Se
c’era una cosa in cui Jack sapeva di essere bravo, quella era la capacità di
organizzare party e feste a sorpresa. Probabilmente era in parte dovuta a
questa consapevolezza la scelta di aprire un night club, anche se era
sicuramente più legata al fatto di essere una persona che si trovava
incredibilmente a proprio agio in ambienti come quello di un night.
L’appartamento
di Connor non era mai stato tanto pieno. C’erano persone praticamente ovunque,
intente a bere, conversare e ballare.
Grazie
al finanziamento che il fratello gli aveva accordato sette giorni prima, il
night club di Jack non era più un sogno. Nell’ultima settimana il ragazzo aveva
lavorato parecchie ore per far sì che i suoi progetti – già ben strutturati da
prima – diventassero il perfetto programma di lavoro per dare vita alla sua
creazione. Lo stabile che aveva adocchiato da mesi era stato fermato e i lavori
erano cominciati e tutto solo per merito di Connor e dei soldi che aveva
anticipato a Jack.
Così,
per sdebitarsi – almeno simbolicamente – Jack aveva chiesto ad Amber di poter
organizzare nel loro appartamento una “piccola” festicciola a sorpresa in onore
del fratello, come modesto regalo. Amber, circospetta nel primo momento, aveva
dato la sua approvazione e nell’arco di un giorno Jack aveva trovato persone,
alcol e musica a sufficienza per tirare avanti una notte intera.
Stava
osservando compiaciuto quello che era riuscito a mettere in piedi e le
espressioni soddisfatte dei partecipanti quando Amber gli si avvicinò, posando
una mano sulla sua spalla e sovrastando il volume della musica. «Sta arrivando,
ho visto la sua macchina.»
Informato
dell’arrivo di Connor, Jack abbassò il volume dello stereo, sollevando proteste
da parte dei partecipanti. Li calmò con un sorriso e un ampio gesto delle
braccia: «Rilassatevi, riavrete la vostra musica. Mio fratello sta arrivando e
sapete tutti che questa festa è per lui.»
Bastarono
quelle poche parole per tranquillizzare i presenti. Amber abbassò le luci e le
voci si acquietarono. Jack si sistemò davanti alla porta, in attesa del
fratello.
Quando
Connor entrò in casa rimase interdetto solo un momento alla vista delle luci
spente, dopodiché la sua espressione si fece sorpresa quando un coro di grida
di benvenuto si alzarono dietro alla figura che riuscì a riconoscere come
quella di Jack. Si guardò intorno, incuriosito, mentre qualcuno tornava ad
alzare il volume della musica e le voci riprendevano a sovrastarsi a vicenda.
«Che
significa?» chiese Connor rivolto a Jack, il quale continuava a rimanere fermo
davanti al fratello, un sorriso radioso in volto.
«È
la tua festa» gli rispose. «Prendila come un semplice ringraziamento per il tuo
finanziamento» concluse, stringendosi brevemente nelle spalle.
Connor
lo squadrò per un lungo momento, un sorriso appena accennato in volto. Infine
puntò lo sguardo sul suo appartamento per valutare il tipo di persone presenti
alla “sua” festa. Riconobbe diversi volti, ma ne vide anche parecchi di
sconosciuti.
«Come
hai fatto a convincere Amber?» domandò poi, tornando a guardare Jack. Lui si
esibì in un’ espressione contrariata, come se fosse appena stato offeso da
quelle parole. «Le ho semplicemente chiesto il permesso e lei ha accettato.»
Connor
gli scoccò un’occhiata diffidente. «Ah sì? Curioso. Di solito le feste che dai
tu non sono fra le più tranquille e pulite.
Semplicemente per questo motivo mi stavo chiedendo come mai Amber non avesse
avuto problemi a lasciarti il nostro appartamento.»
Jack
sospirò, passandosi una mano fra i capelli, impaziente. «Oh, andiamo. Perché
per una volta tanto non ti rilassi e cerchi di divertirti? È la tua festa.»
«Festa
a cui, sono abbastanza sicuro, non sta circolando solo alcol e testosterone.»
