CAPITOLO TRE.
«Le impostazioni di
base sono state ripristinate... Ora il sistema dovrebbe essere di
nuovo in grado di avviarsi.»
«Proviamo a dare
energia?»
«Vai.»
L'attimo
prima non sei, e l'attimo
dopo sei di nuovo.
Il ritorno alla
coscienza è come una frustata, uno
schiocco forte nelle vertebre; ma nulla di più.
Non
c'è pena, non c'è dolore. C'è solo...
Sollievo.
«Ehi...»
Due paia di occhi lo
scrutano, sono sopra di lui.
Prototipo 100 si
sorprende di riuscire a vederli, perché,
quando il suo sistema si era
arrestato, i suoi recettori visivi, uditivi e tattili erano fuori
uso. Ora, invece, i suoi occhi e le sue orecchie funzionano – anche
se la luce gli dà fastidio e gli sembra di udire un ronzio continuo,
in sottofondo. L'umanoide, a poco a poco, realizza di essere sdraiato
su una specie di lettiga in un posto che non conosce. Nel suo campo
visivo ci sono un soffitto color crema e una grossa lampada da sala
operatoria. Due figure in camice bianco sono chine su di lui: una
ragazza dai capelli rossi, che sorride, e un ragazzo dai lineamenti
asiatici che lo osserva con curiosità.
Prototipo 100 non
conosce nessuno dei due. Per quanto si sforzi, non riesce ad
associare i loro volti ai dati della sua memoria. E comunque, è
ancora troppo intontito per provarci davvero.
«Ben
svegliato,» lo saluta il giovane asiatico. L'androide si sta ancora
riattivando, a fatica. I processi del suo sistema si mettono in moto
lentamente, e passa qualche minuto prima che riesca a recuperare
l'uso del linguaggio e a formulare delle parole. È come se ogni
singolo muscolo, ogni singola fibra del suo essere fosse
ancora addormentato. Nelle condizioni in cui si trova, i dati non possono
scorrere a pieno regime: è troppo debole.
«Cosa...»
Il caricamento è persino più lento del previsto. Prototipo 100 è
confuso; istintivamente vorrebbe portarsi una mano sulla tempia, ma
non riesce a muoversi. I suoi centri motori sono ancora danneggiati o
scollegati; il sistema invia l'ordine al corpo di muoversi ma nessun
arto risponde all'appello. La scoperta riempie il robot di una rapida
ondata di panico.
«Dove
sono...? Chi siete...?
...Cosa e successo?» L'androide
sbatte le palpebre, disorientato. Quel piccolo gesto è tutto ciò
che riesce a fare; come ha potuto ridursi così?
Come
se si fosse accorta del suo stato d'animo, è la ragazza a prendere
la parola per prima tenendogli una mano sulla fronte, come per
confortarlo. Il tono con cui gli parla è tranquillo e scandisce
lentamente le parole, per dargli modo di processare un'informazione
alla volta.
«Piano, piano, va tutto bene. Allora, questo è il reparto riparazioni
dell'Istituto di Ricerca per l'Intelligenza artificiale. Io sono
Charlie e questo è Kevin, e ci occupiamo di riparare i robot
danneggiati, come te.» I due ragazzi non sembrano ostili. Dopo
qualche istante di esitazione, l'androide deve arrendersi
all'evidenza. Che siano amichevoli oppure no, non è in condizione di
difendersi o di fuggire; perciò, può soltanto sperare che siano
pacifici come sembrano.
«Non
abbiamo ancora finito di ripristinarti,»
aggiunge il ragazzo. «Ma, come avrai notato, ti abbiamo
ricollegato i sensori visivi, olfattivi e uditivi... Ora, dobbiamo
sistemarti gli arti inferiori e superiori e poi riparare i danni del
ceppo vertebrale, oltre che quelli superficiali. Attiveremo per
ultimi i recettori tattili, così non sentirai troppo male.»
Prototipo
100 vorrebbe poter tirare un sospiro di sollievo. Allora aveva
ragione il suo creatore, quando gli diceva che c'erano tante brave
persone nel mondo, là fuori...
La sensazione di panico si attenua, nel giro di qualche istante, sostituita da un forte sentimento di gratitudine.
«Non
so perché lo fate...», articola il robot, vincendo l'intorpidimento
generale che gli offusca i pensieri, «... Ma grazie.»
Il
giovane – Kevin – esce per un attimo dalla sua visuale.
«Ci
ringrazierai dopo, uhm--» Attimo di esitazione. «Sulla tua scheda
tecnica sei registrato con due nomi: Prototipo
100 e Gadreel.
È un fatto piuttosto insolito...», commenta il ragazzo, leggendo da
un piccolo schermo luminoso. «Come vuoi che ti chiami?»
Il sistema del robot
mette assieme qualche stringa di codice in più
per permettergli di sorridere debolmente, anche se questo vuol dire
spendere ulteriori energie - preziosissime, nelle sue condizioni. Ma
la domanda lo ha rassicurato: se si interessano delle sue preferenze,
probabilmente quei ragazzi lo rispetteranno e avranno cura di lui.
«Io...
Preferisco Gadreel. Il mio creatore... Mi ha... Chiamato così.»
Parlare è sempre più faticoso: si sta stancando, non potrà reggere
ancora per molto.
«Il
tuo creatore?», chiede Charlie, inclinando leggermente il capo. Il
gesto le fa ondeggiare qualche ciocca di capelli ramata sulle spalle.
Gadreel
chiama a raccolta le ultime forze per rispondere alla domanda
implicita.
«Sì...
Si chiama... Chuck...»
Il
robot riconosce ancora un limitato catalogo di espressioni umane;
tuttavia, indicherebbe senza dubbio come sorpresa
quella che vede
dipingersi sui volti dei due scienziati, all'improvviso.
«Oh
cavolo,» esclama lei.
«Dobbiamo
dirlo a Dean,» ribatte lui.
«Io...
Non conosco--», cerca di dire Gadreel; ma si rende improvvisamente
conto di aver già esaurito le energie minime per continuare a
comunicare. È frustrante, pensa. Così ridotto, è poco più di un
giocattolo.
«Tranquillo,
non è niente,» lo rassicura di nuovo la ragazza. «È un nostro
amico. Magari potreste conoscervi, più avanti... Intanto, finisco di
ripararti. Sarà una cosa lunga; sentiti libero di andare in stand-by
se vuoi riposare un po', nel frattempo, ok? Quando ti sveglierai
starai molto meglio, te lo prometto.»
Gadreel
non se lo fa ripetere due volte. È troppo, troppo stanco per restare
con gli occhi aperti. Pensava di averli chiusi per sempre, soltanto
poche ore prima, e invece ha ottenuto una seconda possibilità: ora
può soltanto lasciare che i due giovani facciano il loro lavoro e lo
rimettano in sesto.
Non c'è alcun bisogno che lui resti vigile, per
questo.