Anime & Manga > Saint Seiya
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Autore: Francine    18/05/2016    7 recensioni
Trema di Yggdrasill,
il frassino eretto,
geme l'antico albero,
lo jǫtunn è libero.
Tutti temono
sulla strada degli inferi,
che la stirpe di Surtr
li inghiotta.

(LJÓÐA EDDA - VǪLUSPÁ, La Profezia della Veggente, v 47)
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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22.




«Mi avete mandato a chiamare, Santità?»
 A capo chino, Yannick dell’Altare attende, un ginocchio piegato e il mantello drappeggiato sulle spalle, ignaro della spada di Damocle che pende sulla sua testa. 
Sion tentenna qualche minuto prima di rispondere. Posso farlo? Posso davvero farlo?, si domanda il Sacerdote, le mani vecchie e stanche a stringere i braccioli dello scranno. Poi i dubbi svaniscono – devono svanire – ché oramai indietro non si torna. Oramai è fatta, non si cambia idea. Anche perché Yannick non crederà mai che l’abbia convocato per discutere del tempo o facezie simili.
Avanti. Per Athena. Sempre e solo per Athena.
«Sì, Yannick dell’Altare», e Sion vede le spalle di Yannick irrigidirsi. Brutto segno, se qualcuno ti chiama col tuo nome celeste completo. C’è puzza di ufficialità. E l’ufficialità comporta serietà. E la serietà porta con sé i guai. «Ho necessità di parlare con te.»
«Vi ascolto, Santità.»
«È una giornata troppo bella per restare chiusi qui dentro. Vieni. Passeggiamo.»
Un fruscio pesante, le mani sui braccioli che lo sollevano a fatica, quella vecchia ernia che protesta con troppa veemenza, e il vecchio Sion raccoglie parte della sua veste e s’incammina verso la terrazza che si apre alle spalle della Sala del Sacerdote. Il rumore metallico alle sue spalle gli conferma che Yannick lo sta seguendo. Sion si concede un sorriso.
Fuori la giornata non è poi così bella come Sion aveva visto al mattino. Il cielo ha fatto in tempo ad annuvolarsi, concedendo qualche sparuto sprazzo di sereno. Forse è meglio così. A Sion sarebbe piaciuto avere un bel cielo limpido e terso, come palcoscenico, ma una luce netta avrebbe reso affilati i contorni delle sue parole. Troppo. Meglio, allora, concedersi un attimo di requie, un perimetro più mutevole; ché, d’altro canto, quelle di Sion non sono certezze, non ancora. Sono
supposizioni. Sensazioni, a volerla dire tutta. E quindi, potrebbe essersi sbagliato. Potrebbero essere solo paure, le sue, le insensatezze di un vecchio giunto al capolinea che s’inventa ombre e fantasmi pur di trovare un senso – un’utilità – alla sua vita. Presto, qualcuno raccoglierà il suo elmo, così come il Sommo Hakurei l’ha raccolto da quelle del Sommo Sage prima di affidarlo a lui, tanti anni fa. Troppi, per una vita umana. Pochi, per chi ha dovuto reggere il fortino per una vita intera e, adesso, vorrebbe fare qualcosa. Ma chi ne ha più la forza?, si chiede Sion, nel cuore il sapore amaro del rimpianto, mentre poggia le mani sulla balaustra di marmo bianchissimo.
Sasha amava questo posto. Non era raro trovarla quassù, lo scettro di Nike per compagnia, ad abbracciare con lo sguardo il panorama mozzafiato. O a lasciar vagare la mente verso percorsi e curve nella memoria.

Che nostalgia, si dice Sion, una fitta di rimpianto che gli chiude la gola. Una vita intera spesa ad aspettare. Una vita intera a giustificarsi con i fantasmi dei suoi compagni, con quelle dodici Case che lo guardano, mute, mentre il vento vi passa in mezzo e risuona delle loro voci, delle loro…
«Santità?»
Sion sbatte le palpebre. È successo di nuovo. Si è lasciato andare ai ricordi, invece che concentrarsi sul presente. È stanco, Sion. Tanto stanco. Forse, quello che vuole è soltanto togliersi quell’elmo dalla testa e tornare a combattere. Un’ultima volta.