Le
labbra di Jack si arricciarono, l’espressione di chi è appena stato colto in
flagrante. Estrasse dalla tasca interna del suo giacchino di pelle – che
portava sopra una camicia bianca in parte slacciata – una bustina trasparente,
un paio di piccole capsule bianche contenute al suo interno. «Non so gli altri,
io ho solo queste. E francamente stasera non ho voglia di usarle. Se non ti va
di fare il moralista rompicoglioni posso darne una a te.»
Connor
non reagì. Spostò lo sguardo alla sinistra di Jack dove era appena comparsa
Amber, sorridente. Il fisico asciutto della ragazza era ben evidente sotto il
vestito che indossava, i lunghi capelli neri le ricadevano morbidi fin sotto le
spalle.
Guardò
il compagno. «Stranamente sono d’accordo con Jack, dico sul serio. Non
prendiamo mai parte a questo genere di cose, per una volta potresti anche
lasciarti andare.»
La
vellutata voce di Amber sortì l’effetto desiderato. Connor rilassò visibilmente
le spalle, accontentandosi di ciò che la compagna gli aveva appena detto. Jack
non aggiunse altro. Fece scivolare una delle due capsule sul palmo della mano,
tendendola al fratello. «Se vuoi provare» gli disse.
Connor
guardò la piccola pillola bianca, dubbioso. «Quanto dura l’effetto?»
«Direi
tre ore. Al massimo quattro, ma è difficile» rispose, precedendo le parole da
un’alzata di spalle.
Il
fratello non si mosse, fu Amber a prendere l’iniziativa. Raccolse dal palmo di
Jack la capsula e la mise in bocca, ondeggiando fino alle braccia di Connor e
baciandolo immediatamente perché la pillola potesse passare dalla bocca di una
a quella dell’altro. Jack li guardò divertito scambiarsi quel bacio, dopodiché
si voltò verso il resto degli invitati così da poter finalmente prendere parte
alla festa.
*
Jack
cominciò a rivestirsi in piedi, leggermente instabile sulle proprie gambe, nel
buio della camera. La stanza era quella degli ospiti dell’appartamento di
Connor, sul letto alle sue spalle un ragazzo e una ragazza erano distesi
vicini, i respiri lenti e soffusi nel sonno. Jack rimase a guardarli, prima
spettinandosi i capelli, poi allacciandosi la camicia, lievemente sgualcita.
Aveva la testa ancora leggera per via del molto alcol ingerito durante la
serata, mentre l’eccitazione provata durante un rapporto a tre era prossima a
esaurirsi.
Si
avviò fuori dalla stanza, il passo trascinato e lo sguardo vacuo a scrutare
intorno. In casa di Connor erano rimaste davvero poche persone. Suo fratello e
Amber erano sicuramente chiusi nella loro camera da letto; nel soggiorno tre
persone erano sedute sul divano, profondamente addormentate. Jack diede una
rapida occhiata all’orologio posto sopra il televisore e si accorse che erano
le tre passate. Si sentiva stanco e voleva tornare a casa, nient’altro.
Uscì
dall’appartamento e si incamminò verso il suo quartiere lungo le strade quasi
deserte della notte di Washington. Qua e là gli capitava di imbattersi in
qualcuno, personaggi poco raccomandabili per lo più, a cui non prestava la
minima attenzione, limitandosi a continuare a camminare. Come vide un taxi
passargli accanto estrasse istintivamente la mano, facendolo fermare. Vi salì e
si sedette, dicendo il proprio indirizzo di casa con voce strascicata. Infine
appoggiò la testa contro il seggiolino e chiuse gli occhi.
Quando
il tassista gli disse che erano giunti a destinazione Jack sollevò la testa
troppo in fretta e si sentì sprofondare in un vortice. Cercò di ridestarsi in fretta, ignorando le
vertigini e, appena ebbe pagato, scese dalla vettura e raggiunse il portone d’ingresso
del condominio.
*
Riley
fu svegliata di soprassalto. Ci mise un po’ a capire cosa fossero i rumori che
stava sentendo, così ritmati e forti. Qualcuno stava bussando alla porta, con insistenza.
