Nick
Autore:
kyoko94.
Titolo:
Made to Be Broken.
Rating:
Giallo.
Personaggi:
Shisui Uchiha/Itachi Uchiha.
Genere:
Malinconico, Sentimentale.
Avvertimenti:
Alternative Universe (AU), One-Shot, Song-Fic, Shonen Ai.
Quadro
Scelto:
“Abbazia nel
Querceto” di Caspar David Friedrich.
Introduzione:
Lui fu uno dei pochi che riuscirono a sopravvivere e a tornare a
casa.
O, almeno, tornò
ciò
che restava di lui.
Del campo
di sterminio, neanche uno dei più famosi, ormai restano solo
le
tracce.
I cadaveri ritrovati
furono sepolti in un cimitero vicino all'abbazia di St.
Agnés.
Un
semplice edificio, ormai provato dal corso del tempo e delle lapidi
di legno e pietra intorno.
Sotto
una di queste lapidi vi è il ricordo di Shisui Uchiha, ed
accanto ad
esso giace il cuore di Itachi.
Nel
suo petto rimane solo la fede.
Non
in Dio.
Ma nella sua promessa.
~ Made to Be Broken
Era
inverno.
Gli alberi erano
spogli e si proiettavano verso oriente come ombre inquietanti sul
terreno.
L'abbazia diroccata
si stagliava contro il cielo grigio del tardo pomeriggio e la luce
emanata dal sole nascosto dietro alle nuvole non era sufficiente per
illuminare il sentiero che conduceva all'arco principale
dell'edificio.
Tombe e lapidi
di legno sbucavano dalla terra coperta dalla neve.
Un
ragazzo, quasi un uomo, inginocchiato davanti ad una di queste,
pregava, in silenzio.
Pregava
un Dio che, forse, non era mai esistito.
Pregava
colui che i credenti chiamavano “A-Donai”, anche se
dubitava che
Lui, se davvero c'era un Lui, lo stesse ascoltando.
E'
questo che fanno gli uomini, quando non hanno più niente da
fare.
Pregano, sperando che un
Qualcuno, con la Q maiuscola, li senta e li possa perdonare,
rassicurare ed amare.
Pregano,
le persone sole, coloro che hanno perso la speranza da bambini,
davanti ad un orso di pezza distrutto, pregano gli orfani, i ladri e
anche gli assassini.
Si,
perché anche coloro che affermano di non aver bisogno di
nessuno ed
in particolare di un Dio, pregano. E di solito sono quelli che lo
fanno più spesso, nel silenzio delle loro notti insonni,
quando il
terrore per gli incubi è ancora più grande di
quello che potrebbe
causare l'incubo stesso.
Dio,
dopotutto, è solo l'illusione più grande che
l'uomo abbia mai
creato.
****
Allora
non doveva portare la stella gialla appuntata al petto, andava ancora
a scuola e la sua era una normale famiglia ebrea, forse un po'
più
ricca della norma.
Probabilmente
era per questo che Itachi Uchiha, all'età di sette anni, non
aveva
ancora amici.
L'invidia
è un brutto seme che si insidia anche nelle menti
più ingenue.
Sta
di fatto che il bambino era trattato con i guanti da tutti i suoi
coetanei.
Quando
Mikoto, sua madre, venne a sapere dell'arrivo in patria di sua
sorella e del suo figlioletto, Shisui, di pochi anni più
grande di
Itachi, si rallegrò, pensando che, finalmente, il suo
bambino
avrebbe trovato un amico, una persona con cui condividere la propria
infanzia che ormai stava volgendo al termine.
Mikoto
aveva preparato ogni cosa alla perfezione ed aveva istruito Itachi su
come comportarsi con il cugino.
Avrebbe
dovuto essere gentile ed educato, porgere la mano e presentarsi a
testa alta e petto in fuori.
Dico
avrebbe perché così non accadde.
La
stazione era piena di gente, quel giorno, Itachi era stanco per l'ora
tarda e non aveva la minima voglia di fingersi come al solito il
perfetto figlio che tutti si aspettavano fosse.
Ad
un tratto sua madre gli aveva indicato una donna che avanzava verso
di loro tenendo per mano un bambino.
Dovette
ammettere in seguito che subito gli era parso diverso dagli
altri.
Aveva un
qualcosa che lo distingueva dagli altri bambini.
Non
nell'abbigliamento, in tutto e per tutto identico al suo, e neanche
nell'atteggiamento.
Piuttosto
c'era qualcosa, nei suoi occhi, qualcosa che Itachi, allora troppo
piccolo per poter capire, riuscì a definire solo quando
questi si
chiusero per sempre, privandolo del suo cielo.
Nei
suoi occhi c'era la Luce.
Pura
e Chiara.
Luce.
Quando
se l'era trovato davanti poi, l'aveva colpito.
Letteralmente.
Nel
senso che gli era andato addosso.
Erano
caduti insieme, l'uno sopra l'altro, poi Shisui si era rialzato, gli
aveva preso la mano, sorridendo, e l'aveva aiutato a tornare in
piedi.
Ed era bastato
quel semplice gesto per conquistare il suo cuore.
And
I'd give up forever to touch you
'Cause I know that you feel me
somehow
You're the closest to heaven that I'll ever be
And I
don't want to go home right now
Qualche
anno dopo iniziarono le persecuzioni razziali contro gli
ebrei.
Itachi aveva
undici anni quando arrivarono le Missive. Lettere d'espulsione, per
lui e per Shisui.
