mia personalità interiore che raramente facevo fuoriuscire.
Noi due non conoscevamo solo noi stessi, ma le nostre anime. Eravamo qualcosa che alcuno avrebbe mai potuto comprendere.
Io non avevo amici, così come lei. Nessuno aveva mai destato il mio interesse o si era dimostrato voglioso di avere a che fare con una persona difficile come me, ne sono consapevole.
Entrambi vivevamo in quel mondo che non faceva che pretendere da persone come noi, senza vederci per quello che eravamo davvero.
Nessuno sembrava in grado di vedere le persone dietro quelle menti elevate.
Conoscevamo la triste realtà della solitudine e sapevamo quanto essere come noi era, in realtà, una maledizione.
Ero grato a quel fato che mi aveva fatto nascere con una persona così meravigliosa e simile a me. Senza Alexia la mia vita non avrebbe avuto senso. Sarei morto in questa devastante solitudine, attaccato da un genio che non potevo controllare e che mi avrebbe sempre mostrato crudelmente il mondo cinico e superficiale che in verità mi circondava, privandomi di qualsiasi incanto.
E’ questa la condanna delle persone intelligenti: un’infinita e agognate sofferenza.
Ma io avevo lei, ed ero felice.
A differenza mia, però, Alexia aveva un destino ancora più tortuoso: lei era la promessa della famiglia Ashford.
Lei era quella che ci avrebbe fatti risalire alla vetta, facendoci riappropriare della gloria di un tempo.
Era il suo destino.
Erano le sue doti che lo volevano e che pretendevano quel successo.
E così l’ossessione per la ricerca, mantenere un livello alto, ma soprattutto lo scopo di proseguire gli studi e arrivare a finalizzare un esperimento che avrebbe reso gloria alla famiglia, facendo echeggiare nella storia il nostro nome, divenne l’ossessione di noi tutti.
Di Alexia e di mio padre soprattutto.
Lui e Alexia passavano ore e ore in laboratorio. Mia sorella più di lui, rimanendovi rinchiusa spesso settimane intere.
La vedevo affliggersi ma perseverare in quello scopo. Non poteva arrendersi.
Studiava e sperimentava sempre, con costanza, mantenendo alto il livello del suo prestigio. Era all’altezza dell’appellativo “genio” che le era stato attribuito. Era una sua priorità quella di essere famosa per le sue doti e non per il suo nome.
Voleva raggiungere la vetta più alta. Lo desiderava morbosamente.
Una mente come la sua traeva nutrimento dalle sue scoperte, dall’ampliare le sue conoscenze e assaporare il successo.
Era come una droga, non poteva fermarsi.
Sprecare il suo ingegno e fallire credo sarebbe stata la tortura più crucciante per Alexia.
Io sapevo quanto il suo cuore fosse in tormento, quanto lentamente avrebbero pesato tali pressioni se non fosse riuscita nel suo intento.
L’ossessione della gloria della nostra famiglia la stava attaccando come un tumore oramai in metastasi. Pezzo dopo pezzo, il suo intero corpo e il suo universo stavano sprofondando in un baratro, cosa di cui nessuno si accorgeva.
O forse, peggio, volevano che fosse così. Volevano che lei uscisse trionfante da quel laboratorio.
Per questo odiavo quelli dell’Umbrella.
Li detestavo a morte.
Perché nessuno riusciva a vedere la persona che c’era dietro Alexia!
La persona che io conoscevo! Che io adoravo! Che loro stavano facendo ammalare e che non sapevo più come proteggere!
Lei era pur sempre una ragazzina di dieci anni! Possibile che nessuno provasse pena per lei? Possibile che volessero solo i risultati delle sue ricerche?
Non potevo crederci. Non potevo credere a tanta disumanità, persino da parte di mio padre che, al contrario, non faceva che spingerla oltre i suoi limiti.
Il problema era che per Alexia stessa sembrava non esistere più niente.
Era malata, aveva bisogno di quei risultati. Voleva riuscirci.
Il progetto T-Veronica virus era divenuto la sua ossessione.
La vedevo ogni giorno incupirsi sempre di più.
Avrei fatto qualsiasi cosa per aiutarla. Tuttavia potevo fare ben poco per lei…non avevo le sue stesse capacità. Ero inutile.
Potevo solo essere lì, ad abbracciarla, sorreggendola nei suoi momenti di abbandono emotivo.
Lei avrebbe sempre potuto contare su di me. Sempre.
Sarei stato accanto a lei in qualsiasi circostanza.
Non m’importava altro che la sua felicità.
 
Lei è tutto il mio mondo.

 
 
 
 
 
Claire guardò corrucciata quelle pagine di diario, sentendo vibrare nel suo corpo l’ardore del giovanissimo Alfred, già allora così maturo e adulto.
Si vedeva chiaramente dal suo modo di scrivere. Un normale ragazzino di dieci anni non avrebbe mai parlato e pensato in quel modo.
Come aveva immaginato, la sua era stata un’esistenza tortuosa, ricca di così tante sfumature che mai avrebbe potuto immaginare.
Sfogliò con il cuore che le batteva in petto, in empatia con i sentimenti che aveva letto, e fu sorpresa quando notò alcune pagine scritte come di fretta e furia.
La calligrafia era visibilmente la stessa, quindi era stato Alfred a scriverle. Eppure era un tratto più grande, affrettato, non allineato con le righe del quaderno.
 
 

 
 
1983
 
Non posso crederci…
Cosa diavolo significa?!
Alexia deve saperlo!
 
LO ODIO!
LO UCCIDERO’!!
Deve morire!!

 
 
 
 
La Redfield lesse quegli ultimi ricordi scribacchiati in modo disordinato, interdetta.
La carta era sgualcita, in alcuni tratti strappata.
Di chi stava parlando Alfred?Perché trapelava così tanta rabbia dietro quelle righe?
Cosa…era successo?
Rappresentando il clima che verteva sulla sua famiglia altolocata, alle dipendenze dell’Umbrella inc. , poteva trattarsi di qualsiasi cosa. Persino…la morte di Alexia, l’evento che doveva averlo fatto diventare pazzo.
La data la inquietò profondamente: 1983.
Aveva…solo dodici anni?
La cosa che la spaventava era la sincerità che poteva quasi vedere nitidamente attraverso quelle pochissime righe scritte con rabbia.
Era come se, pur non conoscendo la situazione che le aveva scaturite, potesse vedere il collegamento con le parole lette in precedenza. Come se una verità insostenibile fosse stata portata alla luce.
Quel qualcosa che gravava in modo indiscutibile su quel mondo corrotto e disumano, che a lungo andare lo aveva reso l’Alfred cupo ed instabile che era attualmente.
Adesso aveva chiara la situazione, Alfred era un uomo solo cresciuto nella follia, nutrito con principi assurdi e troppo pretenziosi per un ragazzino della sua età, trasformandosi infine in un uomo cinico e sofferente.
Accanto a lui, una sorella geniale e distante, che lui venerava poiché la perla che aveva ridato luce alla sua stirpe.
Una ragazza che era stata il punto di riferimento di una vita tortuosa e dimenticata come la sua, che lo aveva condannato dalla nascita donandogli una mente incapace di essere leggera e fanciullesca. Questo già di suo l’aveva reso una persona complicata, che avrebbe sofferto nella vita.
Ma il destino aveva posto rimedio a tale supplizio, donandogli una gemella.
Tuttavia così lui aveva sviluppato un morboso attaccamento che lo aveva reso incapace di vivere senza di lei.
Perdendo quel poco di buono che aveva con la scomparsa di quest’ultima, era nel naturale corso degli eventi il declino della sua mente e la follia cui poi si sarebbe aggrappato.
Claire aveva da tempo compreso quella triste realtà, tuttavia leggere concretamente quei pensieri aveva dato un valore più profondo a tutto ciò.
Sentiva di voler fare qualcosa per lui.
Si chiedeva ardentemente perchè Alfred fosse arrivato a tanta depravazione, a tanta cattiveria, al livello da rendere tutto il Centro di Rockfort Island un campo di concentramento, infliggendo torture inimmaginabili ai suoi prigionieri in virtù di quelle orribili ricerche sul virus T.
Quel mondo perverso lo aveva trasformato in un mostro malinconico e disperato; come tutti gli scagnozzi dell’Umbrella, anche lui alla fine era rimasto corrotto.
 
Claire non poteva certo sapere cosa, in realtà, aveva scatenato la follia e l’ira dei due gemelli, trasformandoli in quelli che erano ora.
 
La terribile verità dietro quella storia, ove tutto ciò che Alexia aveva sacrificato non era altro che la crudele macchinazione di un padre riluttante, che aveva visto in lei la sua rivalsa.
Le sue capacità, il suo tempo, il suo genio, la sua vita…
Lei era stata prodotta per essere così, per conseguire quello scopo.
Era stata sfruttata e indotta a sacrificare tutto pur di conseguire quelle ricerche, non diversamente da una bieca macchina da laboratorio.
Fu questo ciò che diede il colpo di grazia a quella ragazza, che divenne la crudele regina di quella tremenda storia.
Quel tradimento orribile segnò la vita dei due gemelli in modo indelebile, cambiando il corso della loro storia.
Nulla sarebbe più stato come prima.
 
