Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: ContessaDeWinter    15/05/2016    0 recensioni
L’elastico della moleskine penzolò nel vuoto, quando incominciò a scrivere, come un pendolo che scocca l’ora fatale.
Chiuse gli occhi. E iniziò.
Una parola al giorno. Ecco cosa. La sua unica concessione, l’unica eccezione al silenzio deleterio.
Una parola al giorno, scritta nell’enfasi di un attimo, dettata da qualcosa che non sapeva distinguere all’altezza del petto, gli occhi strizzati a combattere la poca luce delle sei del mattino, la penna stretta tra le dita della mano destra, tremante per il freddo.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Moleskine:

Quello che non ti ho mai detto.


 
A volte le parole sono meno efficaci quando non sono pronunciate. Meno dolorose, meno fredde, meno vaghe. Lei l’ha sempre pensata così e continuerà a farlo sino a quando non troverà anche un solo motivo per sostenere l’opposto.
Sua madre continuava a dire che Elisa aveva una testa al contrario, come quei bambini che per la voglia di sentirsi grandi tendono a contraddire tutto ciò che i genitori dicono, solo per il semplice gusto di farlo. Peccato che lei non traesse alcun conforto dalle proprie posizioni, dalle proprie idee, così diverse da ciò che tutti gli altri sostenevano.
Forse era per quello che non aveva amici. O, quantomeno, lei non si apriva molto con quei pochi conoscenti che poteva affermare di avere. Ne apprezzava la presenza quando le stavano accanto, senza pronunciare nulla. Li ammirava per quella loro predisposizione al silenzio, ai gesti appena accennati, senza mai vederli perdere il contegno.
Lei non era quel genere di persona. Se avesse potuto, se solo avesse potuto parlare con qualcuno, non si sarebbe risparmiata per niente. Si sarebbe seduta accanto a quella persona, con una tazza di latte alla vaniglia in mano rigorosamente freddo, e si sarebbe sciolta in un mare di parole incomprensibili. Avrebbe sicuramente perso il filo del discorso, almeno una decina di volte, riallacciandosi a situazioni passate e previsioni future con una facilità impressionante. Non si sarebbe fermata per ore. Avrebbe continuato a gesticolare con le mani, per tutta la conversazione, creando spirali e forme dai contorni incomprensibili nell’aria attorno a sé, rendendo anch’essa partecipe del suo vivere quotidiano. Instancabile.
Poi l’avrebbe ascoltata, quella fantomatica persona, attentamente, pazientemente come sapeva fare lei. Come aveva sempre fatto, sin da quando era nata.
E, invece. Già, invece.
Elisa era lì, guardava le persone passeggiare per la strada.
Il cappuccio della felpa calato sulla testa, le scarpe da ginnastica sfilacciate in più punti e di un nero sporco, perfettamente intonate al jeans blu slavato.
Le cuffie del vecchio MP3 nelle orecchie, mentre i Trading Yesterday cantavano:  
Keep on running, further, faster.
 
*
 
Milano era bella sempre, anche quando pioveva. Anche la mattina presto, con i rumori delle poche auto di passaggio attutiti dalle pozzanghere createsi sull’asfalto, il cielo dominato ancora dalla notte.
Elisa aveva un rito, da cinque anni a quella parte. Una specie di tradizione cui rendeva onore ogni nuovo giorno, prima del sorgere del sole. Era un po’ un segreto, un po’ una routine dalla quale non riusciva a staccarsi.
Le infondeva una strana sicurezza, la metteva a suo agio. Alleviava il perpetuo groppo in gola che le toglieva il respiro, a ogni battito di ciglia.
Si sedeva lì, sul muricciolo del parco vicino a casa sua, con una penna alla mano e la sua adorata moleskine nera. A ogni nuova pagina, aveva provveduto a enumerare i giorni di ogni mese. Da settembre a gennaio. Da febbraio ad agosto.
La Bic blu sulla carta spessa e leggermente giallastra era un contrasto che Elisa aveva sempre adorato osservare: al buio, riusciva a distinguere chiaramente la propria calligrafia, leggermente curva verso destra e particolarmente arricciata in ghirigori chiusi. La sua scrittura la rappresentata molto, in effetti. Ma nessuno aveva mai prestato attenzione a questo particolare.
Anche quella mattina, come tutte le altre (come sempre), Elisa rimase ferma immobile per alcuni istanti, avvolta nella quiete di una città che si attardava a svegliarsi, osservando i rivoli scuri di quel 16 gennaio appuntato in alto a destra su di una pagina della propria agenda personale.
L’elastico della moleskine penzolò nel vuoto, quando incominciò a scrivere, come un pendolo che scocca l’ora fatale.
Chiuse gli occhi. E iniziò.
Una parola al giorno. Ecco cosa. La sua unica concessione, l’unica eccezione al silenzio deleterio.
Una parola al giorno, scritta nell’enfasi di un attimo, dettata da qualcosa che non sapeva distinguere all’altezza del petto, gli occhi strizzati a combattere la poca luce delle sei del mattino, la penna stretta tra le dita della mano destra, tremante per il freddo.
 