Allora,
nonostante fosse cresciuto, era ancora un bambino e non riusciva a
comprendere il motivo di quella lettera.
Nella
sua classe era l'allievo migliore, allora perché adesso non
poteva
più andare a scuola?
Shisui
aveva quattordici anni e lo sapeva. L'aveva sentito dire dai suoi
compagni più grandi e l'aveva intuito ascoltando i discorsi
di sua
madre.
Ma non lo
capiva.
Come risposta
ai quesiti del più piccolo si limitava a sorridergli, come
faceva
sempre e a dire che avrebbero avuto più tempo per loro.
Itachi
non se ne curò pensando che se Shisui non era preoccupato,
allora
non avrebbe avuto motivo di esserlo neanche lui.
Forse
non avrebbe dovuto lasciar perdere così facilmente.
Forse
avrebbe dovuto insistere.
Magari
sarebbe bastata un'altra domanda per far prendere alla storia una
piega diversa.
Se tutti
quanti avessero preso la faccenda seriamente.
Se
qualcuno avesse avuto il coraggio e la forza di fermare ciò
che
stava iniziando.
Forse,
allora si sarebbero salvati, e la vita avrebbe vinto sulla morte.
Ma
la realtà non è fatta di se e di forse, la
realtà sono i fatti che
si susseguono seguendo un ordine apparentemente logico.
Le
cose succedono, alcune fanno soffrire, altre ti spezzano il cuore e
ti uccidono lasciandoti vivo.
Non
importa quanto tu cerchi di prevenire o quanto preghi il tuo Dio,
perché succedono lo stesso.
Itachi,
purtroppo, lo avrebbe capito solo quando ormai era troppo tardi.
And
all I can taste is this moment
And all I can breathe is your
life
'Cause sooner or later it's over
I just don't want to miss
you tonight
Fu
negli anni che seguirono la creazione della famosa stella gialla che
Itachi cominciò a notare qualcosa che non andava.
Nel
mondo, nella sua famiglia ed in Shisui.
Soprattutto
in Shisui.
Sembrava
cambiato. Nei suoi occhi non c'era più la luce di una volta.
Erano
spenti e opachi, si rifiutavano di vedere ciò che, di
lì a pochi
anni, avrebbe coinvolto il mondo intero.
Senza
quegli occhi Itachi si sentiva perso.
Aveva
vissuto fino ad allora facendo affidamento alla capacità del
cugino
di esserci sempre e comunque, per lui, mentre ora vedeva Shisui che
si allontanava e non ne capiva il motivo.
Nella
sua egoistica ed ancora infantile visione della vita Shisui era solo
suo, non poteva andarsene e lasciarlo da solo.
Perché
Itachi era solo.
Anche
Shisui era solo.
Ed era
per questo che insieme, potevano essere qualcosa.
Insieme.
Poco
tempo dopo la madre di Shisui morì. Il cancro l'aveva
sopraffatta e
lei non era stata forte abbastanza da sopravvivere.
I
funerali si svolsero una settimana dopo il suo decesso.
In
quella settimana Shisui si era rinchiuso in casa, rifiutando
qualsiasi visita.
Il
giorno del funerale nessuno lo vide e mentre il rabbino diceva
l'ultima preghiera per sua zia, Itachi si ritrovò a pensare
di come
adesso fosse arrivato il suo turno, di fare qualcosa per
Shisui.
Quella sera
stessa il ragazzo si recò a casa sua.
Suonò
il campanello ininterrottamente per dieci minuti, senza ottenere
nessuna reazione.
Stava
quasi per andarsene quando sentì la porta che si apriva
dietro di
lui.
Shisui era
pallido, gli occhi arrossati dal freddo e, probabilmente, anche dal
pianto, lo guardava con un aria triste, che mai gli aveva visto
addosso.
Nei suoi occhi
soltanto il ricordo della Luce che un tempo vi soggiornava.
Non
disse niente, si limitò a guardarlo negli occhi.
Cielo
nella Notte.
Buio nella
Luce.
Dopo una serie di
interminabili istanti, Shisui si avvicinò al cugino e,
lentamente,
posò le labbra sulle sue, in un bacio che sapeva di dolore,
perdita
e di lacrime mai versate.
Quando
si staccarono un'unica domanda continuava a premere sulle labbra del
più piccolo.
“Perché..?”
Shisui,
di nuovo, piantò gli occhi nei suoi.
E
Itachi iniziò a capire.
And
I don't want the world to see me
'Cause I don't think that they'd
understand
When everything's made to be broken
I just want you
to know who I am
Iniziarono
allora a vivere le 'loro notti', come le chiamava Shisui.
Consapevoli
del fatto che fosse sbagliato ma nello stesso tempo che, una volta
iniziato, non sarebbero più riusciti a farne a meno.
Così,
mentre Hitler allestiva, mattone dopo mattone, i primi campi di
concentramento, loro iniziavano a costruire, passo dopo passo, il
loro mondo, fatto di baci fugaci, sguardi complici e Amore.
Amore
come mai Itachi aveva provato in vita sua.
Ed
anche se si ripromettevano di smettere, perché,
probabilmente,
quando l'incanto si sarebbe rotto, avrebbero sofferto entrambi, la
notte dopo erano di nuovo lì, stesi su quel letto, a
consumare la
passione che li avvolgeva.
Era
un Amore intossicante, che creava dipendenza. Una dipendenza talmente
forte da non riuscire a pensare ad altro.
Sapevano
di sbagliare, ma il desiderio era troppo, troppo forte.