Il sogno era stato infranto, una volta scoperta la realtà.
Loro stessi non sarebbero più stati gli stessi.
La prima, una mera creazione generata per soppiantare i fallimenti di una vita.
Il secondo, un banale errore.
Fu qualcosa che li marchiò crudelmente, facendoli sprofondare in un disprezzo verso quell’umanità così nera che aveva osato sfruttarli e oltraggiarli in quel modo.
 
….ma come accade quando per una vita intera si è abituati a vivere in un certo modo, i pilastri che ci hanno sempre sorretto non possono essere cancellati così…
 
Oramai quel mostro era stato creato e, nonostante la morte del suo creatore, non poteva più essere fermato………
La vendetta non fu sufficiente.
 
L’ossessione per lo sviluppo del Virus T aveva già devastato la vita dell’erede di lady Veronica, per la quale non rimaneva più niente se non la folle fissazione verso la creazione del Virus T-Veronica.
 
Non era più in suo potere tirarsi indietro.
Alexia non era in grado di rinunciare.
 
Lei stessa oramai bramava vincere quella battaglia e ottenere quel virus.
Continuò quindi le ricerche e lo fece anche a costo di sacrificare tutto, ancora una volta.
 
L’uomo un tempo conosciuto come loro padre fece da cavia per il suo ultimo esperimento, rivelando la chiave per raggiungere quell’ambito scopo dopo tanta ricerca.
Fu un esperimento inutile, ma che le fornì i dati necessari per raggiungere il traguardo.
Alla ragazza non rimaneva che fare un ultimo passo per completare quel progetto, sebbene conoscesse il peso che avrebbe gravato non solo su di lei...
Il problema è che non esisteva la possibilità di non farlo.
Lei era nata per questo.
Lei era Alexia Ashford.
 
Alfred era consapevole di ciò.
Anche lui sapeva quanto per Alexia sarebbe stato impossibile ormai abbandonare tutto, nonostante quell’orribile verità circa la loro nascita.
 
Odiava suo padre…
Odiava l’Umbrella…
Odiava tutti coloro che gli avevano fatto questo e che adesso gli stavano portando via la sua Alexia ancora una volta.
 
Però amava sua sorella e sapeva quanto fosse importante per lei.
 
Quindi la lasciò fare e le offrì il suo aiuto.
Perché il suo amore per lei era immenso…
 
Così grande che avrebbe accontentato anche quel suo ultimo, folle, egoistico desiderio.
Per la felicità della sua amata, anche lui avrebbe sacrificato ogni cosa.
 
 
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
- Lettera accartocciata –
 
In uno specchio è riflesso ciò che è concreto e tangibile. Uno specchio riflette esattamente quel che è davanti ai nostri occhi.
Se questo è vero… allora anche quel che io vedo è reale!
Alexia….ci sei tu dietro questo specchio?
Non vedo più il mio volto. Non vedo più me stesso in questa immagine specchiata. Di fronte a me vedo i tuoi occhi da Regina, il tuo sorriso dominatore, il tuo sguardo vittorioso, il tuo genio inaccessibile….
Quell’inconfondibile luce complice che solo l’uno negli occhi dell’altro può vedere.
Oh Alexia, mi manchi disperatamente…
Ma sopporterò. E’ solo per te che affronto questa incessante agonia.
Son lieto e onorato di donarti la mia vita.
 
-   … in attesa di te, mia amata sorella,
Alfred Ashford   -
(*Capitolo 1)
 
 
***
 
 
 
 
 
 
 
Claire trovò una lettera accartocciata in quelle pagine di diario.
Un amore eterno e devoto al quale lui aveva sacrificato tutta la sua vita.
Decise che poteva bastare indagare sulla sua infanzia.
Quell’agonia circa Alexia perdurava da quando era un ragazzino e quel pensiero la crucciava enormemente. Si chiese come fosse ormai ridotta una mente che aveva sofferto così a lungo, ma la risposta era ovvia.
Lei aveva visto l’Alfred Ashford adulto, di ventisette anni: un uomo dal passato glorioso, onorato di encomi e successi invidiabili, dotato di un notevole ingegno e capacità intellettive; tuttavia intrappolato nel vortice della pazzia, che lo aveva reso paranoico, schizofrenico, tirannico, sadico, depresso, malato…  e che lo aveva spinto a distruggere tutto.
Alexia aveva portato via con sé ogni cosa, riducendo Alfred a un pazzo ossessionato da una grandezza e una completezza che mai avrebbe raggiunto.
La famosa gloria degli Ashford, la maledizione di cui lui stesso aveva parlato.
Maestosità e Follia; Bellezza e Tormento; Ossessione, Psicopatia e Grandezza.
Questo contrasto di parole riassumeva Alfred in modo ormai incancellabile.
 
Ispirò profondamente prima di proseguire con le sue indagini e sbirciare finalmente le ultime pagine del diario, quelle in cui sperava fosse appuntato qualcosa circa la sua prigionia.
Era devastante per lei leggere tutte quelle pagine l’una dopo l’altra, ma era necessario per venire a capo di quella che era la sua realtà al momento.
Sfogliò quindi gli ultimi passi di quel raccoglitore di memorie, in modo da vedere se ci fosse qualche nota più recente, e fu incuriosita da una serie di pagine visibilmente tagliate.
Erano circa una decina e avevano creato uno spessore non indifferente. Si chiese come avesse fatto a non notarlo prima.
In corrispondenza di quelle pagine mancanti c’erano però un gran numero di fogli scritti.
Dunque, parte dell’ultimo racconto ivi annotato, era ancora presente nel diario. Non era stato tagliato via del tutto.
Si chiese che evento della sua vita fosse, visto che Alfred aveva deciso di censurarlo persino al suo stesso diario.
Sgranò gli occhi quando lesse Dicembre 1998, la data del corrente anno.
Scorse alcune parole, non potendo resistere nel far scorrere lo sguardo su quelle facciate; parole che in un attimo coinvolsero la sua mente, facendole cogliere al volo l’episodio di cui presto avrebbe letto:  jet’, ‘Rockfort’, ‘Claire’.
 
La Redfield rabbrividì.
 
Quelle pagine….parlavano di lei?
Della sua fuga da Rockfort Island assieme a Steve?
 
Le sue mani presero a tremare e, nonostante fosse ancora emotivamente coinvolta dall’oscuro e tormentato passato del giovane Alfred, cominciò a leggere senza battere ciglio.
Stava forse per scoprire finalmente cosa era accaduto quella notte? Cosa era successo nel frangente in cui era svenuta sul jet e poi si era risvegliata come Alexia?
Non era sicura di essere pronta psicologicamente a conoscere quella verità, ma soprattutto di saperla dagli occhi di una mente instabile e deviata come il biondo; ma quella era la sua opportunità ed oramai era in gioco.
Quelle pagine la riguardavano più di chiunque altro.
Doveva sapere.
 
 
***
 
 
 
 
Diario di Alfred Ashford
Umbrella Training Facility - Rockfort Island
Dicembre 1998
 
 
 
 
 
Un uomo correva per il lungo corridoio rivestito dal manto rosso del tappeto, il quale attenuava i suoi passi invece pesanti e frettolosi. La sua espressione, a tratti disperata, a tratti infuriata, deformava il suo volto etereo e raffinato, perduto nei meandri della pazzia di cui aveva appena toccato il fondo.
Il buio tetro della sua anima, in cui aveva segregato se stesso e i suoi ricordi, non era più riuscito a contenere la sua disperazione, e così i suoi tormenti mai guariti risalirono a galla, trascinando tutto in un vortice tortuoso e inaccessibile al resto del mondo.
Le ultime barriere che lo avevano protetto erano cadute in disgrazia, lasciando da solo quell’uomo dai capelli di platino, che barcollava nella sua stessa casa rivoltatasi contro di lui.
Non aveva più niente, ogni cosa era divenuta sua nemica.
Sentendosi solo e indifeso, non aveva più ragion d’essere per lui quel luogo che aveva ormai trasformato i suoi giorni in un incubo; così si affrettò, dirigendosi verso la sala comandi, pronto a mettere la parola fine a tutto questo.
Non ne poteva più di sopportare tanti abomini, tanta usurpazione, mortificazione, disonori.
Lui che era l’ultimo erede Ashford rimasto in vita, aveva il dovere di proteggere i suoi tesori, il suo regno, e piuttosto che vederlo sprofondare tra le grinfie di chi lo stata attaccando, preferiva vederlo morire per mano sua.
Rievocò nella sua mente le istruzioni imparate durante l’addestramento militare, pronto a far saltare in aria l’intero centro d’addestramento di Rockfort island.
Rievocò per un istante lo splendore del suo regno prima che venisse crudelmente e inaspettatamente attaccato.
Tutto era successo da quando era arrivata quella stupida Redfield, insinuatasi sul suo cammino, decisa a distruggere quello che lui aveva protetto da una vita.
Prima di quel momento, il centro d’addestramento era stato il teatro del suo più grandioso spettacolo di tortura e violenza che alcuno avrebbe mai saputo giostrare come lui.
Il suo regno macchiato di sangue aveva compiaciuto e allietato il suo padrone, colmando i suoi turbolenti sentimenti che divampavano nel suo cuore corrotto. Un fuoco minaccioso che non lo abbandonava in nessun istante, ma che grazie al tormento riusciva a lenire.
Sotto le mentite spoglie della sua adorata gemella perduta, Alfred aveva dominato quel luogo impregnato di follia.
Tuttavia la sua maschera era caduta, rivelando il suo doppiogioco, la doppia vita che lui tentava di emulare.
Non aveva quindi più ragion d’essere quella farsa. Era tempo che quel gioco finisse.
Il suo onore era stato leso.
Il suo cuore era stato spezzato.
Il suo gioco era stato scoperto e adesso che persino la sua Alexia era stata oltraggiata, non poteva più reggere quel peso.
Doveva chiudere il sipario.
Attivò dunque il sistema di auto-distruzione, pronto a portare nell’inferno tutto ciò che amava e che odiava al tempo stesso.
La sua casa, i suoi tesori, la sua vita, la sua carriera….ma anche i suoi nemici, che lo avevano sconfitto e umiliato!
 
