«Ditemi
come mi avete convinta.»
«Credo
che vostro fratello ci abbia spintonati al centro della sala.»
«Allora
ricordavo bene.»
Una
festa di fidanzamento, ben lontana dalla sontuosità di quel
lontano ballo che
tutti ricordano con sentimenti contrastanti, li vedeva partecipi di un
impacciato tentativo di convivenza temporanea su un minuetto il cui
ritmo
avevano perduto dopo pochi passi. L’armonico scivolamento
degli archetti suoi
violini e la metallica cadenza del clavicembalo erano stati relegati a
elementi
di contorno, in quel cercarsi e fingersi distaccati, in
quell’idea di danza che
stavano improvvisando, mantenendo un’ossessionata costanza
nel non sfiorarsi
troppo.
Ringraziando
Fabrizio che l’evento fosse stato studiato per pochi intimi,
era tuttavia
impossibile non sentirsi fuori posto in mezzo a quella gente,
benché amici di
famiglia e parenti. O forse era proprio perché non erano
perfetti sconosciuti,
che il disagio non scemava, conoscendo questi le loro storie e i loro
peccati.
«Se
state per dire che ci stanno guardando tutti, non sprecate
fiato» lo avvertì,
traendo subito dopo un respiro, per recuperare il suo, di fiato, corto,
non di
certo conseguenza dell’andatura del ballo, bensì
del cuore accelerato da quelle
che non poteva permettersi di chiamare emozioni.
«Siete
così attenta a ciò che accade intorno a voi, che
non vi siete accorta che la
melodia è variata» le fece notare accennando un
sorriso.
Anna
avvampò, bloccando l’ondeggiare monotono del suo
corpo per acuire più sensi
possibili e recuperare in extremis le coordinate di un nuovo ritmo e la
disposizione degli invitati entro la sala. Niente di tutto
ciò era necessario.
Antonio, la mano destra solidamente poggiata sul suo fianco, e la
sinistra
stretta a quella di lei, assecondò per
quell’istante l’incertezza della donna,
ma la condusse subito dopo a riprendere la coordinazione di movimenti
con le
altre coppie che, al contrario di ogni timore, non avevano lontanamente
fatto
caso a loro. Il vestito rosa chiaro venato di stoffa dorata
ricominciò a
frusciare attorno alle gambe di Antonio, e Anna si sentì
già più sicura di dare
meno nell’occhio, protetta dalla capacità del suo
compagno di danze di portarla
nonostante fossero passati anni dall’ultima volta che aveva
avuto l’occasione
di esercitare l’arte della danza.
La
vivacità della musica fece dimenticare ad entrambi le
parole: si rifugiarono
l’uno negli occhi dell’altra, rapiti Anna dalla
pacatezza e dalla sicurezza che
quelli di lui le mostravano, e Antonio dall’irrequietezza di
quelli di lei,
conseguenza di una voglia contrastante di lasciare immediatamente la
sala e di
continuare senza dovere mai smettere. In tal caso come tornare al bordo
della
pista figurando come una coppia soddisfatta dei giri di ballo? Anna
avrebbe
voluto svincolandosi dai luoghi comuni del prendersi per mano, o
sorridersi, o
inchinarsi e poi ognuno per la propria strada. La musica
terminò, alcune coppie
si dissolsero e anche Anna si mostrò interessata a
sospendere la farsa, se non
fosse stato per Antonio, che l’accompagnò ai
limiti della sala a braccetto, con
l’ufficialità di un rito tale da inorgoglirla e al
contempo spaventarla.
Distanziatisi
dal vociare allegro degli ospiti attorno ai visi distesi e sorridenti
di Elisa
e Fabrizio, la contessa Ristori attese in silenzio che Antonio
riprendesse la
conversazione, cercando una distrazione nello studio della stoffa della
sua
gonna, che sfregò come a stirare una piega.
«Spero
non ne siate pentita.»
«Si
aggiungerebbe solo al lungo elenco.»
«Immagino
chi possa occupare il primo posto.»
Anna
alzò il capo, intristita da quella risposta, o forse
arrabbiata, consapevole
del fatto che in cima alla lista dovrebbe ora esserci lei, col proprio
tempismo
a rovinare anche ciò che oggettivamente fosse bello.
«Che
ne sapete» ma non c’era la forza di ribattere, come
il coraggio di mantenere un
contatto visivo con lui. Tornò a stropicciarsi la gonna,
nervosa e col cuore
palpitante nel petto. «Non mi avete costretto voi, ma mio
fratello.»
Inutile
risalire a chi appartenesse la colpa, eppure ogni volta ne sentiamo il
bisogno,
per accertarci che i nostri gesti sbagliati siano da imputare ad una
ragione
che trascenda da noi.
«Se
non avessi accettato l’invito, voi non avreste dovuto
sottoporvi a questa
tortura.»
«Invece
per voi non è stato un grosso sacrificio.»
Antonio
sbatté le palpebre e tenne chiusi gli occhi un attimo di
più, nella convinzione
che la conversazione potesse non degenerare. Non doveva succedere.
Socchiuse le labbra per parlare, ma non accadde davvero
niente, come agognato da entrambi.
Anna
indietreggiò di un passo, per l’ennesima volta
odiandosi, e per una volta
ancora domandandosi cosa li obbligasse a far perdurare quella guerra,
che
giorno dopo giorno sfiancava i suoi combattenti, rendendoli sempre meno
proni a
reagire. Sarebbero capitolati nel tentativo di sfiorarsi per farsi
male,
tuttavia senza mai conseguire questo obiettivo. Chi era la vittima, in
quel
gioco delle parti, chi si immolava per il bene o per il godimento
dell’altro?