Non
era un desiderio sessuale, dettato dalla voglia di soddisfare il
piacere reciproco, ma un sentimento profondo quanto fragile che stava
iniziando lentamente a crescere che poi si sarebbe consolidato alla
perfezione negli anni che sarebbero passati, fino a diventare parte
della loro stessa persona.
Era
Amore.
Il tutto
nascosto agli occhi della gente.
Itachi
non aveva paura dei pregiudizi che avrebbero potuto infangare il nome
della famiglia Uchiha o della reazione che avrebbero potuto avere i
suoi genitori.
Piuttosto
sapeva con assoluta certezza che la gente non avrebbe capito, non
avrebbe potuto capire, ed era per questo che accoglieva con un
leggero sorriso i tentativi di sua madre di presentargli ragazze che,
a detta di Mikoto, avrebbero dovuto piacergli.
La
gente era troppo occupata a cercare di dare uno scopo alla propria
vita per provare ad andare oltre al velo delle apparenze, per
riuscire a capire che dietro alla realtà sottile delle cose,
poteva
esserci altro, molto di più di quello che potevano
immaginare.
Fin
da quando era piccolo, Itachi aveva capito che era meglio mascherare
la propria essenza per sopravvivere.
Indossare
una maschera per nascondersi agli occhi degli altri, per evitare che
il mondo lo vedesse per quello che era.
Molto
meglio fingere di essere il figlio perfetto della famiglia perfetta
che far vedere a tutti le proprie debolezze, i propri limiti ed i
propri sogni.
Accogliere
i sogni che gli altri avevano per lui e fare di tutto per
realizzarli, fingendo interesse.
Erano
solo maschere, sottili illusioni. Tanto la gente non aveva mai
capito, e mai lo avrebbe fatto.
Nessuno
si era mai sognato che Itachi potesse essere altro.
Nessuno
lo vedeva per ciò che era, come in una stanza fatta di
specchi, in
cui tutti riflettevano la sua figura senza coglierla
davvero.
Dopotutto
nessuno si era anche solo mai fermato ad osservarlo.
La
gente lo vedeva, ma non lo osservava mai realmente.
Poi
era arrivato Shisui.
Con
la sua capacità di entrare nel profondo della sua anima e di
coglierne anche i particolari più insignificanti.
In
pochi mesi aveva infranto tutte quelle barriere di cristallo che
Itachi era riuscito a ergersi intorno in sette anni di vita.
E,
quando egli era ormai alla sua mercé, inaspettatamente, non
aveva
usato quella capacità per ferirlo, ma si era avvicinato
sempre di
più a lui ed infine lo aveva aiutato a costruire altre
barriere che
li racchiudessero insieme, ancora più resistenti.
Per
questo lo amava e non poteva fare a meno di lui.
Shisui
aveva capito.
E di
questo, Itachi gliene era infinitamente grato.
And
you can't fight the tears that ain't coming
Or the moment of truth
in your lies
When everything feels like the movies
Yeah you
bleed just to know you're alive
Forse
proprio perché troppo presi dal loro Amore che non si resero
conto
di quello che stava succedendo.
Dopo
la stella gialla i tedeschi iniziarono a richiudere gli ebrei nei
ghetti.
Quartieri per
soli ebrei, praticamente prigioni travestite, e da lì tutto
iniziò
a prendere una piega più drastica.
Itachi
ricordava ancora perfettamente il giorno in cui i Nazisti fecero
irruzione nel palazzo dove, ormai da qualche tempo, abitava con la
sua famiglia e Shisui.
Erano
entrati sbattendo le porte, senza chiedere permesso, e gli avevano
detto di preparare le valige, perché avrebbero dovuto
partire.
Sua
madre era scoppiata a piangere e Shisui gli aveva preso la mano nella
sua.
Itachi allora
aveva quattordici anni, ed aveva imparato a cercare le risposte alle
domande che si poneva.
Allora
sapeva, come ormai sapevano tutti.
Ma
non capiva.
E non lo
accettava.
Era sempre
quella domanda ad insinuarsi fra i suoi pensieri.
Perché?
Perché? Perché?
Perché
li volevano portare via?
Perché
dovevano distinguersi dagli altri?
Perché
l'avevano espulso da scuola?
Perché
fuori dai locali ormai ovunque si trovavano i cartelli con scritto:
“vietato agli ebrei”?
Perché
tutte le compagnie ebree erano fallite?
Perché
li volevano rinchiudere?
Perché
non era più libero?
Perché?
Cos'avevano
loro, gli ebrei, di diverso dagli altri esseri umani?
Soltanto
perché credevano in un Dio diverso dal loro?
No.
Non riusciva a capire.
Itachi
era ebreo, i suoi genitori erano ebrei, lo erano anche i genitori dei
suoi genitori e così via.
Partecipava
alle funzioni religiose quando loro glielo imponevano, ma di certo
non gliene era mai importato più di tanto.
Gli
risultava difficile credere che esistesse Qualcuno che lo osservava
in ogni istante, Qualcuno che vegliava su tutto il mondo e lo faceva
funzionare, perdonando coloro che sbagliano.
Era
bello pensarlo. Pensare che esistesse questo Lui, ma bisognava
guardare in faccia la realtà, senza aggrapparsi sopra
inutili
speranze.
Se davvero
c'era un Dio, allora li avrebbe salvati .
Ma
nessuno li salvò.
Così
come nessuno salvò Shisui.
Non
esisteva nessun Dio.
La
stazione era piena di ebrei.