“The self-destruction system is been activated.”
 
Dopo che l’allarme prese a lampeggiare, corse via dalla stanza, pronto a far conoscere il vero terrore a Steve e Claire, le due figure che avevano osato farlo arrivare a tal punto.
Aprì un passaggio segreto grazie a uno degli stemmi della sua famiglia e poté accedere all’aeroporto, dove il suo “gioiellino” l’avrebbe salvato dall’apocalisse ormai giunta.
Si trattava di uno Jaguar, un aereo militare inglese.
Come suggerisce il nome stesso, è stato scelto il termine “jaguar” in quanto rappresenta un sunto delle caratteristiche richieste alla macchina: un predatore temibile, capace di colpire con rapidità e con esiti letali. La macchina si presenta come un elegante monoplano bireattore, con ala alta, a freccia e prese d'aria rettangolari ai lati della fusoliera.
Infine la sua velocità di 1600 km/h in quota rendeva questo suo “gioiello” un alleato formidabile, che lo avrebbe condotto in poche ore nel luogo a lui più sacro.
 
Era arrivato il momento.
 
“Sto arrivando, sorellina.”
 
Sussurrò fra sé, dopodiché si mise alla guida, in fibrillazione per essere davvero in dirittura d’arrivo, a bordo di quell’aereo che poche volte aveva avuto l’opportunità di guidare.
Ricordava perfettamente le istruzioni e sapeva cosa fare, era pronto a partire.
Nessun timore lo gettava nel dubbio. Sentimenti più turbolenti e passionali lo guidavano, non gli importava null’altro che ricongiungersi con la sua amata metà. Doveva però prima di tutto distruggere quello che di sporco aveva lasciato.
Non avrebbe rimpianto Rockfort, era anzi abbastanza felice di vederla saltare in aria.
Era ora di cominciare l’ultimo atto, che avrebbe segnato la disfatta definitiva dei suoi nemici.
Avrebbe fatto assaporare agli spettatori il vero dolore, dimostrandogli chi era il personaggio di Alfred Ashford.
Mise quindi in moto il motore e partì.
Osservò il monitor e aggiustò le coordinate. Consultò anche il radar e fu allora che la sua sfrontatezza e la sua indole tirannica subì un’ulteriore scossa che gli fece perdere il controllo lì per lì.
Questo perché dal radar costatò che un altro dei sui velivoli era in volo. Si trattava del suo jet privato!
Cos…?
Quando era successo? Ma soprattutto, chi aveva osato rubarlo?
Non gli ci volle molto per capire di chi si trattasse, le sue formichine dovevano aver paura del fuoco molto più di quanto si aspettasse.
Erano corsi via aggrappandosi persino a quella tenue speranza di sopravvivenza e in qualche modo avevano ottenuto tutti gli stemmi della marina con i quali aveva pazientemente sigillato l’ingresso di quel jet.
Pazienza…avrebbe tardato di pochi istanti i suoi piani.
Li avrebbe distrutti ugualmente; sia la Redfield che quel prigioniero che l’accompagnava. Erano solo cambiate le modalità.
Si alzò dunque in quota, inseguendo il jet a bordo del quale i due ragazzi festeggiavano ignari la loro fuga disperata.
Velocemente, il puntino sul radar che indicava l’aereo a bordo del quale sedevano i due fuggiaschi si fece sempre più vicino finché non fu finalmente alla sua portata.
Il limpido e stellato cielo notturno fece da sfondo alla distruzione che stava per avvenire.
Il mare rifletteva sulla sua superficie i minuscoli eppure luminosissimi bagliori bianchi delle stelle, ai quali si accavallò l’immagine del jet che si innalzava, inseguito dal jaguar di Alfred.
Fu un attimo quello in cui quella momentanea pace fu bruscamente sostituita dal boato di un attacco missilistico.
Questo fece traballare l’aereo a bordo del quale erano situati Claire e Steve, tuttavia Alfred deviò di proposito la direzione del colpo, che non andò a centro per non abbattere il suo jet che intendeva recuperare. Volle solo provocare un sonoro frastuono, che disorientasse i due ragazzi e li facesse ‘danzare’ un po’. Trovò la cosa esilarante.
Osservò il fuoco del suo colpo illuminare d’arancione porzione del cielo. Fu uno spettacolo meraviglioso da guardare, distruttivo e affascinante.
Tornò a osservare il jet e, annoiato di stare a darvi la caccia, decise che era arrivato il momento di rendere quelle danze più interessanti, ma soprattutto proficue.
Pigiò dunque un tasto, che gli permise di prendere il controllo a distanza del veicolo e si divertì a farlo deviare nelle più svariate direzioni; godeva nell’immaginare l’intrepida Claire in balia della paura, nell’inconsapevolezza di ciò che stesse accadendo.
 
“La tua fuga è fallita, Redfield. Dovrai fartene una ragione.”
 
Disse, dopodiché pilotò il jet in direzione della terra ferma, imponendogli un brusco atterraggio che certamente avrebbe insegnato alla sua nemica cosa significava cercare di invadere il suo territorio.
Nessuno avrebbe mai potuto dominare nel suo regno! Era lui il Re!
L’impatto fu terribile.
Per un attimo Alfred temette di essersi lasciato prendere troppo la mano e di aver così distrutto il suo stesso veicolo.
Un gran fumo s’innalzò avvolgendo l’aereo in una coltre di terra che impiegò diversi minuti prima di dissiparsi. Ormai però il jet sembrava essersi fermato, aveva quindi raggiunto il suo scopo.
Non rimaneva che atterrare lui stesso, in modo da sferrare il colpo di grazia.
Trovò un posto adatto per scendere a terra, in seguito imbracciò il suo fucile da caccia e lasciò l’aereo militare per dirigersi verso il jet.
Giunto davanti ad esso, tirò con veemenza lo sportello d’apertura ed entrò, dirigendosi impetuoso all’interno.
La terra innalzatasi dopo l’impatto impregnava ancora l’aria, rendendola densa e irrespirabile.
Il biondo dovette avvolgere il braccio sulla bocca in modo da non finire in balia degli attacchi di tosse.
La visuale non era ottimale, tutto sembrava annebbiato; fortunatamente, però, lui conosceva l’aereo come le sue tasche quindi potette muoversi al suo interno senza particolari intoppi.
Quando giunse nella sala comando, tra la coltre di fumo che anneriva la stanza, distinse i macchinari ancora accesi, i cui schermi lampeggiavano ininterrottamente andati oramai in corto circuito.
Il vetro del parabrezza era frantumato, un grosso sfregio percorreva, infatti, la sua superficie su buona porzione di esso. Infine vari utensili erano cascati a terra, ai quali si affiancavano proiettili e alcune armi da fuoco, probabilmente appartenenti all’arsenale dei suoi due prigionieri.
Accasciato sul posto di comando, giaceva inerme il giovane dai capelli castani.
Il prigioniero numero 0267, lesse dalla sua giacca. Lo riconobbe immediatamente, egli era il figlio di quell’ipocrita del dottor Burnside, che per fare quattro soldi aveva venduto le informazioni sull’Umbrella pensando di poterla fare franca.
Non solo lui, ma tutta la sua famiglia era stata punita e imprigionata a Rockford, un atto che fu fatto per dimostrare ancora una volta l’autorevolezza dell’Umbrella e la fine che si faceva nel tradire i suoi principi di Disciplina, Unità, Potere.
Era certo che fosse stato sottoposto al T-Virus anche il figlio…evidentemente era riuscito a scappare quando avevano attaccato l’isola. Un bel colpo di fortuna, ma non aveva che allungato di poco la sua vita ormai segnata da un destino dal quale non sarebbe mai scappato.
Egli era ricoperto di polvere e sembrava aver riportato alcune ferite alla testa, ma Alfred non si curò affatto di lui; non era Steve la sua vera preda.
Fra i vari detriti che scricchiolavano sotto i suoi piedi, finalmente si ritrovò dinanzi alla figura distesa della rossa Redfield, la quale giaceva immobile a terra, con la schiena premuta contro la parete.
L’esplosione aveva affumicato parte del suo viso, che tuttavia rimaneva comunque roseo e delicato sebbene quell’orribile sporco sulle sue guance e sui vestiti.
I capelli fulvi inondavano il suo viso, scomponendosi sulla sua fronte. Il codino dietro la sua nuca scivolava sul suo collo reclinato in avanti. Il resto del corpo era graffiato per via di quell’impatto appena avvenuto. Dalla sua posizione, il biondo dedusse che dovesse essere caduta all’indietro e aver perso i sensi dopo aver sbattuto la testa.
Fu leggermente deluso di ritrovare i corpi dei due ragazzi in quello stato, avrebbe desiderato ucciderli con le sue mani!
Invece…erano morti così…! Che delusione.
Corrucciò le sopraciglia, accigliato, in seguitò si piegò all’altezza di Claire osservandola insistentemente, come un ragazzino che non può sopportare di aver perso il suo compagno di giochi.
Sollevò il suo mento con la canna del fucile, rivolgendolo verso di sé.
 