Ma se riesco a malapena a stringere una forchetta tra le dita?
Serra i pugni, ignorando le proteste delle sue nocche. Alle sue spalle, Yannick attende, da chissà quanto, che lui gli spieghi il perché di tutto questo mistero. Sion si fa coraggio, ché condividere una bevanda amara non è mai piacevole. Non si vorrebbe berla, questa è la verità, non trascinare qualcun altro con sé. 

Smettila di cincischiare.
«Voglio affidarti una missione di vitale importanza, Yannick dell’Altare», dice, senza voltarsi, il vento che accarezza i suoi lunghi capelli come faceva sua madre, tanti e tanti anni prima, quando Athena ancora non si era affacciata nella sua esistenza e l’aveva reclamato come suo.

 
«Abbiamo perso le tracce.»
Ichi si alzò. Nachi era alle sue spalle, nel vento che soffiava sulla neve fresca, e lo fissava. In attesa.
«Si sono divisi», proseguì Ichi. «Laggiù. Hanno preso direzioni diverse e noi abbiamo scelto quella sbagliata.»
«Una falsa pista.»
«Falsa pista? Non so se l’hai notato, ma queste impronte spariscono nel nulla. Proprio qui», e l’Idra indicò al compagno il punto d’arresto delle tracce che avevano seguito.
«L’ho visto», ribatté il Lupo, pacato. «Ed è appunto per questo che mi sembra strano.»
«Spiegati meglio.»
«È un vecchio trucco per confondere i predatori. Cammini all’indietro», e Nachi ripercorse qualche passo senza voltarsi, come fosse stato un gambero extra-extra-large, «e aspetti. Lo fanno i conigli.».
«I conigli?»
«Sissignore. Ma anche i predatori camminano all’indietro per far credere alle prede che se ne sono andati. E invece…»
Ichi stornò lo sguardo sul compagno e lo posò sulle impronte. E si accorse di una cosa. C’era un’unica fila di passi, che affondava nella neve. E loro erano in due. Per cui, avrebbe dovuto esserci un’altra serie di impronte che correvano parallele alle sue. E invece no. «È un altro trucco anche questo?», chiese, indicando i piedi di Nachi. «Cos’è, per risparmiare energie?»
«Anche», ribatté l’altro. «I lupi fanno così.»
«I lupi fanno così.»
«Sissignore. Il maschio alfa apre la strada. Gli altri, mettono le zampe esattamente dove le ha messe lui….»
«…per fare meno fatica.»
«No. Non solo. Primo, il maschio alfa si prende la responsabilità del gruppo. E quindi, se una zampa si romperà, sarà la sua, non quella degli altri lupi. Secondo, eventuali altri predatori vedranno una sola fila di orme. E s’immagineranno che ci sia un solo lupo, magari robusto, quando invece…»
Silenzio.
«Quando invece… che
«Quando invece ci sarà un branco intero!»
«Ok. Ma siccome noi non siamo lupi…»
«Tu non lo sei. Io, sì. E tu ti sei preso la responsabilità di battere il terreno. Di essere il maschio alfa.»
Ichi socchiuse gli occhi. Il maschio alfa. Sì, gli era piaciuta, quella definizione. Sì, aveva colpito nel segno. Ho fatto bene, si disse Nachi, stornando lo sguardo dal compagno e lasciandolo vagare tutt’attorno. Erano in campo aperto. Un eventuale pericolo sarebbe potuto arrivare da qualsiasi parte, certo, ma questo avrebbe consentito all’avversario solo il vantaggio della sorpresa. Si sarebbero visti a vicenda. L’importante era sopravvivere al primo colpo. Il resto, si sarebbe giocato ad armi pari. Forse.
«Il maschio alfa…», mormorò intanto Ichi, grattandosi il mento, le labbra incurvate all’insù. «Il maschio alfa…», disse ancora. E non si accorse della mano che era spuntata dal terreno fino a quando questa non gli si strinse attorno alla caviglia e lo buttò a terra.
Lo sapevo!, si disse Nachi, accorrendo al salvataggio.
Ichi tempestava di calci e pugni la mano spuntata dalla neve, ma quella non mollava la presa. «E lasciami, dannazione!», strillava l’Idra, la voce più acuta del solito.