Era
inverno e tutti indossavano cappotti e sciarpe, l'aria era fredda ed
il vento soffiava, scompigliando i capelli di sua madre e facendo
volare i lembi della sciarpa di Shisui.
Passò
del tempo ed arrivò un treno, non uno dei soliti treni che
era
abituato a prendere, ma un treno angusto, scarno e rovinato, fatto
soltanto di vagoni, senza posti a sedere.
La
gente iniziò a mettersi in fila per salire sui vagoni.
Shisui,
accanto a lui, gli prese la mano nell'istante in cui Fugaku e Mikoto
vennero portati su un altro vagone.
“Non
preoccuparti, Itachi-chan. Ci vedremo quando saremo
arrivati.”
Quella era stata l'ultima cosa che sua madre gli aveva detto.
Poi
non l'aveva più rivista.
Il
vagone era stretto e le persone erano stipate, l'una addossata
all'altra.
Erano
passati giorni, settimane, ed infine mesi.
Nessuno
si curava di dargli da mangiare il necessario, solo qualche mollica
di pane, e potevano bere dai catini di acqua sporca.
Il
treno era partito da tempo, ma ancora non erano arrivati.
Intanto
cresceva la paura.
Paura
del luogo in cui sarebbero approdati.
Paura
del futuro.
Che cosa li
attendeva, oltre la fitta nebbia che li circondava?
Per
la prima volta in vita sua, Itachi si sentiva un tutt'uno con la
gente circostante.
Quella
stessa gente che aveva sempre disprezzato ora era lì, con
lui.
Faceva i suoi
stessi pensieri.
Aveva
le sue stesse paure.
Guardava
il futuro tremando, proprio come lui.
Itachi
non sapeva.
Non
capiva.
Scrutava nel
profondo degli occhi di suo cugino, come a cercare una risposta a
tutto quello che gli stava capitando, eppure non la trovava.
Solo
altre domande.
Poi,
finalmente, la nebbia che avvolgeva il loro futuro si
diradò,
lasciando spazio ad una nebbia ancora più densa.
Scesero
dal treno, come una massa informe di scarafaggi, assaliti dai morsi
della fame, trascinandosi, tenendosi per mano, come fantasmi in un
cimitero.
E videro il
loro futuro in faccia.
E
c'era solo la nebbia.
La
nebbia grigia che circondava il campo di sterminio.
And
I don't want the world to see me
'Cause I don't think that they'd
understand
When everything's made to be broken
I just want you
to know who I am
Entrati
nel campo, dei soldati li divisero.
Donne,
uomini e bambini.
Itachi
e Shisui furono ammassati insieme ad altri uomini e ragazzi in grado
di lavorare in una stanza piccola, in cui erano posizionati alcuni
letti, malridotti, con poche coperte.
Una
SS gli spiegò cosa dovevano fare.
Lavorare,
lavorare, lavorare, e cercare di sopravvivere.
Iniziarono
a vivere lì, con la speranza che quel
“vivere” terminasse presto
e che qualcuno, forse davvero Dio, li venisse a salvare.
Speranza
vana.
Sprecate, le
notti passate a pregare, spalla contro spalla, di tornare alla loro
vita.
Itachi tremava,
rannicchiato contro il petto di Shisui e chiedeva perdono, per tutto
ciò che aveva fatto di male nella sua vita, pur di uscire da
lì.
Con Shisui.
Qualsiasi
cosa, pur di tornare a casa.
Ma
non servì a niente.
Lavoravano,
costruivano, portavano enormi mattoni, di giorno, e la notte avevano
poco tempo per riposare.
Passarono
settimane, senza che nessuno arrivò a salvarli.
Il
freddo li accompagnava, durante le giornate.
Non
c'erano fiori, nel campo, non c'erano luci, non c'erano ombre,
soltanto nebbia e desolazione.
Non
c'era niente.
Solo
anime in pena che cercavano di scappare.
Itachi
si chiedeva se erano morti. Forse non se n'era accorto, un treno
l'aveva investito, ed era finito all'inferno.
Forse
era già morto di fame.
Forse
era stato il freddo ad ucciderlo.
Perché
non era possibile che fosse tutto così dannatamente grigio.
Gli
pareva di essere diventato cieco.
I
colori non esistevano, in quel luogo, solo grigio, orribile ed
incolore grigio.
Avrebbe
voluto suicidarsi, solo per sapere se era ancora vivo, oppure no.
Ed
anche se lo fosse stato, non sarebbe sicuramente valsa la pena di
continuare a vivere in quel luogo.
Poi
sentiva il cuore del cugino battere, sotto di lui e si ricordava i
motivi per i quali non poteva farlo.
Il
sangue delle ferite gli avrebbe aperto gli occhi.
Ma
non avrebbe avuto ragione di esistere, senza Shisui.
Quell'inferno
era sopportabile, se lo aveva accanto.
Ma
il paradiso sarebbe stato ugualmente un inferno, nel momento in cui
non avrebbe potuto averlo con se.
Una
volta al mese, regolarmente, per quanto Itachi potesse capire, le SS
li portavano in un salone e li disponevano in file ordinate, davanti
ad un “giudice”.
Egli
doveva giudicare chi era ancora in gradodi lavorare e chi no.
A
quell'uomo era affidata la vita di migliaia di persone, e lui non se
ne curava, mandando a morire colore che erano troppo magri, troppo
piccoli, troppo malati.
Durante
quel duro ed eterno inverno, Itachi e Shisui sopravvissero a circa
cinque, di questi tribunali di morte, aggrappandosi alla vita, come
mai nessuno dei due aveva fatto nella sua vita.