Quel che accadde in quel singolo istante, non fu esattamente chiaro neppure per lui.
 
Qualcosa tuttavia avvenne, catapultando l’altolocato e squilibrato Ashford nel suo contorto mondo segnato dalla solitudine e dalla follia.
Gli occhi di quella donna chiusi dolcemente trafissero l’animo devastato di quell’uomo che non conosceva che il dolore nella sua vita fatta di sacrifici.
Non seppe dire cosa stesse succedendo nella sua mente, seppe soltanto che nel momento in cui il suo volto s’incrociò con quello assopito di Claire, qualcosa mutò.
Il suo cuore prese a battere incessantemente.
Era forse il successo della sua impresa? La sua vendetta conclusa? Era invece incerto sulla costatazione di quella morte?
Oppure…era semplicemente paura.
 
La paura di vedere il volto di un altro essere umano.
 
Il timore di non saper gestire i propri sentimenti, le proprie ansie, i propri turbamenti.
Paura che qualcosa potesse violare il suo universo equilibrato in modo precario, ove spesso ogni cosa vacillava.
Quel viso rappresentata per Alfred l’incontro con un universo diverso, distante dal suo. Un mondo dal quale lui si era sempre tenuto alla larga, distaccato ormai in modo irreversibile da quella realtà così diversa da quella che lui conosceva.
Lui che era cresciuto in quei bui e tetri castelli, negli angusti e inumani laboratori dell’Umbrella, non sapeva cosa si celasse dietro un altro viso umano.
La giovane Claire, completamente estranea a tutto ciò che invece aveva caratterizzato la sua vita, si era insinuata nel suo territorio gettando nel caos il suo universo costruito pezzo su pezzo, nel quale non c’era spazio se non per lui e la sua amata sorella Alexia.
La Redfield aveva contrastato le avversità cui lui l’aveva sottoposta, aveva lottato contro di lui e il suo mondo, portando alla luce vecchi dolori che in verità non l’avevano mai abbandonato.
Lui aveva abbracciato quella battaglia e aveva fatto di tutto per fargliela pagare. Questo per onorare la gloria degli Ashford e la sua missione.
Tuttavia, nel suo intimo, c’era qualcosa di più profondo che la ragazza aveva toccato.
Si trattava di una parte così nascosta, invalicata da sempre, chiusa ermeticamente non solo al mondo ma persino a se stesso.
Una porta segreta, abbandonata nei meandri dei suoi tormenti, che aveva fatto nascere in lui il rifiuto verso ogni cosa non riguardasse il suo universo che ruotava attorno alla sua famiglia, conducendolo alla pazzia.
Tuttavia, dietro quello spiraglio, egli aveva sempre agognato conoscere quel mondo che invece gli era stato negato.
Quel mondo dove la sua solitudine forse sarebbe stata lenita.
Sottoposto a quindici anni di reclusione, quella ferita non aveva fatto che allargarsi sempre di più, in onore a quei principi e quei doveri che da sempre avevano mosso la sua vita.
Lui era incapace di lasciare il suo credo, di tirare quell’ancora arpionata in quel mondo devastato dalla crudeltà e dalla menzogna.
Claire rappresentava un mondo da lui mai conosciuto. Un mondo da cui si era sempre tenuto lontano. Un mondo che aveva ferito lui e chi amava.
Un mondo però che lo richiamava.
Chiuso nel suo tetro castello, non aveva mai più visto anima viva.
Nessuno aveva mai osato invadere la sua proprietà o metter in discussione la sua supremazia, in quello che era il regno che dominava.
Claire aveva girovagato, invece, nel suo losco e intimo mondo corrotto, percorrendo senza saperlo quei meandri a lui così cari ma così maledetti.
Questo perché l’universo di Alfred Ashford rappresentava da tempo la sua ancora, ma anche la sua follia.
Quando vide quella giovane così diversa dal suo concetto di femminilità ed eleganza solcare il portone della sua residenza, aveva osservato ogni suo movimento, cimentandosi nel comprendere quella “formica” infinitamente piccola rispetto a lui, eppure abbastanza grande da destare la sua curiosità.
L’analizzò infastidito nel vederla muoversi liberamente nella sua proprietà, eppure bramava osservarla, capire chi fosse, come un animale cresciuto in cattività che non ha mai visto né conosciuto i suoi simili.
Claire rappresentava questo per lui.
Lei non era dell’Umbrella, né qualcuno che appartenesse al mondo da lui conosciuto.
Era solo un’innocua prigioniera, intrappolata nel suo palazzo di perversione e follia, che lui dominava nell’attesa del risveglio della sua amata Alexia, l’unica persona che dava valore alla sua esistenza.
Qualcosa di lei destò quindi il suo interesse, per questo ci impiegò un po’ prima di mostrarsi e rivelarsi come suo nemico.
In seguito, la Redfield era divenuta sempre di più una spina nel fianco, contrastando i suoi piani e dandogli più filo da torcere di quanto avrebbe immaginato.
I suoi sentimenti viscerali cominciarono a mutare e da curiosità, passo presto all’odio, al risentimento. Questo finché la sua permanenza nella residenza Ashford non divenne più un gioco e cominciò lui stesso a muovere tutte le sue pedine, infastidito da quell’invasione di territorio.
Intanto ella diveniva un tarlo sempre più perenne, insinuandosi nella sua vita e nella sua mente in modo inarrestabile.
Non si accorse nemmeno di come tutto ciò potesse essere accaduto.
Sapeva soltanto che tutto ad un tratto Claire era diventata il simbolo dei suoi guai e che voleva eliminarla, a ogni costo.
Qualcosa di lei lo angosciava profondamente.
Non aveva fatto i conti tuttavia con quello che era stato chiuso nel suo cuore e che mai nessuno era riuscito a toccare.
Quel qualcosa che era stato segregato dentro di lui e che si era rifiutato di ammettere a se stesso, prediligendo il martirio piuttosto che la sua accettazione.
Si trattava del senso di abbandono che in verità aveva devastato il suo animo molto più di quanto sapesse, facendolo aggrappare persino a quella presenza che disturbava i suoi giorni.
Claire divenne quella compagnia che illuminava, in modo complesso e controverso, quell’estenuante attesa che lo aveva fatto sprofondare nella fosca marea dell’emarginazione; i suoi giorni distrutti da quindici anni, la solitudine incolmabile che aveva accompagnato la sua tetra esistenza.
Possibile che Claire, da inutile e squallida ragazzina comune, avesse riacceso qualcosa dentro di lui?
Tuttavia lui viveva per Alexia. Bastava lei a dare un senso nella sua vita!
Per lei avrebbe affrontato qualsiasi ostacolo, ora e per sempre!
Cosa quindi gli mancava effettivamente?
Cosa aveva visto nel viso di Claire, che lo aveva rapito a tal punto da mandare in tilt la sua mente fino a portare allo scoperto quelle ferite nascoste, ma mai cicatrizzate?
Quel qualcosa che aveva nascosto e che aveva impedito al suo cuore di rivelare….
I suoi occhi languidi e vitrei si corrucciarono, mentre la canna del fucile sorreggeva ancora il mento di Claire.
Egli la guardò interrogandosi tacitamente su quel qualcosa di oscuro che nemmeno lui conosceva, o piuttosto che era restio a rivendicare.
Sapeva solo di sentirsi turbato, avvilito… desiderava quel contatto umano che mai aveva appagato da quindici anni.
Quindici anni di devota servitù, rinuncia, verso tutto ciò che non compiaceva o non contribuiva allo sviluppo delle ricerche della sua preziosa metà.
Il viso di Claire scivolò dalla sua canna, e a quel punto fu Alfred stesso a sorreggere il suo capo, non potendo distaccare i suoi occhi da lei.
In quel momento, mentre toccava la sua morbida pelle macchiata dalla polvere, il suo calore si propagò anche dentro di lui dando una tacita risposta a quel senso di smarrimento che agitava il suo animo.
Poi…
….Sentì pulsare le sue vene.
Avvertì il suo respiro soffiare sulla sua mano, riscaldandola con il suo fiato debole ma percettibile.
Vide le sue palpebre socchiudersi per poi serrarsi l’istante dopo, mostrando in un frangente i suoi luminosi occhi blu.
Claire era…viva?!
Viva!
Era stranamente…felice?
Alfred emise una sonora risata, che echeggiò per tutto l’aeroplano. Prima di soppiatto, poi si fece sempre più esuberante e raccapricciante.
Che cosa esprimesse quell’incomprensibile contentezza, era impossibile stabilirlo. Il suo sogghigno risuonava sadico, maligno, eppure sincero…
Egli avvolse volentieri le sue braccia attorno alla giovane, sollevandola da terra e portandola con sé.
Aveva deciso di farle l’immenso onore di mostrarle gli abissi più profondi di quell’incubo in cui entrambi, per motivi diversi, erano precipitati.
Il suo oscuro e meraviglioso mondo, ancora celato al resto dell’umanità e di cui lei presto avrebbe avuto l’anteprima.
Questo perché sì…aveva deciso di portarla in Antartide con sé.
Nei laboratori Artici dell’Umbrella, dove giaceva la sua amata e geniale sorella…
Lei, quella minuscola e insignificante formica, avrebbe avuto l’onore di vedere sorgere la sua Dea, la sua unica e magnifica dama, che presto si sarebbe sopraelevata al genere umano ristabilendo l’ordine di quel pazzo mondo!
Si riferiva al progetto Code: Veronica, cui lui aveva dato il suo grande contributo, onorandosi di aver protetto la somma Alexia. Un decoro così alto che lo inorgogliva e che rendeva la sua estenuante attesa il compito più importante della sua vita.
Claire non sapeva cosa avrebbe assistito, in che storia si fosse realmente immischiata, ma in un certo senso aveva insistito per assistere a quel trionfo.
Lui l’avrebbe accontentata. Avrebbe avuto la sua bella compagnia, in attesa di quel momento.
L’emozione cominciò a battergli in petto, facendolo sentire inquieto eppure elettrizzato.
Qualcosa lo entusiasmava nel sorreggere fra le braccia quella sporca ragazza così dissimile dal suo mondo, dai suoi progetti, dal suo credo, dal concetto di grandiosità e bellezza.
Lei era un’infima donna, priva d’importanza. Eppure era compiaciuto di averla con sé in quel momento.
 