«Alzati, svelto!», gridò il Lupo, quando i suoi occhi notarono qualcosa. Il bagliore dell’oro, sotto la neve. E lo smalto nero sulle unghie della mano che stringeva la caviglia di Ichi. «Aspetta!»
«Aspetta cosa? Le presentazioni?»
«Guarda il guanto d’arme! Non vedi?», e solo allora Ichi notò lo sfolgorio dell’oro attorno a quelle dita.
«Ah!» disse – strillò – l’Idra.
«Aiutami», ordinò Nachi, assumendo il ruolo di maschio alfa. Afferrò l’avambraccio avvolto nell’oro e tirò. «È bloccata», disse. «Che aspetti, la carrozza? Mi aiuti sì o no?», abbaiò all’indirizzo di Ichi. Il quale si scosse. Si mise seduto, piegò un ginocchio ed afferrò il braccio al posto di Nachi.
Il Lupo iniziò a spalare via la neve a mani nude.
«È incastrata», disse. «Non tirare fino a quando non te lo dico io.»
«Ok», disse Ichi, ma sia lui che il Lupo avevano capito che la faccenda si era fatta grossa per davvero. Se quella mano corrispondeva al Santo del Cancro – al Santo del Cancro donna – che fine aveva fatto Hyoga? Che è successo, dannazione?, pensava Ichi, osservando il proprio riflesso sul bracciale dorato.
«Prova!»
Nachi aveva liberato un braccio ed era quasi arrivato alla testa. Ichi ubbidì. Tirò. Niente. Tirò una seconda volta, e qualcosa si smosse.
«Ha aperto gli occhi!», disse Nachi e Ichi tirò ancora una volta. La liberarono con uno strattone. Il corpo scivolò via. Nachi le liberò la bocca dalla neve e le chiese: «Stai bene? Puoi respirare?».
Lei annuì. Sputò del fango rossastro. Pelle bianca come la neve e labbra rosse come il sangue, ripeté Nachi, nella sua testa. Djamila amava la favola di Biancaneve, lei, scura come l’ebano e dai denti candidi come il latte. Chissà perché, pensò, aiutando il Cancro a mettersi seduta, mentre l’Idra allentava la presa sulla propria caviglia.
«Lasciami! Lasciami, adesso! Vuoi?!», strillò Ichi, per superare il fischio del vento. Lei gli scoccò un’occhiata curiosa, come se lo vedesse per la prima volta in vita sua. «La caviglia», disse Ichi, indicando il proprio piede. «Vuoi lasciarmi andare? Mi stai facendo male…»
Lei portò lo sguardo dall’Idra al proprio polso destro un paio di volte, poi dischiuse le dita.
«Chi ti ha ridotto così?», le domandò il Lupo.
«Dov’è?», chiese lei, ancora intontita. Si guardò intorno, le palpebre socchiuse e l’aria di chi ha passato un bruttissimo quarto d’ora.
«Chi?»
«Coso. Popoff.»
Ichi e Nachi si scambiarono uno sguardo.
«Chi ti ha attaccato si chiama Popoff?», le chiese l’Idra.
«Ma no!», protestò il Cancro, schermandosi gli occhi con una mano. «Il Cigno. Come si chiama?»
«Hyoga.»
«Hyoga, Popoff. Siamo lì.» Ma anche no, pensò Nachi, guardandosi attorno. «Non è con voi?»
«Ma non era con te?», gli chiese Ichi, massaggiandosi la caviglia.
«Ci hanno inseguito. Ci siamo divisi. Lui è andato avanti, io me ne sono portati dietro il più possibile.»
«Il più possibile?», chiese Nachi, guardandosi attorno. Le tracce finivano in quel punto. In quel punto esatto. Anche ammesso che il nemico avesse camminato all’indietro, dopo averla sepolta, che fine avevano fatto gli altri? E perché non c’erano segni di lotta, tutto attorno, ma solo l’accecante biancore della neve?
Il Lupo abbassò lo sguardo sul viso della ragazza, la bocca socchiusa per esprimere ad alta voce le proprie perplessità, quando incontrò i suoi occhi. Vigili. Duri. Affilati. Gli occhi di un predatore, si disse Nachi. Allarmato. Lei sorrise.
«Chapeau», disse – sussurrò – appena. «Ma è troppo tardi!»
Nachi volle gridare: «È una trappola!», per avvertire Ichi, ma lei non glielo permise. Il dito indice del Cancro si posò sulla sua fronte, come al rallentatore. Poi tutto divenne viola, e Nachi cadde dentro un pozzo profondissimo, vorticante, che sembrava non avere mai fine.