Intanto
continuavano a scappare, rifugiandosi, la notte, l'uno tra le braccia
dell'altro, beandosi del calore che riscaldava i loro corpi.
Fu
in quel periodo che Shisui iniziò a tossire.
Tossiva
a tal punto da non riuscire più a respirare e si contorceva,
in
preda agli spasmi.
Era
sempre più debole, col passare del tempo.
Ancora
una volta, i nazisti li portarono davanti al
“giudice”, ed ancora
una volta, insieme, superarono la corte, dirigendosi verso la stanza
che dividevano con gli altri uomini.
Un
colpo di tosse fece cadere Shisui in ginocchio e subito il
più
piccolo lo accompagnò alla loro branda, facendolo sdraiare.
Mentre
suonava il lungo fischio che segnalava di coricarsi, Itachi
cercò di
avvicinarsi al cugino.
“Stai...
lontano...” quel sussurro lo fece tremare di paura, nello
stesso
momento in cui Shisui scorse del sangue sulla mano con cui si era
tappato la bocca.
Il
ragazzo iniziò a tremare, cercando di pulirsi la mancina e
Itachi si
avvicinò, cercando di capire cosa avesse visto, ma Shisui lo
spinse
via.
“Non mi
toccare!” urlò.
Una
voce dall'altro capo della stanza gli disse di stare zitti, qualcuno
gli imprecò dietro, ma Itachi non li sentiva, nella mente
soltanto
l'urlo di suo cugino.
E
il rosso.
Il rosso del
sangue sulla mano di Shisui.
Intanto
l'altro tremava ancora, lacrime amare premevano per uscire dagli
occhi chiari, lacrime che il moro cercava disperatamente di
combattere.
Lentamente
Itachi gli si avvicinò, fino a riuscire a circondargli la
schiena
con le braccia, lo strinse forte, in una morsa gelida, cercando di
calmare i singhiozzi.
Rimase
così fino a quando l'altro ricambiò l'abbraccio,
stringendolo a sé
spasmodicamente.
“Va
tutto bene...” si ritrovò a sussurrare Itachi,
ripetutamente, come
una preghiera per calmarlo.
Shisui
annuì, cercando di smettere di tremare.
Entrambi
sapevano che non era vero.
La
tubercolosi era una malattia dei polmoni contagiosa, li distruggeva e
portava alla morte.
Eppure
nessuno dei due mise in discussione quelle parole; meglio illudersi,
pensare di essere al sicuro, che affrontare la verità.
Nessuno
dei due ne sarebbe stato in grado.
Non
in quel momento, non quella verità.
Semplicemente
si distesero sulla branda, trovando confortevole il calore che i loro
due corpi abbracciati si trasmettevano, e si addormentarono
così,
sperando di risvegliarsi nei loro letti, lontano da quel luogo,
lontano da quelle paure, al di fuori di quell'incubo.
And
I don't want the world to see me
'Cause I don't think that they'd
understand
When everything's made to be broken
I just want you
to know who I am
Itachi
non seppe dire, neanche in seguito, con certezza, come aveva vissuto
quel mese.
Shisui stava
ogni giorno più male, ma nessuno sembrava accorgersene, ed
era
meglio così, da un lato. Le SS non sapevano che farsene di
un malato
di tisi in un campo di lavoro.
Ricordava
che gli era stato accanto, sempre e comunque, e lo aiutava durante i
lavori, per poi accovacciarsi sul suo petto la notte, e farsi cullare
dal suo respiro.
Ricordava
come Shisui lo accarezzava dolcemente, ma nient'altro.
Solo
il vuoto.
I ricordi
ripartivano da quella notte, che sarebbe anche stata l'ultima,
passata con suo cugino. La notte prima del
“tribunale” di quel
mese.
Faceva freddo.
Più freddo delle altre volte.
La
coperta di cotone leggero non bastava a scaldarli entrambi.
Nessuno
parlava, anche perché il coprifuoco era suonato da un pezzo.
Itachi
era stanco ed i morsi della fame gli attanagliavano lo
stomaco.
Cercava di non
pensare, di addormentarsi in fretta.
Si
era dimenticato che l'indomani ci sarebbe stato ancora il solito
giudice, a segnare il destino di quegli uomini, che ormai uomini non
erano più. Solo vermi, dinnanzi a qualcuno troppo
più grande di
loro.
Vermi in grado di
strisciare, pronti ad essere schiacciati da un momento
all'altro.
Proprio
mentre stava per cadere fra le braccia di Morfeo, Shisui gli
sollevò
il volto, accarezzandogli la guancia.
Iniziò
a fissarlo intensamente, come quando lo aveva baciato sulla soglia di
casa sua. Continuarono quel gioco di sguardi fino a quando il
più
grande si decise a parlare.
“Itachi...”
sussurrò.
Il ragazzo
abbozzò un sorriso tirato, le guance solcate dei profondi
segni
della stanchezza che si evidenziarono quando i bordi delle sue labbra
si piegarono.
Shisui lo
chiamò ancora.
Poi
arrivò un colpo di tosse, che cercò di soffocare,
per evitare di
svegliare gli altri.
“Itachi...”
.
Voleva urlare,
gridare. Al mondo, a Dio, a lui.
Voleva
urlargli il suo amore, la sua sofferenza.
Voleva
avvertirlo, non sarebbe passato, l'indomani. Il giudice non si
sarebbe fatto scrupoli a mandarlo a morire.