Alfred tuttavia non conosceva ancora il potere reale della solitudine cui era stato sottoposto.
Un potere così grande che alla fine aveva fatto collassare ogni cosa, facendolo aggrappare disperatamente a qualsiasi cosa pur di non sprofondare.
Una presenza reale, materiale, fisica, stava per fare crollare ancora una volta le sue certezze, mostrandogli in modo spietato il mondo contorto in cui lui si era segregato e nel quale non avrebbe mai trovato una felicitò tangibile.
Toccare con mano quello che da sempre gli era stato negato e sottratto, avrebbe fatto sprofondare la sua mente in un terribile baratro dal quale non sarebbe più uscito.
La dolce e piccola Claire aveva avuto questo potere: risvegliare in lui quel profondo dolore, circa l’abbandono di sua sorella e la rinuncia alla vita.
Quello che accadde dopo, non fu che la conseguenza di una vita fatta di martirio e sacrifici, nutrita da crudeltà e menzogna.
Cose cui si affiancava la mancanza di quel qualcosa di concreto che gli mancava profondamente, seppur lo negasse con tutto se stesso: compagnia, affetto, amore.
Più osservava quindi il viso della sua nemica, più quell’infinito dolore veniva parzialmente lenito…e quel ‘qualcosa’ che accompagnava i suoi angusti giorni lentamente si scioglieva, inesorabile…
 
Tutto ciò accade, che lui lo volesse o meno.
Per quanto si aggrappasse ad Alexia, oppure no……………
 
 
***
 
 
Claire Redfield interruppe la lettura per un istante.
 
“Antartide…? Sono in…Antartide?”
 
Erano tante le parole appena lette che avevano mandato in panne la sua mente, le ci volle un po’ per riuscire a focalizzare le sue attenzioni.
Tuttavia, nell’indecisione di quel momento, decise di continuare a leggere.
Questo mentre il suo viso si faceva sempre più cupo e sconcertato.
Stava per toccare un tassello molto profondo di quell’uomo mentecatto, se ne era ormai resa conto. Stava per conoscere a cosa poteva arrivare la follia e cosa ci fosse stato in realtà dietro quell’ambiguo gioco di ruoli raccapricciante di cui aveva fatto parte.
Solo non sapeva fino a che punto avrebbe dovuto sapere, ma soprattutto, fino a quanto la sua mente avrebbe retto.
 
 
***
 
 
 
Diario di Alfred Ashford…
Continua…
 
 
 
 
La notte fredda e umida accompagnava il biondo ragazzo erede degli Ashford lungo il tragitto silenzioso e solenne che lo stava portando nel luogo dove era sigillata la sua Regina.
Il viaggio verso l’Antartide fu sereno e quieto, Alfred potette disporre del pilota automatico per arrivare a destinazione, sebbene non riuscisse a rilassarsi in nessun modo; nella sua mente non c’era spazio se non per il suo imminente ritorno in quei laboratori, custodi di memorie per lui incancellabili.
Ricordi belli, tristi, riluttanti, persino dolorosi e atroci…il Centro di Ricerche Artico aveva segnato tante cose per lui.
Esso era il luogo che, a un certo punto della sua vita, aveva segnato alcuni momenti fondamentali, che avrebbero determinato quello che sia lui che Alexia sarebbero stati in futuro. Fu in quel luogo che divenne un uomo, abbracciando la sua croce e vivendo per uno scopo.
In quel luogo i suoi sogni, le sue certezze, i suoi affetti, tutto era precipitato, distruggendosi fino a disintegrarsi. Lasciando in piedi un solo, ma fondamentale pilastro: ancora una volta Alexia, l’unica persona che avesse accanto, l’unico immenso amore che non lo avrebbe mai tradito.
Eppure fu costretto a separarsi persino da lei, per permetterle di avverare quel suo sogno.
Nella mente già fragile di quel ragazzo, a quel tempo appena decenne, si aprì una voragine che lo costrinse a crescere ancora più velocemente.
Egli già non aveva mai vissuto la vita di un bambino, eppure il destino non sembrava ancora soddisfatto.
Pretese da Alfred che si separasse da colei che era la più preziosa per lui, non facendo che addizionare sofferenza ad altra sofferenza, in quel baratro che si faceva sempre più nero.
Alfred però non crollò.
Dentro di lui qualcosa moriva giorno dopo giorno. Il suo animo si sbriciolava, cadendo pezzo dopo pezzo, riducendolo ad un uomo dimenticato e logorato.
Eppure lui rimase in piedi, per quindici anni, sorretto da quell’amore immenso, l’unico che avesse mai provato.
La vita gli aveva fatto un dono immenso, quello di farlo nascere accanto ad un’anima affine e gloriosa come sua sorella gemella. Egli avrebbe quindi sorretto quel peso, in quanto a sorreggere lui c’era qualcosa di grandioso e immenso.
Dietro di lui c’era Alexia, la cui forza teneva in piedi quel sacrificio, permettendogli di affrontare le avversità che sapeva sarebbe andato in contro.
Per avversità ovviamente non intendeva il vivere da solo…ma qualcosa di molto più profondo: intendeva le tortuose sofferenze cui si sarebbe imbattuto nell’essere privato di una parte di sé.
Alexia non era soltanto una sorella, non era solo un’anima affine; lei era lui. Loro erano uno stesso corpo diviso in due. Loro…erano l’uno parte dell’altro.
Con la mancanza di uno di loro, nessuno dei due sarebbe mai stato completo, ed Alfred era consapevole che quella sarebbe stata la prova più ardua.
Vivere senza una parte di se stesso.
 
Egli rivolse lo sguardo verso Claire Redfield, accomodata sul sedile posto accanto al suo.
Aveva reclinato la poltrona per permetterle una posizione sdraiata, in modo da lasciarla riposare comodamente.
Per evitare che si svegliasse, aveva deciso di addormentarla chimicamente. Aveva un armadietto dei medicinali sul jet e così aveva adoperato del cloroformio in modo da passare quelle lunghe ore da solo con lei senza che la ragazza si ribellasse.
Lei non avrebbe mai accettato di fare quel viaggio senza lottare, aveva avuto modo di conoscere il suo carattere troppo tenace e ribelle per i suoi gusti. Inoltre non gli dispiaceva il silenzio che aveva accompagnato quel viaggio oramai quasi terminato.
Affacciandosi, cominciava a riconoscere il paesaggio innevato e rigido di quella parte del mondo, ciò significava che si trattava solo di una questione di minuti prima di vedere il laboratorio di ricerche.
I suoi occhi cristallini tornarono su Claire e sul suo viso addormentato.
Vederla faceva agitare qualcosa nel suo animo, ma lui cercò di non badarci. Sentiva dentro di sé il desiderio di toccarla, di sentirla, di conoscere quel calore umano che lei emanava anche svenuta.
Eppure non osava muovere un solo dito verso di lei, fermato da un timore con cui non aveva avuto il tempo di abituarsi. Quella paura che si scaturisce quando non si è abituati a qualcosa e il nostro intero corpo si irrigidisce, incapace di superare quell’ostacolo emotivo.
In questo modo, Alfred si ritrovò a desiderare e rifiutare tali impulsi, agognando un affetto tangibile che, per quanto lui appagasse con il ricordo del suo amore eterno che presto o tardi avrebbe riabbracciato, rimaneva qualcosa di evanescente.
Eppure ai suoi occhi era più irraggiungibile quella donna accanto a lui, che non la sua Alexia che, seppur rarefatta, risiedeva nel suo cuore in modo così stabile da non essersene mai andata.
Alexia aveva imprigionato il suo cuore, impedendogli di vedere altro.
Scorgere quindi nuovi orizzonti al di fuori di quelle certezze era già abbastanza per lui, che non voleva tradire l’amore di colei che stava proteggendo.
Eppure continuava a guardare la ragazza dai capelli rossi, contemplando i suoi tratti così dissimili dalla raffinatezza di Alexia; il suo corpo allenato, non esile e leggero come quello della donna che lui riveriva e che aveva formato il suo concetto di Donna.
Claire era invece tonica, muscolosa, atletica, sebbene longilinea e snella. Era vestita inoltre in modo per niente femminile, lui che era abituato a una certa etichetta, ad abiti eleganti e sontuosi.
Aveva addosso, infatti, una giacca di pelle rossa a giro maniche e dei jeans; già il fatto che portasse i pantaloni la rendeva un maschiaccio ai suoi occhi.
Tuttavia in qualche qual modo comunque la trovava sensuale, era un qualcosa che lui stesso riteneva strano non concependo altro modo di vedere il mondo e le persone al di fuori di lui e Alexia.
Eppure la Redfield destava la sua curiosità, ed era proprio questo che lo tormentava fino a gettare nel buio il suo spirito.
 