«Rinunciare all’armatura?!»
Il viso di Yannick è terreo. Le parole del Sacerdote lo hanno centrato in pieno, come una secchiata d’acqua gelata in pieno agosto.
«Per… perché? Ho fatto qualcosa di sbagliato, Santità?»
«No, Yannick. Il tuo stato di servizio è encomiabile.»
«E allora,
perché?!»
Yannick s’è alzato. È schizzato all’impiedi come un pupazzo caricato a molla, i pugni stretti e l’espressione smarginata. Sion lo sente, alle sue spalle, e ne ha una gran pena.
«C’è un
daimon che s’aggira per queste mura, Yannick.»
Il Sommo Sion ha parlato in francese. E questo lascia Yannick ancora più interdetto.
Che bisogno c’è?, dicono i suoi occhi, quando Sion si volta ad incontrarli.
«Perché?»
«Non lo so, il perché.»
«No, Santità. Perché stiamo parlando in francese?», domanda Yannick, la testa piegata da un lato, come un cane che non ha capito cosa voglia esattamente il suo padrone, da lui.
«Perché quando c’è un
daimon nei paraggi, anche i muri hanno orecchie.»
«E voi sperate che non conosca il francese?»
«Lasciami questa speranza, Yannick. Vuoi?», chiede Sion, tornando a guardare i prati verdissimi che si stagliano all’orizzonte. Tra poco l’erba avvizzirà, s’ingiallirà e si seccherà. Arriverà un altro autunno, colla sua tavolozza di rossi e ori e poi il grigio inverno silenzioso. E Sion si chiede se lui sarà ancora lì, quando le cime dei monti che proteggono il Santuario s’imbiancheranno di neve.
«Santità, se è vero che c’è un
daimon…»
«Ho bisogno che tu lavori per me, Yannick.»
Sion riprende il filo del discorso che ha provato tante volte nella sua mente. Perché sta per proporre a Yannick una missione pericolosa. Molto pericolosa. E lui ha bisogno che l’Altare accetti, ad occhi chiusi, con la stessa incoscienza dell’agnello portato al sacrificio, che scuote la testa per liberarsi del riso che il sacerdote lancia contro il suo vello inumidito. Senza sapere – senza sospettare – che dentro al paniere tra le mani del Sacerdote l’aspetta la lama che reciderà la sua vita e verserà il suo sangue.
«E in che modo, Santità?»
«Come esterno.»
Yannick sbatte le palpebre un paio di volte.
«Non dovremmo, invece, stanare questo
daimon ed eradicarlo dal Santuario?», suggerisce.
Sion scuote la testa.
«È un
daimon, Yannick, non un dio. Non è fedele a se stesso. Non sappiamo quale forma prenderà, come cambieranno i suoi piani. Non siamo dei, Yannick. Siamo mortali. E l’unica cosa che possiamo fare è prevenire le sue mosse. Giocare d’anticipo. Come se questa fosse una partita a scacchi. Capisci?»
«Capisco.»
«Ho bisogno che tu sia una doppia regina, Yannick. Sai come funziona, vero?»
«Sì, Santità.»
«Bene. Sto per scegliere il mio successore.»
«Chi avete in mente, Santità?»
«Questo non posso rivelartelo. Mi spiace.»
«Comprendo», dice Yannick, anche se Sion sa che il giovane bretone lo comprende fino ad un certo punto.
«Il
daimon colpirà non appena la dea si manifesterà ai piedi della sua statua.» Sion si concede una piccola pausa. Centellina le informazioni, se vuoi che il tuo pubblico sia attento alle tue parole, diceva il nobile Hakurei. Rivelati, ma a poco a poco. Come fa una donna quando si spoglia, diceva, e lui ci provava in tutti i modi a non arrossire a quelle parole. Adesso Sion sorride, sotto l’elmo che appartenne al suo maestro. «Non so cosa farà, ma so che colpirà. Se gli dei ci assistono, riusciremo a venirne fuori. Ma se le cose dovessero andare male, ho bisogno che tu sia pronto a fornire tutto l’aiuto possibile al nuovo Sacerdote.»
«E come potrò farlo, se sarò spogliato dell’Armatura!», protesta Yannick, pestando un piede a terra.
«Non ho mai detto che ti avrei spogliato dell’Armatura.»
«Avete detto che avrei dovuto ritirarmi, Santità. Non è la stessa cosa?»
«Dipende.»
«Dipende… da cosa?»
«Dal fatto che tu stia recitando una parte, oppure no.»
Yannick sbatte le palpebre. Scuote la testa. Poi si lascia andare ad un sospiro.
«Ho capito. Vi prego, Santità, raccontatemi il vostro piano. Fin nei minimi dettagli, per favore.»
«Significa che accetti la missione prima ancora di sapere cosa comporterà?»
«
Semper fidelis, Santità. È il motto della mia gente.»
«I bretoni, giusto?»
«Non proprio. Casa mia è Saint Malo. E io sono prima
malouin, dopo bretone e francese se avanza.»
«Capisco», mormora il Sacerdote, prima di aprire la bocca e iniziare a raccontare.