16 gennaio.
Correre.
 
17 gennaio.
Viaggio.
 
18 gennaio.
Velocità.
 
*
“Forse, sai, dovresti scartarlo,” le sorrise sua madre, incitandola con gli occhi lucidi e allegri. Luminosi.
Come poteva averli così luminosi?
Seduta al tavolo della cucina, le mani intrecciate attorno al piccolo involucro rigido, Elisa la guardò stupita. Non le chiese cosa fosse o, quantomeno, il motivo per il quale le avesse regalato qualcosa. Loro due non si facevano mai regali reciprocamente.
Eccetto nei momenti importanti. Per le cose importanti.
Che si fosse dimenticata di qualche ricorrenza particolare?
“ Prima che tu inizi a fare strane congetture, no: non hai dimenticato nulla. È solo che, beh… ieri sono passata davanti a quel negozio in centro, ti ricordi? Quello che abbiamo visto l’altro giorno! Che vende roba tecnologica. Ci sono passata davanti stamattina, andando in ufficio. E ho notato questa cosa ed ho pensato ‘perché no? Magari le piace!’. Mi ha aiutato il commesso a sceglierla, io non avrei saputo neppure da che parte guardare. Spero ti piaccia. In caso contrario, lo sai, puoi sempre cambiarla. Dico davvero! In qualunque momento. Ho lo scontrino. Ce ne sono così tante, dovresti-”
Elisa smise di ascoltarla (sua madre sapeva essere prolissa in maniera esasperante, a volte). L’abbracciò semplicemente, sperando che percepisse il proprio affetto per lei. Evidentemente fu così, perché la donna s’interruppe di colpo, stringendola forte per alcuni minuti.
Dopo aver sciolto l’abbraccio, Elisa si dedicò al pacchetto, rompendo la carta in tante parti uguali, tagliando con un coltello il cerotto trasparente ai lati e avendo cura di non rovinare eccessivamente il fiocco di nastro verde speranza.
Le mani le tremarono un po’ per l’aspettativa ed il suo respiro si bloccò a metà, quando notò di cosa si trattava.
“ Non ne hai mai avuta una. È giunto il momento in cui tu possa catturare la realtà non solo a parole.” Disse sua madre, guardandola fissa negli occhi, con tono sincero e indescrivibilmente fiero.
La amò un poco di più.
Fu la prima persona ad essere immortalata nella memoria di quella fotocamera.
Un ricordo indissolubile da aggiungere alla sua moleskine nera.
 
 19 gennaio.
Mamma.
 
*
 
Famagosta, fermata della metropolitana verde.