Il comandante Ashford fece atterrare il jet sulla pista. Il portellone si aprì dall’alto, permettendogli di planare fino a far scendere a terra il pesante veicolo, entrò così finalmente all’interno dell’edificio.
I rombi del motore si propagarono assordanti nel vuoto locale abbandonato, costituito da quattro facciate di alluminio freddo.
Alfred attese che tutto fosse in ordine e che ogni operazione fosse ben eseguita prima di alzarsi dal posto di guida.
Guardò un’ultima volta quel luogo desolato dalla vetrata dell’aereo, realizzando nella sua mente di essere veramente lì, dopo così tanto tempo.
Il jet in qualche modo rappresentava ancora un punto di passaggio fra Rockfort Island e il Centro di Ricerche Artico. Solcare la sua porta significava fare il passo decisivo e entrare per davvero lì, nel luogo dove Lei lo attendeva.
Mille emozioni passavano per il suo cuore logorato, stanco, eppure ancora così determinato; ma volle concedersi quell’attimo di respiro prima di iniziare i preparativi ed immergesi in quella dimensione in verità a lui più ostica di quanto sembri.
Come già detto…Alfred odiava quel luogo.
Lo odiava con tutto se stesso.
Eppure era lì che riposava la sua Alexia.
Un dualismo che non poteva che dividere il suo cuore in due perfette metà.
Sospirò, rilassando il capo sullo schienale della poltrona di guida, in seguito indossò di nuovo la sua maschera da comandante, pronto a iniziare la sua battaglia quotidiana.
Girò lo sguardo nuovamente verso la Redfield, stavolta non dando minimamente ascolto ai suoi turbamenti interiori; la caricò sulle spalle e portò con sé soltanto il fucile e le numerose chiavi che gli sarebbero servite per accedere nella sua residenza privata, che aveva fatto costruire proprio in occasione della sua venuta in quei laboratori.
In verità, le residenze erano ben due, una ‘vera’ e una ‘falsa’.
Percorrendo un gran numero di corridoi e giungendo all’ascensore, qualsiasi visitatore ficcanaso si sarebbe prima o poi imbattuto nel magistrale portone di legno massiccio, oltre il quale una riproduzione della sua casa di Rockford apparentemente troneggiava sul posto.
Una visione apparente, come specificato, in quanto anche solo solcando l’ingresso chiunque si sarebbe accorto che quel luogo non era che il mascheramento di un’ala del centro di ricerche.
Un luogo costruito dalla sua famiglia per permettere lo sviluppo indisturbato dei propri progetti. Si trattava di qualcosa che era stato precluso persino ad Alfred e Alexia in età giovanile, la cui scoperta cambiò drasticamente la loro esistenza già devastata.
Nei meandri di quel posto erano custoditi segreti e macchinazioni che nessuno aveva avuto il privilegio, oppure la condanna, di conoscere.
Alfred conosceva bene il peso delle sue parole e la dannazione eterna che si sarebbe scaturita in seguito.
L’inquietudine che provò allora, l’odio che pulsava ancora nelle sue vene, era rimasto invariato in tutti quei lunghi e tortuosi anni; non avrebbe mai dimenticato gli orrori visti, non avrebbe mai perdonato quello che aveva subito!
 
Un…errore….
Era così che quel lurido, inutile, riluttante uomo l’aveva chiamato.
 
Solo questo era riuscito a dire sul suo conto.
 
La rabbia traboccava dai suoi occhi ricolmi di quel rancore, dove la vendetta non era stata sufficiente a guarire quella sofferenza.
Soprattutto se di mezzo c’era andata infine la sua preziosa Alexia, che aveva finito per rimanere ingabbiata in quel mondo in cui era stata imprigionata fin dalla nascita, non potendo ormai più tirarsi indietro e rinnegare un’ossessione che aveva alimentato da sempre la sua intera vita.
Alla fine, quella vendetta non aveva risolto nulla.
Tuttavia era compiaciuto del fatto che “egli” fosse segregato in quella merda di cella, in balia dei tormenti più angusti, di una fame che non sarebbe mai stata saziata, di un dolore eterno che non l’avrebbe mai fatto spirare.
Nosferatu era diventato il suo nome….perchè non avrebbe mai spirato l’ultimo respiro.
Lui……avrebbe sofferto per sempre. In eterno!
 
Alfred Ashford si incamminò nei laboratori angusti, giungendo fino alla villa nascosta nei suoi tetri e macabri meandri, non potendo fare a meno di rievocare i torti subiti e quel dolore che aveva crucciato la sua intera esistenza.
Questo finché il suo cuore non lo pregò di fermarsi e cosi chiuse la sua mente, decidendo di dare ascolto a quella voce interiore che non ne poteva più di dover ricordare quei giorni. Si limitò così a patire in una silenziosa e angosciante tribolazione.
Arrivato in quella che per alcuni tempi era stata la sua casa, in quanto Alexia gestiva lì i suoi affari e i suoi progetti, si diresse verso una porta in particolare. Una nascosta dietro un arazzo immenso e maestoso.
Lo tirò giù, impedito nei movimenti per via del fatto che avesse Claire sulle sue spalle e il fucile sotto il suo braccio.
In seguito si addentrò in un riluttante corridoio più simile a un cunicolo, che lo collegò ad un altro ingresso del palazzo.
Quella era la “vera” Residenza Ashford del Centro Artico. Una villa che aveva fatto costruire lui stesso nel corso di quegli anni di estenuante solitudine, perché riluttante all’idea di solcare i luoghi che avevano rappresentato la sua condanna.
Egli volle una casa nuova, tutta sua, dove avrebbe espresso le sue gioie, i suoi dolori, non tormentato dalla visione di quei laboratori nei quali non faceva che rivedere il volto di Alexia abbuiarsi e logorarsi negli esperimenti.
Aveva edificato quella costruzione, ideandola sia per lui che per sua sorella, in modo che al suo risveglio ella avrebbe potuto godervi una splendida giacenza.
Avrebbe avuto a disposizione laboratori, luoghi dove isolarsi, oppure rilassarsi.
Posti dove studiare, giocare, suonare, dipingere….dove intrattenere gente, se voleva, oppure torturarla e imprigionarla.
Quella villa rispecchiava i suoi gusti e le sue manie, era perfetta per aspettare l’ultima fase dell’ibernazione della sua adorata. Era sicuro che le sarebbe piaciuta.
Si era assicurato che fosse il più verosimile possibile alla loro casa, ai luoghi che più amavano da bambini. Avrebbero vissuto lì la loro pacifica vita e il loro finalmente appagato ricongiungimento, una volta che lei si sarebbe svegliata.
Mentre il suo volto si illuminava, entusiasta dalla prospettiva di quei giorni che prima o poi sarebbero divenuti realtà, il suo sguardo divenne improvvisamente tetro e distante.
I suoi occhi si spensero divenendo come due cocci di vetro frantumati, costringendolo a osservare suo malgrado quel palazzo per quel che era.
 
 
Vuoto.
Vuoto.
Vuoto.
 
 
Sgradevolmente, inesorabilmente, tristemente….vuoto.
 
Come un curioso scherzo del destino, guardò il viso addormentato di Claire oltre le sue spalle, il cui fiato soffiava delicato sul suo collo.
 
“Oh, ma non siamo soli, stavolta.”
 
Sussurrò di soppiatto, quasi come se non volesse farsi sentire da alcuno.
Le sue labbra si allargarono, disegnando su di esse un sorriso tenue che esprimeva una malata contentezza; un tacito piacere che il biondo non sapeva di provare, eppure il suo cuore era internamente lieto di avere quel corpo premuto contro la sua schiena.
Quella presenza calda e viva che gli stava lentamente facendo assaporare un qualcosa che avrebbe cambiato in modo severo quello che lui aveva sempre rinnegato di aver bisogno visceralmente.
In seguito abbandonò quell’atrio, sparendo nei labirinti di quella villa desolata e malinconica, abitata dopo tanto tempo dalla ‘vita’.
 