 
Ma non ti vergogni ad averla lasciata andare da sola?
La voce della sua coscienza assomigliava in maniera preoccupante a quella di Isaac. Camus non si sarebbe posto troppi dilemmi. La visione del suo maestro era che, donna o non donna, un guerriero resta un guerriero. Ma Isaac non la pensava così. Per Isaac le donne andavano protette, sempre e comunque.
«Sono più fragili di noi. Più deboli. Una donna non riuscirà mai a mettere nei suoi calci e nei suoi pugni la stessa potenza di un uomo. È un dato di natura», diceva, nel suo accento stranissimo, con un tono che non ammetteva discussioni. Hyoga si era chiesto cosa ne sapesse lui delle donne guerriero. Perché lo sapesse. Ne aveva forse incontrate, strada facendo? No, perché Isaac gli aveva detto che era stato un uomo ad accompagnarlo da Camus. Un bifolco. Non una donna. Così, quando Hyoga aveva chiesto al proprio maestro se esistessero anche donne guerriero, aveva visto qualcosa attraversare lo sguardo severo di Camus.
«Certo che esistono. Perché lo trovi strano?», gli aveva chiesto l’Acquario, un dito tra le pagine del Montecristo e gli occhiali da lettura in punta di naso.
«Perché non le ho mai viste», aveva ribattuto Hyoga, le maniche della maglia arrotolate e la pelle gocciolante di sapone per le stoviglie.
«Non hai mai visto nemmeno le giraffe. Eppure, quelle sai che esistono», aveva insistito Camus, librando il dito dalla presa delle pagine.
«Ma le giraffe le ho viste alla tv. Assieme alla mamma», aveva detto Hyoga, mordendosi la lingua subito dopo. Sua madre era un argomento tabù, con Camus. Vietato parlarne. Vietatissimo. Lo deconcentrava dal suo addestramento, diceva lui, così Hyoga si era adeguato e non pronunciava mai il nome di sua madre davanti al suo maestro. Pensava a lei, sì, giorno e notte, quando non ne poteva più di tutto quel freddo, dei calci e dell’acqua ghiacciata; ma non faceva mai il suo nome, nemmeno tra i denti, per paura che Camus lo sentisse e rincarasse la dose.
«Capisco», aveva detto Camus chiudendo il pesante volume e posandolo sul tavolo. «Ma allora, è molto strano che tu ti sia posto questa domanda. Chi ti ha parlato delle donne guerriero, Hyoga?»
E lui aveva taciuto. O meglio, ci aveva provato. Aveva tirato in ballo qualcosa di molto confuso, come l’eventualità che potessero esistere dei guerrieri donna, spiegazioni che Camus aveva ascoltato con un sopracciglio sollevato ed un’espressione indecifrabile sul viso che puzzava di piombo lontano un miglio.
«Dov’è Isaac?», gli aveva domandato, ponendo fine a quello stillicidio. 
«A spaccare la legna, maestro», aveva risposto, sistemando i piatti sullo sgocciolatoio.
«Vallo a chiamare. Partiamo per un allenamento speciale, lui ed io. Tu bada alla casa. E spala la neve. Intesi?»
«Intesi», aveva replicato Hyoga.
Erano rientrati dopo tre giorni, e l’espressione di Isaac era rancorosa. Non gli aveva parlato per due settimane di fila, nemmeno per chiedergli di passargli il sale. Era successo qualcosa, durante quell’addestramento speciale, ma Isaac non gli aveva mai spiegato la faccenda nei dettagli, né gli aveva mai confermato se fosse stato a causa sua che Camus l’aveva trascinato fuori in pieno dicembre, il cielo come tetto ed una serie di pelli di foca per riscaldarsi.
«Un guerriero è un guerriero», aveva detto Camus un paio di giorni dopo il loro rientro alla base, aprendo la sessione mattutina dell'addestramento. «Uomo o donna che sia. Invece di baloccarvi con simili sciocchezze, pensate al vostro avversario. Ché una donna non vi risparmierà. Non avrà paura di voi. Ma vi caverà gli occhi. Alla prima occasione che le si presenterà.»
Eppure, Hyoga non si sentiva a posto con la propria coscienza. L’aveva lasciata andare da sola. Era una, contro chissà quanti. Questa era la vera follia. Sì, lei era un Santo d’Oro. Come Camus. Come Milo. Sapeva badare a se stessa. Ma era un elemento solo. Non era onnipotente.
Che razza di uomo sei?, tuonò la voce di Isaac nella sua testa.
Hyoga si fermò. Si voltò. Strinse pugni e denti e tornò indietro. Di corsa. Volando, quasi, sulla neve fresca.
Uno che non lascia indietro un compagno, si rispose. E a Hyoga sembrò quasi di percepire il viso del suo vecchio compagno annuire soddisfatto.