Voleva
prepararlo alla sua fine. Voleva assicurarsi di non venire mai
dimenticato.
Voleva,
voleva, voleva.
Avrebbe
voluto tante cose, Shisui.
Avrebbe
voluto vivere una vita felice, con Itachi, magari sposarlo, ma si
sarebbe accontentato anche solo di averlo accanto a sé tutti
i
giorni.
Avrebbe voluto
morire con lui.
Nello
stesso istante, non volendo né lasciarlo da solo,
né essere
lasciato.
Le lacrime
iniziarono a premere nel momento in cui si accorse che nessuno di
quei desideri era destinato ad avverarsi.
Sarebbe
morto, e non poteva fare niente per impedirlo.
Sarebbe
morto in ogni caso, comunque, stroncato da quella malattia, era solo
una questione di tempo.
Preferiva
una morte veloce, anche se sofferta, ad una lenta agonia, durante la
quale non avrebbe sofferto soltanto lui, ma anche Itachi.
No.
Preferiva andarsene così, senza prepararlo, non poteva
sopportare il
dolore di vederlo piangere, non per lui, non in quel luogo.
Preferiva
portare con sé il ricordo di Itachi che gli sorrideva
nell'ombra
della sua camera, piuttosto che un Itachi piangente, dinnanzi alla
sua tomba.
C'era solo
una cosa che doveva fare.
Assicurarsi
che colui a cui aveva donato il cuore non venisse inghiottito, come
sarebbe successo a lui, da quella guerra.
Doveva
salvarlo.
Non poteva
vivere, o meglio morire, con la consapevolezza di aver segnato anche
la sua fine.
Itachi
doveva vivere.
Una
lacrima silenziosa sfuggì dai suoi occhi, celata alla vista
del più
piccolo grazie alla completa oscurità.
Shisui
gli accarezzò una guancia.
Doveva.
“Itachi...”
“Sono
qui, Shisui.” rispose l'altro.
Il
ragazzo sorrise malinconicamente.
“Vorrei
che tu mi promettesi una cosa.” fece, ad un tratto
serio.
“Dimmi.”
Shisui
si fermò un attimo ad osservare come, anche se segnato dagli
avvenimenti, il volto di Itachi fosse ugualmente splendido. Si
impresse quell'immagine nella mente, gli sarebbe servita, una volta
lasciata la sua mano.
“Voglio
che tu viva. Non pensare mai di poter morire, aggrappati sempre alla
vita, qualsiasi cosa succeda” Itachi spalancò gli
occhi, ma il
cugino non si fermò.
“Devi
sempre, sempre, sempre pensare al domani, senza guardare al passato,
promettimi che dimenticherai questo periodo e che continuerai a
vivere. Promettimi che non ti lascerai mai schiacciare da
loro.”
“Che
continuerai a vivere, e che andrai avanti.”
“Shisui...”
fece l'altro “Sopravviveremo insieme.”
Il
ragazzo gli strinse la mano, sorridendogli, cercando di credere in
quelle parole.
“Promettimelo”
sussurrò soltanto.
Itachi
parve non capire, ma si strinse ugualmente al cugino, prima di
sussurrare quelle parole che, per sempre, lo avrebbero condannato ad
una vita vuota.
“Te
lo prometto.”
Shisui
sorrise ancora, poi si avvicinò al volto dell'altro.
Fece
per posargli un bacio sulle labbra.
Lo
voleva, Dio se lo voleva, ma non poteva rischiare.
Itachi
spalancò leggermente la bocca, per accogliere il bacio del
cugino,
bacio che, però non arrivò mai.
Dopo
aver indugiato ancora per qualche secondo su quella bocca delicata,
assaporando il bacio che non poteva dare, Shisui si spostò
di lato,
appoggiando le sue labbra sulla guancia del ragazzo.
Lo
salutò così.
Un bacio
sulla guancia ed una carezza.
Poi
lo prese per i fianchi e cambiò posizione, facendogli
appoggiare la
testa sul suo petto, come sempre.
Itachi,
interdetto, ascoltava i battiti lenti del cuore del cugino.
“Ti
amo.” fu solo un sussurro, ma al più piccolo
bastò per capire
ogni cosa. Tutto quello che erano, racchiuso in quelle parole.
Solo
una risposta, prima di concedere che il sonno lo accompagnasse fuori
da quel mondo grigio.
“Ti
amo anch'io, Shisui.”
And
I don't want the world to see me
'Cause I don't think that they'd
understand
When everything's made to be broken
I just want you
to know who I am
Arrivò.
Il
momento in cui tutte le certezze di Itachi si infransero,
nell'istante in cui veniva separato da lui.
Shisui
lo guardava, gli specchi celesti velati da uno strato di
malinconia.
Ed Itachi
non seppe cosa fare.
Continuarono
a guardarsi, mentre il giudice spezzava altre anime in pena.
L'ebano
più scuro degli occhi di Itachi, immerso nel ghiaccio di
quelli del
cugino.
Cielo nella
notte.
Buio nella
Luce.
Uno sguardo che
diceva mille cose.
Cose
mai pronunciate, promesse, amore, amore, amore.
E
non importava più dov'erano, né cosa erano.
Il
mondo intero perdeva il suo significato, di fronte a quello
sguardo.
Niente aveva
più importanza.
C'erano
solo loro due.
Ed il
loro Amore.
Itachi lo
pregava di non andare, mentre Shisui chiedeva il suo perdono per non
poterlo più proteggere da vicino.