Alfred portò Claire oltre una stanza buia, grigia, fredda.
Si trattava di un ampio laboratorio, nel quale erano conservati alcuni strumenti chirurgici, armadietti vari con dei medicinali e un tavolo operatorio.
L’aria che impregnava quella stanza era rarefatta, quasi irrespirabile. Chi non era abituato a quegli odori nauseanti, opprimenti, ferrosi, probabilmente non avrebbe sopportato di essere chiuso lì dentro per più di dieci minuti.
Il biondo tuttavia, sebbene non fosse un ricercatore dell’Umbrella, aveva vissuto abbastanza in quel contesto da essere abituato a muoversi come fosse uno di loro.
La sua mente altamente geniale e preparata gli consentiva di potersi cimentare in ogni ruolo, persino giocare con la vita umana al fine di creare esperimenti contorti e impietosi, questo anche per puro sfogo o divertimento.
Indossò un camice da laboratorio sopra la sua veste militare rosso sgargiante. Infilò i guanti in lattice, infine anche una mascherina.
Si guardò allo specchio, divertito da quella tenuta, come se stesse interpretando una parte e che quindi quel travestimento non fosse che una messinscena creata su due piedi per sollazzarsi dopo quel lungo viaggio.
Cosa volesse fare, non era dato saperlo.
Con tutte le probabilità, nemmeno lui aveva deciso. Sapeva solo che aveva bisogno di svagarsi e trovare qualcosa con cui perdere tempo fintanto che il suo animo si rasserenasse dopo tanti angusti tormenti.
Si premurò di legare ben bene la rossa Redfield al lettino operatorio, allacciando le cinghie di cuoio sui suoi polsi e sulle sue caviglie.
Per tenerle la testa dritta, le sciolse i capelli, lasciandoli liberi e morbidi sulle sue spalle. Questi, avendo preso la piega del codino, ricadevano in modo disordinato, tuttavia conferendole un aspetto ribelle che esprimeva tutto ciò che rendeva accattivante quella donna nemica.
La sua pelle candida, soave, con quell’espressioni sofferta eppure rilassata, andava in contrasto con le sue ciglia scurissime e quella chioma folta e disordinata.
Il comandante di Rockfort Island fece scivolare una mano sul suo capo, sistemandola delicatamente.
Con le dita, pettinò alcune ciocche della sua chioma, sistemandole sul suo petto, come se desiderasse rimettere in ordine la sua figura, esattamente come un pittore che si prende cura di un dipinto, intento a restaurarlo.
Le scostò la frangia di lato e rimase ad osservare incantato i suoi occhi chiusi, rimanendo protratto sul di lei per lungo tempo.
Passò il pollice sulle sue guance sporche, annerite dal fumo dopo l’attacco che aveva sferrato al jet. Quello sporco che rovinava quella pelle bianchissima e che lui sentì il bisogno di ripulire.
Si allontanò dunque un singolo istante, allungandosi con lo sgabello verso il lavabo posto alle sue spalle, nel quale inumidì uno straccio che utilizzò per levare quell’ombra nera dal viso della giovane.
Concentrato in quell’azione, non si accorse nemmeno di essersi posto a meno di dieci centimetri di distanza da lei.
Completamente assorto, egli strofinava delicatamente la punta del fazzoletto bagnato sul suo viso mentre, ignara, Claire continuava il suo lungo sonno.
Incautamente, Alfred decise di rimanerle accanto, dedicandosi a lei come se fosse qualcuno di estremamente caro.
Durante quel lungo lasso di tempo, non si rese nemmeno conto dei minuti che passavano, ma soprattutto del suo stato sentimentale di completo appagamento.
Egli era forse per la prima volta, dopo anni, in pace con se stesso. Come se le sue ansie e le sue paure fossero state soppiantate da quel compiacimento.
Accanto alla giovane Claire avvertiva un benessere che non poteva ammettere, ma che inebriava i suoi impulsi, abbandonati a se stessi da troppo tempo.
Pulì il suo volto, schiarendo la sua pelle; aggiustò i suoi capelli, lisciandoli e ricomponendola; lentamente prese a sfilarle di dosso le vesti ormai sporche, dedicandosi al restauro del resto del corpo.
Non c’era malizia o perversione mentre la spogliava, lasciandola semi nuda sul lettino. Il ragazzo anelava soltanto fare uscire il suo splendore, quell’incanto che aveva intravisto e che lo aveva rapito durante l’intero tragitto verso l’Antartide.
Quando tuttavia si ritrovò il suo meraviglioso corpo davanti agli occhi, qualcosa cominciò a mutare, facendogli presto comprendere che i suoi sentimenti gli stavano sfuggendo di mano sempre di più, in modo inarrestabile.
Sentiva qualcosa agitare il suo corpo; quello che provava era qualcosa che non gli era mai accaduto.
Stette con i gomiti piegati accanto al suo capo, il busto era rivolto esattamente sopra di lei.
Egli stette immobile a contemplarla, mentre l’espressione dei suoi occhi si faceva sempre più smarrita. Abbassò la mascherina, scostandola dalla bocca, e rimase in silenzio mentre nella sua mente quella circostanza si faceva sempre più chiara. Sempre più crudelmente chiara.
 
Quella donna…cosa…
Cosa gli stava facendo?
 
Cosa stava cominciando a crucciare il suo cuore?
Perché sentiva un inspiegabile, doloroso, eppure piacevole tormento?
 
Come se l’ansia che provava quando era con lei fosse tutt’altro che una sensazione spiacevole.
Come fosse in realtà espressione di un…piacere?
 
Improvvisamente i suoi occhi si adirarono, così lanciò in aria ogni strumento da laboratorio fosse a sua gittata.
La disperazione segnò il suo viso, mostrandogli quello che lo addolorava maggiormente, costringendolo ad accettare quell’ignobile realtà dei fatti che poteva rinnegare, ma che in verità già muoveva le meccaniche del suo animo.
Quella riluttante, infima donna, tuttavia conturbante e suadente, stava facendo andare in panne la sua mente, disordinando quei precari equilibri che lui faticava a mantenere in piedi.
Il velato piacere, l’eccitazione dietro quel momento solenne in cui lui aveva potuto contemplarla, presto fece collassare Alfred, il quale era in balia dei suoi dubbi e delle sue angosce personali circa i suoi privilegi e ciò che invece si era sempre negato.
Questo mentre il volto di Alexia non faceva che riaffiorare, imponendogli di ricordare a chi avesse immolato il suo amore eterno.
 
Donne…
…delle succube e meschine creature.
Insignificanti, spregevoli, impotenti….nessuna di loro poteva anche solo paragonarsi alla grandiosità e la bellezza di sua sorella.
Al confronto di colei che era La Donna, nessun’altra aveva importanza.
Nessuna era meritevole delle sue attenzioni.
Alexia Ashford era la Donna, la sua Regina, la sua Sovrana Assoluta. Colei che lo amava e lo completava, alla quale aveva immolato la sua vita.
Claire Redfield…
Lei…lei era solo una donna, una delle tante; comune, sporca, priva d'interesse per lui…
Come osava trascinarlo nella sua tela? Come osava indurlo a tradire quell’eterna promessa di adorazione che lui aveva mantenuto non solo da quindici anni…ma da una vita intera, spesa per garantire successo e bellezza alla sua Regina!
Alexia era La Donna; nessuna era paragonabile a lei.
Non potevano coesistere altri affetti nel suo cuore.
La psiche di Alfred, deviata e compromessa da una vita ridotta in una schiavitù mentale che lo aveva reso chiuso, folle, paranoico, si rifiutava di accettare qualcosa che fosse distante dagli obiettivi perseguiti fino a quel momento. Quelli riguardanti la gloria di famiglia e di sua sorella; un genio cui nessuno avrebbe mai potuto equipararsi e che lui ammirava e adorava per questo.
Qualsiasi persona al suo cospetto semplicemente non esisteva. Esisteva soltanto lei per lui.
Eppure ai suoi occhi repentinamente si stava ergendo una nuova figura. Un concetto da lui mai conosciuto, in quanto abituato ad amare una sola persona.
A fianco al nome solenne di Alexia Ashford, venne definendosi l’Altra Donna.
Claire Redfield, il nome dell’altra e infima donna che non aveva la Perfezione della sua Unica e Amata sovrana.
Una donna dissimile completamente da Lei, che non ricalcava la sua potenza, la sua eterea bellezza e impareggiabile talento.
Fu qualcosa di disdicevole e peccaminoso, che torturò Alfred internamente, incapace di accettare quella realtà.
Prepotentemente questa s’insidiò nella sua mente, crucciandolo e conquistandolo al tempo stesso, obbligandolo a provare un forte senso di disprezzo per se stesso.
 
Perché non c’era e non poteva esistere per lui un’Altra Donna…. un’Altra Donna all’infuori di Alexia Ashford.
 
Era accecato dal senso di umiliazione, dalla paura di tradire colei che da sempre dava un senso ai suoi giorni.
Non c’era spazio per altro, lui stesso si rifiutava di accettarlo.
Era semplicemente inconcepibile, semplicemente inaccettabile, semplicemente…ripugnante!!
Come poteva convivere con quella vergogna, come poteva accettare di essere stato felice accanto a quella comune donna?
Nel panico, Alfred scappò via da quella stanza, mentre nei suoi ricordi si accavallavano i vari momenti vissuti con Claire che, anche se sua nemica, aveva saputo colmare quell’opprimente solitudine che lo stava facendo dannare da anni.
Aveva portato scompiglio nei suoi piani e nella sua vita, eppure aveva offuscato quel senso di abbandono con cui faticava a convivere ma con cui era stato costretto a familiarizzare.
Come aveva potuto non accorgersene? Come aveva potuto lasciare che accadesse?
Non potevano coesistere quelle due realtà.
Lui…
 
 
 
Lui non poteva amare Claire Redfield.
 