È tutto così caotico. Ragazzi che ridono, sguaiatamente, fastidiosamente rumorosi. Elisa sente di odiarli profondamente.
I loro sguardi non smettono di tormentarla, la scrutano con fare diffidente quando invece è lei a diffidare di loro.
Non si fida delle persone, non l’ha mai fatto. Odia quando si avvicinano, odia incontrarli per strada, odia ascoltarli parlare, odia la loro superficiale allegria, odia il loro chiacchiericcio sommesso. Non può tollerarli. Desidera con tutta se stessa tornare a qualche ora prima, quando era avvolta dal piumone pesante a fiori gialli e blu, al sicuro da tutto. Un rifugio perfetto per sé e per i suoi sogni irrealizzabili.
Il treno della metro arriva, in ritardo. Ma anche lei quella mattina è in ritardo, sennò non si sarebbe ritrovata a condividere il proprio spazio con loro.
Qualcuno ride più forte quando quasi inciampa nei suoi stessi piedi, le gambe pericolosamente molli.
Un leggero ‘sfigata’ le scivola sulla pelle, nel momento stesso in cui mette un piede nel vagone centrale. Ma c’è troppa gente, troppi volti, troppi sguardi, troppe parole.
E d’improvviso capisce che non può farlo, non può farcela. Le manca l’aria. Si appoggia alla porta a vetri, dietro di lei, perché lo spazio non è abbastanza. Non è abbastanza, no. Non per Elisa e tutto il suo universo e di certo non per tutti quei ragazzi che la lasciano lì, ad agonizzare, nel bel mezzo di un vagone della metro verde, tra Famagosta e Romolo.
Prende un respiro profondo e sfila dalla tasca il suo MP3. Mette le cuffie.
 Starà meglio, dopo. Sì, la musica sarà sempre lì per lei.

In those discouraging days,
I always missed the mark.
*
 
Elisa ha un problema. Lei lo sa, lo comprende, l’ha assimilato col tempo, accettandolo gradualmente senza chiedersi mai il perché di ciò (a dire il vero ci aveva provato, a non tormentarsi con quella domanda, ma non vi era riuscita: quel ‘perché Io?’ era aleggiato nella sua mente per sin troppo tempo).
Fa parte di sé e quel senso d’impotenza non l’ha mai davvero lasciata. Neppure per un singolo istante. Quella mancanza d’ossigeno, perennemente adombrata dall’emarginazione, costantemente sottolineata dal modo in cui tutti parevano evitarla.
Un’infetta, malata cronica.
Un mostro.
C’è qualcosa più destabilizzante di questa consapevolezza?

 
24 gennaio.
Ho paura di voi. Più che della solitudine.

*

Era iniziata così. Una caduta lenta in un oblio indistinto di dolore e confusione e ossessione e abbandono. Gradualmente, una pallina che rotola giù da un piano inclinato e tenta di arrestare la sua corsa. Ma le leggi della meccanica non sbagliano mai.
C’è sempre un punto limite, per quella pallina sul piano inclinato. Un luogo fisico oltre il quale lei non può andare, che non potrà superare. Perché i piani inclinati, nella realtà, non sono infiniti.
Sarà costretta a fermarsi lì, dove la natura vuole e la logica non può.
Ed Elisa sarà lì, anche lei, ad aspettare che la propria psiche si arresti dall’essere perseguitata dai propri demoni.
Lei era brava ad attendere in silenzio.
 
*
 
La moleskine rimase inutilizzata su uno scaffale, non troppo in alto, della libreria piena zeppa di classici della letteratura che Elisa soleva collezionare in vita. Sua madre non li aveva toccati, da che lei non c’era più. Ma quando, quel martedì mattina di circa due anni dopo la morte di sua figlia, Anna la scorse non poté resistere.
Il senso di colpa pulsante come non mai.
Era sempre stata incuriosita da quella piccola agenda rilegata, nera come la pece degli occhi di sua figlia. Una volta si era anche arrischiata a sfiorarla, ma non aveva avuto il coraggio di aprirla e rivelarne i segreti. Ma ora che senso avrebbe avuto, rimanere in silenzio?
La donna vagliò la possibilità di rimetterla al suo posto, accanto alla macchina fotografica che le aveva regalato circa una vita fa, ma il dolore riemerse instancabile. Dovette fermarsi un attimo, appoggiarsi alla scrivania per poi sedersi su una sedia.
Perdere una figlia. Nessuno avrebbe mai capito quel sentimento alla bocca dello stomaco. E pregò che mai nessuno lo provasse. Perché era così acuto, così struggente e deleterio da farle girare la testa.
Strinse l’elastico del diario, imprimendo nella propria mente il materiare ruvido ma familiare, mentre i ricordi si affollarono ai margini dei propri occhi, come tante istantanee scattate distrattamente.
E lo aprì sull’ultima pagina.
 
 
 
25 gennaio.
Libertà.
  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: ContessaDeWinter