«Scusate.»
Non
ebbe il tempo di chiederle a cosa fossero dovute quelle scuse, se
all’improvviso
congedo o alle parole pungenti, di quel momento o di altri in passato.
Finì
per seguirla lungo il corridoio appena fuori dal salone, senza fretta e
angoscia di perderla, perché oltre alla voglia di ferirsi si
era persa anche
l’ambizione alla fuga.
«Come
riuscite ad essere sempre così accondiscendente»
chiese o piuttosto constatò
Anna, nella penombra delle candele appese alla parete.
«Non
mi è così difficile. Se non sbaglio
l’avete notato anche voi pocanzi.» Antonio
le fu vicino, e per questo osservò turbamento negli occhi
della donna che
agitati sviavano dallo sguardo di lui.
Le
loro voci risuonavano nella nudità dell’ambiente,
e solo in sottofondo potevano
essere percepite le note di un altro minuetto, in tempo utile
perché nessuno
dei due potesse concentrarsi sui respiri dell’altro,
più irrequieti e
irregolari, ora che entrambi avevano percezione
dell’intimità in cui si
trovavano.
«Se
volete tornare alla festa è vostro diritto»
definì Anna, perdendo la voce
impostata. «Io sono stanca e preferirei ritirarmi nelle mie
stanze» dichiarò
come un disco rotto di ogni nobildonna che o si sia realmente annoiata
nella
conversazione mondana a cui prendeva parte, o desiderava soltanto che
la
reazione nell’altro sesso fosse di impazienza nel vederla
ancora successivamente.
Ma
Antonio non disse niente, perché sorrise, e
accennò ad annuire, senza mostrare
ragione di essere deluso o dispiaciuto. Solo la conosceva, e aveva
preventivato
che potesse o dovesse finire così.
«Non
dite niente?»
«È
casa vostra» affermò, lapalissiano.
Percepì una nota di stizza nell’espressione
della nobildonna, quasi si aspettasse una reazione più
aggressiva, famelica di
nuove parole, di altri discorsi.
Ma
anche Anna lo conosceva troppo bene, e sapeva di non avere scampo alla
fermezza
della sua voce e alla compostezza delle sue risposte.
Che
si stessero illudendo entrambi di trovarsi di fronte persone cambiate?
E
se
invece volessero davanti a loro proprio le stesse persone di sempre, e
stessero
facendo qualunque cosa pur di non dimostrarlo?
«Buonanotte,
Anna» riprese lui, quasi sfidandola. Ognuno al suo posto,
ognuno uguale a se
stesso, ognuno teso come sempre nella speranza che l’altro
compiesse un gesto
perché tutto potesse finalmente precipitare.
Anna
sorrise, poi strinse le labbra, poi si morse l’interno di una
guancia, poi si
schiarì la voce, guardò a terra il buio
pavimento, infine risalì lo sguardo
sull’intera figura di lui, che non si era spostato
minimamente, anzi, sembrava
divertito.
E
a
lei faceva innervosire.
La
faceva impazzire, così, nel suo silenzio, nella sua
impassibilità.
«Volete
che vi accompagni?» Risolse infine, notando il
disorientamento della donna.
Paradossale, quando poco prima si era scomodato nel puntualizzare a chi
appartenesse la tenuta e chi fosse l’ospite.
«Non
credo sia-» Una porta sbatté poco lontano da loro,
e Anna sobbalzò, sospirando
subito dopo, resasi conto dell’esagerazione nella sua
reazione. E si disse
sciocca, per l’acuirsi dei sui sensi come se quella
situazione fosse illecita e
segreta. «Non credo sia necessario» concluse e si
voltò, il cuore ancora a
battere forte.
Antonio
l’osservò allontanarsi
nell’oscurità, la gonna frusciando sul pavimento.
Appoggiò
la schiena alla parete e chiuse gli occhi, per non cadere nella
tentazione di
continuare a fissarla finché la sua figura non fosse del
tutto scomparsa.
Lasciò trascorrere minuti, perché solo
così l’avrebbe immaginata già distesa e
in procinto di addormentarsi, e solo così avrebbe potuto
rassegnarsi all’idea
che stessero camminando in due direzioni diverse lungo lo stesso
corridoio,
come sempre avevano fatto negli ultimi tredici anni. Il freddo della
parete e
della serata stava ormai permeando dalle pesanti stoffe
dell’abito, e constatò
fosse il momento di condursi lentamente verso casa, per non rischiare
di
incorrere in qualche servitore che stupito si sarebbe domandato per
quale
motivo il medico del borgo frequentasse in solitaria i corridoi del
palazzo.
All’improvviso
sentì una stretta senza forza attorno al suo avambraccio.
Spalancò gli occhi
per catturare quanta più luce possibile, ma gli sarebbe
bastata anche quella di
un unico cerino a metri di distanza per riconoscere i lineamenti del
suo volto.
«Anna»
sussurrò dando atto di averla riconosciuta, come vi fosse un
premio in palio,
ma era lei il suo premio, e allora avrebbe ripetuto quel nome anche una
seconda
e una terza volta, per il sollievo che non fosse nessun altro se non
lei, per
la sorpresa di rivederla dopo quei tanti buonanotte, per la sola
ragione di
pronunciarlo, quel nome. «Anna» ripeté,
la stessa voce, il tono diverso, un
sorriso e un sospiro.
«Ho
dimenticato lo scialle» spiegò, l’abito
ancora perfetto come se non si fosse
nemmeno seduta.
«Non
avevate lo scialle» osservò lui, senza che nessuno
si chiedesse perché a
distanza di un quarto d’ora fossero entrambi ancora allo
stesso punto di
partenza.
«Lo
so.»