Ad
un tratto la magia si dissolse, le SS entrarono nella stanza, e
portarono via Shisui, insieme al gruppo dei deboli.
Per
la prima volta in vita sua, Itachi si ritrovò a pregare.
Pregare
così forte ed intensamente, che a stento si riconosceva.
Pregava
perché quello fosse soltanto un incubo, pregava di
svegliarsi, nel
suo letto, da un momento all'altro, pregava Dio, perché gli
riportassero indietro ciò che gli era stato tolto.
Tutto.
Tutto
si erano presi.
Sua
madre, suo padre, le sue ricchezze, la sua casa, perfino la sua
dignità.
Ma quello non
potevano farlo.
Non
potevano togliergli anche Shisui.
Pregava,
pregava, pregava perché qualcuno riaccompagnasse suo cugino
in
quella stanza, dichiarando che tutto era solo un errore, che lui
poteva continuare a vivere.
Nello
stesso istante in cui Shisui sparì per sempre dalla sua
vista,
Itachi si rese conto di essere completamente solo.
Qualcosa
crollò, dentro di lui, mentre nella sua mente si faceva
spazio la
consapevolezza della terribile realtà.
No.
Non
era possibile.
Voleva
muoversi, camminare, correre, urlare.
Raggiungere
Shisui ovunque lo stessero portando.
Ma
non ci riusciva, era bloccato, schiacciato dal peso di quella
verità.
Aveva sempre
saputo che, prima o poi, Shisui o lui se ne sarebbe andato per
sempre, lasciando l'altro da solo, però ci aveva creduto.
Aveva
creduto a quel parole, aveva creduto che i suoi sogni, in un modo o
nell'altro, si sarebbero comunque realizzati. Con Shisui.
Itachi
si sentì come se qualcuno gli avesse strappato il cuore dal
petto e
si divertisse a calpestarlo, solo per vedere la sua reazione.
Era
solo, adesso.
Solo.
Shisui
non lo avrebbe più cullato, nel freddo delle notti, non
avrebbe mai
più sentito la sua confortevole presenza accanto a
sé, in ogni
momento.
Nessuno
sarebbe mai stato lì per lui, qualsiasi cosa succedesse.
Nessuno
lo avrebbe amato come faceva Shisui.
E
non avrebbe potuto amare nessun altro, come aveva amato
lui.
Improvvisamente si
fece strada in lui la voglia di piangere, eppure le lacrime non
riuscivano ad uscire dai suoi occhi.
Perché?
Voleva
la risposta, la esigeva.
E
non capiva.
Non seppe
come e quanto tempo fosse stato in quella sorta di trance, solo, ad
un certo punto, si reso conto di essere ancora vivo.
Purtroppo.
Neanche in
seguito, Itachi non riuscì mai a capire come fosse riuscito
a
trascinarsi stancamente verso il grande muro a cui ogni giorno,
aggiungevano i mattoni, e a caricarsi, come faceva sempre.
Non
sentiva i rumori, né le urla degli altri.
Solo
il martellare fastidioso del suo cuore, che si era rifiutato di
morire nell'istante in cui avrebbe dovuto farlo, quando Shisui era
stato portato via.
Poi,
come la flebile luce di una candela nella notte, un particolare gli
ritornò alla mente.
“Te lo prometto.”
La
nebbia era grigia, come tutte le giornate.
La
fame lo attanagliava, il sonno lo rendeva debole.
Il
suo cuore era rotto, ma nel suo petto, qualcosa, come un orologio,
batteva incessantemente, ed ora aveva trovato la sua ragione.
I
just want you to know who I am
I just want you to know who I am
Quando
la guerra finì, le persone rinchiuse nei campi di
concentramento
furono liberate.
Due
tipi di persone, erano le uniche ad essere sopravvissute.
C'erano
coloro che avevano cercato di andare avanti, sostenuti dalla voglia
di vivere, o dalla paura di morire.
E
c'erano coloro che, ormai, non erano più. Fantasmi
inghiottiti da
lacrime mai versate, gente morta, il cui cuore però
continuava a
battere.
Distrutti,
tanto che erano riusciti ad andare avanti solo per inerzia. Per
mantenere fede a tutto ciò che gli restava.
E
Itachi faceva parte di questi ultimi.
Lui
fu uno dei pochi che riuscirono a sopravvivere e a tornare a casa.
O,
almeno, tornò ciò che restava di lui.
Del
campo di sterminio, neanche uno dei più famosi, ormai
restano solo
le tracce.
I cadaveri
ritrovati furono sepolti in un cimitero vicino all'abbazia di St.
Agnés.
Un semplice
edificio, ormai provato dal corso del tempo e delle lapidi di legno e
pietra intorno.
Sotto
una di queste lapidi vi è il ricordo di Shisui Uchiha, ed
accanto ad
esso giace il cuore di Itachi.
Nel
suo petto rimane solo la fede.
Non
in Dio.
Ma nella sua
promessa.
I just want you to know who I am
****
Pregava
ancora, l'uomo inginocchiato davanti alla tomba.
Ad
un tratto la voce di una giovane donna lo riscosse dalla sua
preghiera.
<<
Itachi-sama... È ora di andare, si sta facendo tardi.
>>
Itachi si girò verso la sua governante, dando un'occhiata al
cielo.
Il sole stava tramontando e stavano sorgendo le tenebre.
<<
Itachi-sama... >> Ancora una volta, la voce della donna
gli
giunse solo come un'eco lontana.
<<
… Andiamo a casa. >>
L'uomo
raccolse il cappotto che aveva posato a terra e se lo
infilò,
iniziando a camminare verso la strada.