 
«Il Santo dell’Altare ha rinunciato al suo voto.»
Aiolos e Saga gli rivolgono uno sguardo perplesso. Poi il Sagittario chiede: «Perché, Santità?».
Non ci crede, e questo Sion se l’aspettava. Yannick è stata la prima persona che s’è presa cura di lui e che l’ha addestrato a diventare un Santo di Athena. Rémy di Boote gliel’ha scodellato senza colpo ferire e il Santuario senza Yannick è qualcosa di inconcepibile, per la mente di Aiolos. È l’indifferenza di Saga, a lasciare il Sacerdote sul chi vive. Gemini e Altare condividono lo stesso rispetto per il protocollo ed il cerimoniale. Le regole, l’iter, tante piccole minuzie che, ai loro occhi, acquistano lo stesso valore delle pietre angolari su cui si fonda il Santuario stesso. Il Santo dell’Altare è il braccio destro del Sacerdote, da che mondo è mondo, e Sion ne ha visti sfilare quattro, di Santi dell’Altare, prima che le stelle chiamassero Yannick. Ma Saga non ha negli occhi la stessa vecchiezza che colora quelli di Sion. Allora, perché non si scompone? Perché non chiede? Perché, anzi, questa notizia lo rende quasi
felice?
«Questioni personali», risponde Sion.
«È… è
malato?», insiste Aiolos, la preoccupazione sul volto.
Il sacerdote annuisce.
«Non posso rivelarvi di più. Per rispetto nei suoi confronti. Yannick ha preferito così. Arriverà un nuovo Santo dell’Altare. E se non dovesse arrivare, voi ricoprirete questo ruolo. Siete i soli a cui io possa chiedere un simile compito. Posso contare sulla vostra collaborazione?»
«Sì, Santità», rispondono ad una voce sola Sagittarius e Gemini.
«Per oggi è tutto. Andate», dice loro Sion, accompagnando le sue parole con un gesto della mano. Li osserva uscire dalla Sala delle Udienze e richiudersi il pesante portone a doppio battente alle spalle. Solo allora, Sion si rilassa sullo scranno, appoggia la testa e rilascia un sospiro.
«Athena, aiutaci», mormora tra le labbra secche, il cuore scosso dall’incertezza. La partita è cominciata. Lui, quando uscirà di scena?