 
 
Esisteva per lui Una Sola Donna, Una Sola Regina….
 
 
 
Una Sola Donna, Una Sola Regina…
Una Sola Donna, Una Sola Regina…
Una Sola Donna, Una Sola Regina…
Una Sola Donna, Una Sola Regina…
 
 
 
 
 
Come ovviare tale problema?
Come appagare la sua coscienza e il suo bisogno di amore?
Alfred con gli anni era diventato un abile giostraio e aveva imparato a soppiantare e raggirare ogni cosa, persino i suoi sentimenti; eludendoli in modo plateale, ergendo commedie e menzogne nelle quali aveva affogato la sua follia.
Questo perché esisteva un modo per essere felice…
Esisteva un modo per amare la sua Regina ed evitare l’offesa di quell’amore impuro.
E allo stesso tempo……..amare una persona fisica.
Amare Claire…
 
Un tempo era lui stesso che interpretava quel ruolo.
Un tempo era lui che portava avanti da solo quella commedia.
Claire era una donna…e poteva essere addestrata a diventare qualcosa di più “accettabile” per lui.
Qualcuno che non infangasse il suo onore e il suo amore per Alexia.
Lei…poteva diventare la sua “Regina”.
Se avesse continuato ad adorare Alexia, non avrebbe provocato alcuna offesa e il suo cuore sarebbe stato in pace.

Fu così che nacque quella maschera.
Fu così che si lui erse quella complessa e ingannevole messinscena.
Per lenire quel bisogno d’amore e d’inganno.
Il gioco di un uomo ingabbiato nei suoi tormenti che non poteva accettare qualcosa che avrebbe disonorato la sua esistenza.
 
Perché lui non poteva che amare una sola donna.
 
Se Claire fosse divenuta Alexia, lui avrebbe potuto amarla.
Solo così il suo cuore si sentì libero di ammettere i suoi sentimenti.
Libero di amarla e onorarla.
Ingannando i suoi sensi, avrebbe ingannato anche il suo cuore.
 
 
 
Una lunga chioma bionda rivestì quindi il capo della principessa addormentata.
Un elegante abito scuro rese leggiadro e raffinato il suo corpo.
 
 
L’uomo al suo canto stette poggiato sul suo grembo, felice, rasserenato.
Questo mentre il suo cuore batteva internamente per lei.
Per lei, la donna impura……….l’Altra Donna;
…che ora poteva amare.
…che ora poteva desiderare.
Sul grembo di Alexia, la sua Regina, poteva farlo.
 
Amava Alexia.
Venerava Alexia.
Onorava Alexia.
Nessuno avrebbe potuto dire il contrario, vedendolo al suo fianco;
specialmente il suo cuore serrato e martoriato.
 
 
Il suo amore per l’Altra Donna, camuffato dal suo Amore Eterno.
Una follia che permise il sussistere di un’altra pazzia.
 
 
In questo modo poteva desiderarla… solo così poteva amarla…
Bramava…
Bramava conoscerla…
Bramava che lei facesse parte di lui…
Per farlo era disposto a mettere in atto quello spettacolo, quello in cui era protagonista la sua Bambola Camuffata.
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Claire lesse quei versi d’amore dedicati a lei tremando incessantemente.
Che diavolo erano? Cosa insinuavano quelle parole esattamente?!
 
“Cosa cazzo significa?”
 
Si chiese mentre sfogliava impetuosamente il diario, ma il resto di quei pensieri era stato interrotto da una serie di pagine visibilmente tagliate da qualcosa di affilato.
Erano state fatte sparire appositamente, in modo che alcuno avrebbe potuto continuare la lettura.
Tuttavia quelle confessioni appena lette erano bastate a capovolgere una situazione già drammatica di suo, in quanto le sue consapevolezze erano drasticamente cambiate, ancora una volta.
Alfred non l’aveva imprigionata, drogata e vestita da Alexia per il senso di solitudine che lo aveva logorato a tal punto di desiderare di vederla in qualunque modo…anche camuffando un’altra persona. Allo stesso modo di come faceva con se stesso quando si vestiva da donna.
No. Il motivo circa il rapimento di Claire era invece di tutt’altra natura.
Dietro si celava una verità simile a quella da lei supposta, eppure completamente diversa:
 
 
Il biondo Ashford l’aveva travestita da Alexia perché lui non poteva accettare di essersi…
 
 
Deglutì prima di riuscire a formulare quel pensiero, che l’inquieto enormemente, facendola diventare paonazza, in balia di quella dubbiosa e delicata situazione in cui si era cacciata.
 
 
….di essersi innamorato di lei.
 
 
Una comune ragazza.
Una ragazza che non fosse Alexia.
Quella rivelazione la lasciò turbata e agitata.
Adesso che sapeva che quella storia la stava riguardando sul personale, le cose erano profondamente cambiate e lei stessa, già da un po’ in uno stato confusionale, non sapeva più che cosa sarebbe potuto accadere.
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
 
NdA:
Come spiegato nel Capitolo 3, gli eventi di re:cvx sono stati leggermente cambiati.
In questa versione della storia, dopo che Claire e Steve scoprono l’inganno di Alfred/Alexia e scappano col jet privato di Alfred, quest’ultimo riesce a intercettarli e a sconfiggerli. Il resto è descritto nel capitolo.
Ho fatto questo piccolo, ma grande, cambiamento per trovare il contesto giusto dove ambientare la storia e permettere un incontro più approfondito dei due protagonisti.
Ho creato così una villa modello palazzo Ashford, costruita nei meandri dei laboratori Artici.
Se ricordate, nel gioco stesso vi è collocata una seconda villa come quella di Rockfort. Tuttavia è solo un laboratorio.
Quindi cosa impedisce che, eventualmente, non ve ne sia un’altra? Un’altra più “abitabile” dato che è comunque un luogo dove certamente gli Ashford soggiornavano.
Questo particolare sarà approfondito nel prossimo capitolo, comunque.
Spero che l’immersione nel diario personale di Alfred vi sia piaciuto e abbia comunicato quello che poi è il tema di questa fanfic fin dall’inizio: la solitudine.
Una solitudine folle, feroce, nata dalle ceneri di un’esistenza distrutta e malata ove Claire ha rappresentato una finestra di umanità che tuttavia l’erede Ashford non riesce ad accettare.
Sebbene attraverso il testo introspettivo io avevo già spiegato i sentimenti di Alfred, è da questo punto della fanfiction in poi che però anche Claire lo sa.
Sa di un amore contorto e irrazionale che la lega con il suo nemico, in balia di un contrapposto sentimento difficile da gestire.
Il prossimo capitolo approfondirà ancora questa vicenda, dopodiché passeremo alla non meno importante rivelazione di questo capitolo: la storia è sempre stata ambientata in Antartide, come accennato.
Ulteriore tassello che mi premeva spiegare, erano i sentimenti che legano Alfred con Alexia.
Scrivere sui due gemelli mi tocca sul personale, e provo sempre delle emozioni immense quando penso a loro.
Cimentarmi nella scrittura della parte narrata in prima persona mi ha coinvolta molto e ammetto che è stato fra momenti di scrittura più belli e intensi.
Ho voluto raccontare di un lato più umano e fragile della Regina, un aspetto conosciuto e protetto da suo fratello, che avrebbe sacrificato ogni cosa per lei.
Volevo uscire un po’ dallo schema Alexia-Regina, Alfred-Re/Servo.
Volevo narrare di una regina suprema e insuperabile, ma fragile e logorata.
E di un cavaliere legato a lei, che nell’ombra la protegge e la sorregge, portandola alla gloria.
Alfred per me non è solo il fratello subordinato ad Alexia. Egli è il giostraio che ha permesso il suo successo. L’uomo che ha sacrificato tutto in suo onore, proteggendola e portandola alla vetta, eliminando i suoi nemici e gli ostacoli che la intralciavano.
Lei che è la Regina indiscussa, l’erede della famiglia Ashford, forte e gloriosa… ma dietro la quale c’è sempre stato lui, che ha annullato la sua esistenza e si è gettavo in pasto alla pazzia pur di vedere realizzati i suoi sogni.
Questo più che un fratello sottomesso, per me lo rendo un fratello protettivo che la ama profondamente. Questa è la mia visione di Alfred Ashford, in tutta la sua pazzia.
Grazie ancora e ciao!!
 
 
(*) Ho interpretato che Claire nei tempi di RE2 e code veronica, non avendo ancora rincontrato Chris, non sapesse ancora di Wesker. Almeno non nei dettagli.
In re:cvx lo dimostra anche il fatto che, quando i due si incontrano/scontrano, la ragazza esordisce con un “chi sei?”. Questo rafforza la mia idea che Chris la tenga lontano dalla sua vita militare, forse proprio per proteggerla vista l’indole ribelle e tenacie della sorella.
 
 
  
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