Poco
prima di raggiungerla, si voltò ancora verso la tomba.
Una
lacrima scese sulla sua guancia, disegnando un solco che
brillò,
illuminato dai flebili raggi del sole.
Una
lacrima.
Una sola.
Ma
non l'ultima.
Owari ~
NdA:
E' finita. Ancora non ci credo.
Questa
fic mi ha preso così dannatamente. Insomma, non credevo di
farcela
in tempo. Ci ho messo tanto e la sto inviando praticamente per un
soffio, ma davvero mentirei se dicessi che non mi sono emozionata,
mentre la scrivevo. Spero di essere riuscita a trasmettere a te, e a
chi leggerà, in seguito, tutte le sensazioni che avevo in
mente,
mentre l'ho scritta. Il quadro che ho scelto era splendido, e appena
l'ho visto mi è venuta un'ispirazione pazzesca, come non
credo che
mai nessuno e niente mi abbia dato. Insomma, ci ho voluto provare.
Di
solito io osservo, tutto, la gente, i luoghi, ogni cosa, e mi diverto
ad inventare una storia a ciascuno di questi particolari. Credo che
ogni cosa abbia una storia da raccontare. Probabilmente varia da
persona a persona, ma questa storia è quella che mi ha
suggerito il
luogo del quadro.
A dire la
verità, penso di essere andata
“leggermente” fuori tema, ma
tant'è. So anche che, nonostante io l'abbia letta e riletta,
ci
saranno degli errori madornali, ma insomma, chiamiamoli solo
“distrazioni”, come le chiamava la maestra delle
elementari.
XD
Ultima nota, magari ho
scritto delle cavolate inventate di sana pianta, sui fatti storici
accaduti durante la Seconda Guerra Mondiale, e di questo chiedo
umilmente perdono, purtroppo mi rendo conto che le mie conoscenze si
basano soltanto su quello che mi hanno insegnato alle medie e su
ciò
che ho imparato quando ho recitato in uno spettacolo su questo
periodo. Se ne parla sempre troppo poco, la gente non vuole mai
ricordare quello che è successo. Però anche se
ricordare fa male,
bisognerebbe farlo, per imparare da quegli errori, anche
perché, se
si va avanti così, ci ricascheremo di nuovo.
Ok,
scusa per questo sproloquio, ti lascio alla fic! ^^
La
canzone è “Iris” dei Goo Goo Dolls.
~2°
CLASSIFICATA
“Made
to Be Broken” di ShiIta (kyoko94 su EFP)
Grammatica
e lessico: 9.5
Stile:
10
Originalità: 9
Trattazione
del quadro: 9.5
Opinione
personale del giudice (sì, mi prendo questo piccolo sfizio):
4.5
TOTALE: 42.5
Assolutamente
no. Non sei andata fuori tema, perché in fondo hai mantenuto
l’atmosfera del quadro anche in ambienti diversi da quello
rappresentato. Hai mantenuto la nebbia, il senso di desolazione e
abbandono per tutta la durata della narrazione.
Per
l’originalità ti ho dato un voto alto, e sai
perché? Non per
l’ambientazione nei campi di concentramento o per il
sentimento tra
Itachi e Shisui, che ho visto entrambi utilizzati spesso in parecchie
fic, ma per il modo in cui li hai trattati. Ci sono frasi splendide,
spietate che mi hanno colpito in modo particolarmente incisivo.
Ad
esempio quando Itachi, che si era sempre sentito diverso e distante
dagli altri, sul treno verso il lager si rende conto di provare gli
stessi sentimenti, di condividere gli stessi pensieri delle persone
che gli stanno attorno. Lui! È un passaggio di una forza
prorompente.
E anche quando,
due pagine dopo, si chiede se per caso non è già
morto, e che
varrebbe la pena di provare a suicidarsi per vedere se si è
ancora
vivi. Non riesco nemmeno a commentarti questa frase, leggendola sono
rimasta senza fiato.
L’inizio
è molto bello e molto forte. C’è
qualche errorino di battitura,
ma niente di che.
La canzone
non ricordavo come facesse, così sono andata a cercarmela.
Devo dire
in un primo momento spiazza un po’: una canzone dei giorni
nostri
che accompagna una storia ambientata a metà ‘900,
peraltro
ispirata ad un quadro ottocentesco. Un miscuglio un po’
strano, che
se devo essere sincera non mi ha convinto molto. Non per le parole,
in sé adatte a descrivere ciò che lega Itachi e
Shisui, quanto per
la musica che accompagna la lettura. Credo che in una song-fic debba
esserci un minimo di corrispondenza tra ciò che si legge e
ciò che
si ascolta, a livello proprio di percezione, e per la tua storia
avrei immaginato una musica un po’ diversa. Ma questo
è
soggettivo, e tra l’altro è l’unica
perplessità che ho. Per il
resto, i miei complimenti. Se posso suggerirtelo, buttati nella
introspettive! Hai delle intuizioni per nulla scontate, secondo me
è
il tuo genere!~
Allora.
Questa
fic è arrivata Seconda.
E io
ancora non ci credo. XD
Però
ne sono davvero contenta e anche parecchio orgogliosa, se posso
permettermelo.
In ogni caso,
grazie a chi ha commentato e magari commenterà (anche se
è una
storia "vecchia" tranquilli che i commenti li leggo sempre
e mi fanno molto piacere xD) e grazie anche a chi ha soltanto
letto.
Davvero. <3