 
Le catene danzavano nell’aria gelida.
Ikki osservava suo fratello con uno sguardo preoccupato Dovresti startene a letto, dicevano i suoi occhi – diceva ogni fibra del suo essere – ma Shun era stato irremovibile. Stavano succedendo troppe cose tutte assieme, e lui non se ne sarebbe rimasto zitto e buono a letto, nossignore.
«Aspettatevi i problemi e mangiateli a colazione», diceva il suo maestro, e se da un lato Ikki si sentiva di sposare quest’atteggiamento ad occhi chiusi, dall’altro c’era Shun di mezzo. E Ikki sapeva quanto diventasse poco razionale quando si trattava di suo fratello minore. Era cresciuto, sì. E la risolutezza che aveva visto negli occhi di Shun, al suo risveglio, l’aveva piacevolmente sorpreso; ma, allo stesso tempo, si era sentito meno indispensabile del solito. E questo, invece di liberargli le ali dalle catene della responsabilità, gli aveva piombato il cuore.
I cosmi di Ichi e Nachi erano spariti meno di mezz’ora prima. Ikki li aveva sentiti spegnersi di colpo, come quando si soffia sulla fiamma di una candela e resta solo il fumo. Il cosmo di Hyoga era ancora sano e salvo, mentre era sparito quello d’oro.
«La cosa non mi piaceva prima e non mi piace adesso», aveva detto la Fenice prima di lanciarsi all’inseguimento, seguito a ruota da Shun. E adesso, nel bel mezzo del nulla, l’Armatura di Andromeda li stava aiutando a capirci qualcosa, di tutta quella sciarada.
Le catene si muovevano come se fossero una cosa viva. Serpeggiando, in onde fatte di anelli metallici che avevano un movimento ritmico. Come un tracciato cardiaco, o le onde del mare. Shun stava al centro, le palpebre abbassate, in ascolto. Le sue catene gli stavano parlando, in una lingua che capivano solo loro, fatta di clang clang e silenzi di metallo. A Ikki sembrò di essere quasi di troppo. Poi la catena dalla punta triangolare alzò la testa – alzò l’estremità a triangolo – e questa prese a puntare dritto davanti a sé, come il cobra che osserva la mangusta prima di sputarle il veleno negli occhi.
Shun dischiuse le palpebre.
«Di qua», disse, mettendosi a correre nella direzione che la catena gli stava indicando. Ikki lo seguì. Qualche centinaia di metri più in là, c’era un cumulo di neve fresca alto una ventina di centimetri che bucava l’orizzonte, e niente che giustificasse un simile rialzo. Nessun albero. Nessun tronco caduto. E la catena puntava proprio verso quel cumulo.
«Vai, bella!», esclamò Shun e le punte della Catena di Andromeda si infilarono sotto la neve, producendo uno sboff attutito.
«Che succede?», chiese Ikki, fermo accanto a lui.
«La catena. Ha trovato qualcosa», disse Shun, mentre gli anelli scivolavano attorno al suo braccio come fossero le spire di un boa.
«Fa sempre così?»
«Così, come? Non capisco.»
«Comunicate, voi due?», domandò Ikki. «Perché la tua catena sembra proprio viva
«È viva», replicò Shun. Poi gli anelli della catena si immobilizzarono. «Ci siamo!», esclamò Shun e diede uno strattone all’indietro. Due corpi sbucarono da sotto il cumulo di neve. Erano quelli di Ichi e Nachi. Immobili.
«Fra… fratello?», mormorò Shun, gli occhi sgranati. E in quell’istante Ikki capì che no, suo fratello non era andato da nessuna parte. Era sempre lì, accanto a lui, pronto a stringere la sua mano qualora ne avesse avuto bisogno.
«Aiutami. Presto!», disse Ikki. Si chinò sul primo dei due – Nachi – e infilò l’indice sotto al mento. «C’è battito. Debolissimo. Ma c’è.»
«Anche qui», disse Shun. Poi si accorse che Ichi stava riaprendo gli occhi. «Ehi, come stai? Tutto bene? Riesci a sentirmi?»
«Hyo… ga…», mormorò l’Idra, le labbra bluastre.
«Hyoga? Che è successo a Hyoga?!», domandò Shun, gli occhi allargati dall’apprensione.
«È in peri…co…lo…»
E Ichi svenne, lasciando Ikki e Shun a guardarsi negli occhi, persi in quel bianco accecante che sembrava quasi ridere di loro.