I colpi erano ripetuti in modo frettoloso, separati fra loro solo da pochi
istanti di silenzio. La ragazza controllò l’orario e notò che erano le quattro
del mattino. Non aveva idea di chi potesse essere a bussare alla porta a
quell’ora e un moto d’ansia l’assalì. Provò a ignorare i rumori provenienti dal
soggiorno, ma chiunque stesse bussando non era minimamente interessato a
smettere. Si alzò dal letto e afferrò la mazza da baseball che teneva accanto
al comodino; dopo la visita ricevuta in casa propria da parte dei ladri, Riley
aveva ben pensato che era meglio munirsi di qualcosa con cui difendersi nel
caso ce ne fosse stato bisogno. Attenta a non far rumore si avvicinò alla porta
d’ingresso, ancora percossa dai colpi. Sbirciò dallo spioncino con l’illusa
speranza di vedere il volto della persona oltre la porta, ma come prevedibile
le luci erano spente e lei riuscì solo a distinguere una confusa macchia scura.
Strinse con forza maggiore la mazza d’alluminio nella mano destra e cercando di
mantenere l’autocontrollo disse: «Chi è?»
La
risposta tardò di pochi secondi e sembrava provenire da dentro la porta stessa:
«Jack.»
Sorpresa,
Riley allentò la presa dalla mazza da baseball, accese la luce della sala e
aprì. Si trovò davanti il ragazzo, i capelli scompigliati, gli occhi lucidi dal
troppo alcol e dalla stanchezza, l’alito di chi aveva bevuto ben più di un
bicchiere di vino. Riley si scompose appena a quella vista. Jack aveva
l’aspetto di uno che si stava lentamente distruggendo con le proprie mani – e
la ragazza sapeva che, purtroppo, non si trattava solo di un’impressione – ma
le fu impossibile non trovarlo dannatamente bello anche in quello stato. Un
sorriso solcò il viso del ragazzo quando incontrò lo sguardo di Riley. «Non
volevo svegliarti, scusa» disse. Masticava le parole e aveva bisogno di
reggersi allo stipite della porta per evitare di perdere l’equilibrio, gli
abiti disordinati a coprire il suo corpo.
«Stai
bene?» gli chiese la ragazza, posando finalmente la mazza.
«Sì.
Io… sì» fu la risposta. «Sono appena venuto via da casa di Connor. Ho dato una
festa e, beh, credo sia andata piuttosto bene.»
Riley
sapeva ciò di cui stava parlando. Jack l’aveva invitata a quella festa a
sorpresa, ma lei aveva preferito non andare.
«Mi
aspettavo di vederti» ammise Jack.
Lei
abbassò lo sguardo. «Non sono il tipo da feste, dovresti saperlo. Avrei
annoiato tutti.»
Jack
la guardò, serio. Si avvicinò di un passo, fermandosi quasi a contatto con il
corpo della ragazza. Inclinò la testa di lato e sollevò appena le spalle. «Sai
che non è vero. Saresti sicuramente piaciuta.»
Riley
preferì non rispondere. Distolse lo sguardo, facendolo scorrere lungo la zip
aperta per metà della giacca del ragazzo. «Magari la prossima volta» mormorò.
Jack
annuì lievemente con la testa, rimanendo a guardare la ragazza. Quando lei
tornò a sollevare gli occhi per vederlo bene in faccia si aspettò una risposta
da parte sua che non arrivò mai. Lui continuò a guardarla, in silenzio e Riley
non poté fare a meno di notare i lineamenti sciupati dalla stanchezza. Con
tutta probabilità era in piedi da molte più ore di quelle che un corpo normale era
in grado di sopportare e la massiccia assunzione di alcol – e forse non
esclusivamente quello – aveva contribuito a consumarlo ulteriormente.
«Dovresti
andare a dormire. Mi sembri stanco» disse la ragazza a un certo punto.
Jack
parve sorpreso. Si guardò un momento intorno, infine si stropicciò gli occhi
con le dita e fece scorrere la mano fino al collo. «So che non sembra, ma non
ho sonno.»