 
 

 


Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:

Ochei, forse non siamo ancora ai pestaggi veri e propri, ma possiamo accontentarci, no?

Yannick dell'Altare fa parte del mio headcanon. La Teshirogi ci ha spiegato che il Santo dell'Altare è il braccio destro del Sacerdote. Ora, io non so voi, ma tra la versione dell’anime e il casino fatto nell’edizione italiana (ok, i copioni arrivavano lacunosi, ma queste non sono lacune, sono trafori grossi quanto quello del Fréjus), io non ho ancora capito se Arles/Ares o chi per lui esistesse davvero e Saga si fosse sostituito a lui – e quindi il Sacerdote era morto; ma allora perché Marin si stupisce di trovare il corpo del Sacerdote sull’Altura delle Stelle? Di cosa è stupita? Che il Sacerdote sia morto, che quel cadavere sia giovane o che il cadavere sia sull’Altura? – o se ci sia stata una mezza chilata di confusione sparsa nel reparto copioni.
Ad ogni modo, Yannick dell’Altare viene da Saint Malo, nella regione francese della Bretagna. Coi bretoni non si scherza, specie coi malouin. Semper Fidelis è uno dei motti di Saint Malo. L’altro, quello recitato da Yannick, è la sua versione più popolare.

Aspettatevi i problemi e mangiateli a colazione è una frase che appartiene ad Alfred A. Montapert.

La distinzione tra daimon e theos necessiterebbe di più spazio. Ridotta in parole povere, gli antichi greci indicavano come daimon le forze soprannaturali a metà strada tra l'umano ed il divino propriamente detto (theos); ma, quando non potevano dare un nome all'entità soprannaturale che era intervenuta nella loro vita, gli uomini la indicavano come daimon, anche quando, in realtà, si trattava di un theos, come fa Ulisse quando rivela a Nausicaä che non sa quale sia stato il daimon che l'abbia fatto approdare sulle spiagge di Schia. Oddio, non ci volesse molto a cpaire che si trattasse di Athena, ma suvvia. Non cerchiamo il pelo nell'ouvo.

Al prossimo aggiornamento!
Nella speranza che io mi ricordi come si fa a scrivere, ça va sans dire.
   
 
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