Prima
che Riley potesse replicare il ragazzo riprese parola: «Ti andrebbe di farmi
compagnia per un po’? Non…»
Inspirò
a fondo: «Non ho molta voglia di stare da solo.»
Fu
Riley a sorprendersi questa volta. Guardò Jack in modo confuso, chiedendosi
quanto le convenisse seguire il ragazzo in quello stato. Tuttavia una parte di
lei le fece capire che lasciare da solo Jack quella sera sarebbe potuto essere
un grave errore. In fin dei conti si sentiva sveglia e aveva perso sonno per
molto meno nelle settimane precedenti.
«Va
bene» rispose alla fine. «Ti accompagno nel tuo appartamento?»
Jack
annuì, sollevato. Mentre lei si infilava una felpa e prendeva le proprie chiavi
di casa sentì il ragazzo aprire l’ingresso del suo appartamento. Entrandovi, Riley
lo trovò più ordinato di quanto non fosse stato in precedenza, fatta eccezione
per il tavolo, ingombro di carte, taccuini, penne e qualche bottiglia. Jack si
era già tolto la giacca e si era sistemato sul divano, una bottiglia d’acqua
stretta in una mano e l’altra sugli occhi. Sollevò lo sguardo su Riley quando
la sentì chiudere la porta. «Fai come se fossi a casa tua. Come sempre.»
Le
sorrise, un gesto che sembrò richiedergli un grande sforzo. Bevve un lungo
sorso d’acqua mentre Riley andava a sedersi accanto a lui. La ragazza fece
vagare lo sguardo per il soggiorno, soffermandolo nuovamente sul tavolo. Jack
se ne accorse. «Sono i progetti del night» le disse, prima ancora che lei
potesse pensare di chiederglielo.
«Come
sta andando?» domandò.
«Piuttosto
bene. Direi di essere a buon punto.»
Riley
annuì con la testa, debolmente. Non chiese altro, così come Jack non aggiunse
una parola a ciò che aveva appena detto. La ragazza continuava a sospettare che
fosse successo qualcosa a Jack e che non si trattasse di ciò che era avvenuto
fra loro. Si convinse che se non avesse voluto accontentarsi di supposizioni
avrebbe dovuto chiederlo direttamente a lui e che quello poteva essere il
momento migliore.
Sperando
di non essere in procinto di compiere un grave sbaglio, Riley prese una boccata
d’aria e disse: «Posso chiederti una cosa?»
Jack
si voltò leggermente verso di lei. «Certo» rispose.
La
ragazza impiegò un po’ a rispondere. Voleva trovare le parole più appropriate,
consapevole che stava quasi certamente andando a toccare un nervo scoperto. «Quando
sei dovuto rimanere dai tuoi, per quelle due settimane, hai presente? É
successo qualcosa di grave?»
Ascoltò
il silenzio grave che si era formato subito dopo le sue parole e si accorse che
Jack aveva trattenuto il respiro per un momento. Quest’ultimo abbassò lo
sguardo sulle proprie mani, stringendo la bottiglia d’acqua con forza maggiore.
Nonostante la mente annebbiata da alcol e stanchezza rifletté con lucidità su
quello che poteva fare. Era fortemente combattuto se dire o meno la verità a
Riley su ciò che lo aveva tenuto due settimane lontano da casa. Infine si rese
conto che per poter ricostruire il suo legame con la ragazza era necessario
riconquistare la sua fiducia e decise di dirle come stavano le cose. Tuttavia
non le disse esattamente tutto.
«Diciamo
che la mia famiglia ha preferito tenermi sotto controllo per un po’. Avevano
paura che potessi commettere qualche gesto piuttosto insano.»
Riley
lo sguardò, sorpresa: «Perché avresti dovuto?»
Jack
non ebbe la forza di alzare lo sguardo su di lei. Ricordare cosa gli era
accaduto continuava a infastidirlo e lo rendeva instabile e frustrato.
«Louis…
Beh, mi… mi ha lasciato. E i giorni successivi non sono stati molto semplici da
affrontare, non da solo. Adesso almeno c’è Nathan.»
Riley
non disse niente. Ripensò a quanto le era appena stato detto e si sentì
impotente. Fra di loro scese un silenzio che aveva dell’inverosimile e che durò
molto prima che la ragazza riprendesse a parlare: «Avevo intuito che tu e Louis
non vi vedeste più. Effettivamente avevo iniziato a incontrare qualcun altro
lungo i corridoi.»
Lo
disse mormorando, ancora incredula alle parole di Jack. Il ragazzo finalmente
sollevò lo sguardo dalle proprie mani e lo puntò sul soggiorno di casa sua, un
leggero sorriso abbozzato sulle labbra, come se gli fosse tornato alla mente un
dolce ricordo. «Sì, Nathan. È un bravo ragazzo, tiene veramente a me, a
differenza di Louis. É solo che… Non è semplice dimenticarsi di qualcuno.»
La
sua voce si era abbassata sul finire della frase e Riley poteva perfettamente
capire perché: faceva male. Lei ci era passata fin troppe volte ed era
consapevole che i ricordi riaffioravano ogni volta che ne avevano l’occasione e
che il dolore e la rabbia li accompagnavano sempre. Non era ancora passato un
mese da quanto Louis aveva piantato Jack e anche se, a sentire il ragazzo,
Nathan era una bella persona, era ancora troppo presto perché fosse in grado di
far dimenticare a Jack quel dolore.
«Lo
so» disse lei in risposta.
Il
ragazzo si voltò finalmente a guardarla. Riley teneva lo sguardo distante,
puntato su uno dei tanti punti in penombra dell’angolo cottura. Jack sentì lo
stomaco stringersi mentre osservava il profilo elegante di quella che per molto
tempo era stata la sua più cara amica e con cui avrebbe voluto sistemare tutto.
A quel pensiero si morse il labbro inferiore, rimanendo a guardarla. «Riley, mi
dispiace così tanto per quello che è successo fra noi. Vorrei davvero che le
cose tornassero come prima» disse in un sol fiato.
Lei
lo guardò. Le venne spontaneo stringersi nelle spalle mentre la risposta le
affiorava alle labbra con sorprendente sicurezza: «Ne abbiamo già parlato. Te
l’ho detto, è impossibile che ciò che provo per te non influisca fra noi, lo
sta già facendo.»
Quella
frase fu un colpo al cuore per Jack, soprattutto perché era consapevole che si
trattava della verità. Tuttavia Riley non aveva finito. Per lei il fatto che il
ragazzo continuasse a cercarla era il chiaro segnale che lui non era disposto a
perderla per colpa di una notte e lei aveva ormai superato una tale serie di
delusioni da sapere che per quanto potesse apparire difficile non era certo
mortale. Prima di essere l’uomo che amava, Jack era stato un caro amico e lei
avrebbe fatto il possibile per recuperare quel legame.
«Comunque
sia penso che riusciremo a sistemare le cose. Mi serve solo un po’ di tempo.»
Jack
abbozzò un sorriso, incerto e stanco. Si sentì sollevato da quanto Riley aveva
detto.
Lei
rimase a guardarlo, sentendosi però improvvisamente preoccupata. Che gesto
insano temevano che il ragazzo potesse compiere, i suoi genitori? Le venne un
sospetto, ma lo cacciò via subito convinta che Jack non potesse mai essere in
grado di compiere una simile follia.
Non
era solo colpa della stanchezza, Jack le parve davvero tormentato da qualcosa e
più intensamente del solito. Con molta probabilità Louis ne era la causa. Riley
si lasciò andare all’istinto. Continuando a guardare Jack negli occhi portò una
mano fra i suoi spettinati capelli corvini, facendo scorrere le dita fra le
corte ciocche scure.
«Louis
non ti meritava» dichiarò, con una sincerità tale da sorprendere perfino se
stessa.
Il
ragazzo rimase a guardarla. Inclinò leggermente la testa come un gatto che cerca
le carezze del padrone, senza dire nulla. Appoggiò il capo alla spalla della
ragazza e permise alla stanchezza di prendere il sopravvento. Si sentiva
esausto e confuso e tutto sarebbe potuto diventare letale se accanto a lui non
ci fosse stata Riley.