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Autore: Ulissae    11/04/2009    3 recensioni
Tutti hanno un inizio, o meglio dire una fine. C'è chi la trova alla ricerca dell'amore, chi si sacrifica, chi pensa di combattere per un ideale.
Aro lo ha fatto per se stesso, unicamente per Aro.
Storia dell'inizio di un grande vampiro
Terza classificata al contest "after transformation"
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aro, Volturi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Ideale utopistico'
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salsal
Testis Temporum


[Guida alla lettura: Ho sempre considerato Aro uno tra i migliori oratori che il mondo potesse aver visto, loquace e astuto: da qui la scelta di creare un brano in cui la sua rinascita da vampiro viene incentrata sul fatto che apparteneva alla fazione di Cesare e che servisse per gli scopi di Marco Antonio.
Le date e le scelte sono state fatte con precisione: il Colosseo venne costruito solo durante l'impero di Vespasiano, perciò nel 44 non era ancora presente. Veramente la gens Claudia aveva il mento rientrante. Ho voluto far in modo che si notasse che Aro, nonostante pure in vita fosse una mente molto lucida, una volta trasformato sia stato come tutti gli altri: un animale in gabbia, che però non tradisce la sua smania di potere.
Muore il 15 marzo del 44 a.C. Le Idi, proprio per raffrontare la morte di un potente come Giulio Cesare a quella di Aro, il vampiro più potente.
Il titolo vuol dire: Testimonio del tempo. E' una citazione di Cicerone, appositamente scelta, poiché credo che i vampiri in qualche modo non sono nient'altro che testimoni del tempo che passa inesorabile.
Tutti i discorsi et similia sono miei.^^ La citazione all'inizio non ricordo di chi sia, ma sicuramente un autore latino.
Credo di avervi ammorbato abbastanza, buona lettura e spero che il mio Aro sia apprezzato, e che il testo non risulti noioso.]

Ognuno è artefice del suo destino

Qualcuno di voi sa per cosa l’uomo vive davvero? Per quale motivo il suo animo continua a vivere senza sosta, i suoi occhi cercano risposte bramosi?
Oh, io lo so bene. E siete fortunati, perché ho stranamente voglia di dirvelo.
Potere, che suono celestiale, non è vero?
Io ne ho, tanto, troppo. Per ottenerlo però ho dovuto correre, correre contro tutti, contro la vita, contro la mia coscienza…

Quel giorno era unico. Inimitabile, mio nonno diceva che l’unico che era riuscito a fare una cosa del genere prima di lui era stato Silla, ma secondo me, ragazzino di soli tredici anni, Cesare era di gran lunga migliore.
Mio padre era già nella Curia, lui aveva ricevuto la notizia prima di tutti, sapeva in anticipo le mosse di ogni uomo che esercitava nel senato, dopo tutto era il secondo miglior avvocato di quei tempi, il migliore a mio parere.
La città era stata addobbata al meglio, l’evento era molto importante, il triumvirato, che sembrava stesse per morire, era stato abilmente ripreso ed ora Roma poteva considerarsi sicura sotto la guida dei tre migliori uomini di quei tempi.
L’evento più importante della storia dopo secoli ed io, ritardatario cronico quale ero, lo stavo per perdere.
Abitavo insieme alla mia famiglia in una ricca casa, appena dopo il Foro, lontana dal trambusto della città, ma abbastanza vicina per permettere a mio padre di recarsi quasi quotidianamente là, per discutere e per esercitare. C’era da dire, però, che da circa un anno, da quanto il suo peggior avversario, Marco Tullio Cicerone, era stato richiamato dall’esilio mio padre sembrava più… felice.
La sua felicità era una cosa strana, si eccitava se aveva una sfida, qualcuno da battere, da assoggettare.
Comunque ero in ritardo, e dovevo sbrigarmi.
Horatio, il mio migliore amico, mi seguiva correndomi dietro, sono sempre stato un tipo piuttosto smilzo ed agile, nelle gare contro i miei coetanei risultavo sempre il più veloce. Lui, al contrario, sembrava una lumaca, di quelle senza guscio: lente, fastidiosamente lente.
-Horatio! Muoviti! Che ci perderemo l’entrata!- correvo verso l’uscita della villa, il cancello fortunatamente era aperto.
-Aro vai più piano! Non ci riesco a starti dietro- urlò alle mie spalle.
Era sempre così, nessuno riusciva a starmi dietro, ero sempre un po’ sopra agli altri, ovunque, in qualunque situazione e questa cosa mi procurava una certa gioia  perfida, l’essere unico, superiore, sempre.
-No, siamo in ritardo!- risposi oltrepassando il muro di recinzione.
Mi fermai stupito, mia sorella, la piccola Didyme era seduta sopra il ramo di un albero caduto a terra, tranquilla con il suo vestito bianco aveva le gambe intrecciate e guardava a testa alta le nuvole, come immaginavo ci stava aspettando.
-Ciao fratello, ci avete messo molto- ci salutò con un cenno della testa saltando giù dalla sua postazione, facendo ballare i capelli ricci al vento.
-Ci ha messo molto, voleva finire tutto il pane e formaggio- spiegai fulminandolo con lo sguardo ed enfatizzando il singolare dell’azione, lui per tutta risposta sbuffò e alzò le spalle, come per giustificarsi.
-Va bene, però siamo comunque in ritardo, papà ha detto che sarebbero arrivati per mezzogiorno, quindi non faremmo in tempo passando per il colle- osservò soprapensiero, portandosi una dito sotto il mento.
-Come facciamo?!- si lagnò il mio compagno, era estremamente fastidioso quando faceva così.
-Semplice- risposi io con un sorrisetto –passeremo per lo stagno- dissi avviandomi dritto per dritto.
Lo “stagno” era un avvallamento del terreno, appena prima della via Sacra, solitamente non ci passava nessuno, visto che era pieno di insetti e di fango, era una zona paludosa sfuggita alle bonifiche. Mi viene ancora da ridere pensando che oggi quel luogo, tanto disprezzato a quei tempi, custodisca una delle sette meraviglie del mondo: il Colosseo.
Non divaghiamo però, vi stavo raccontando un’avventura che in qualche modo avrebbe segnato per sempre il mio avvenire.
Passammo in mezzo alla fanghiglia, una cosa assai disonorevole per dei figli degli Optimates quali eravamo, rischiai perfino di lasciare il mio sandalo destro nel terriccio. Quando uscimmo di lì il bianco delle nostre vesti si era ridotto ad un marrone terra, mischiato a del verde muschio, io, avevo schizzi di fango fin sopra il naso. Ma non importava, ormai eravamo arrivati.
La folla si stringeva intorno alla strada, creava un muro umano invalicabile, agitava le braccia ai soldati che arrivavano a cavallo, urlava frasi a favore della Repubblica, alcune donne cantavano allegre, io volevo a tutti i costi avvicinarmi ai protagonisti di tutta questa gloria.
Mi insinuai tra le gambe, chinandomi un po’, intorno a me si creava pian piano il vuoto, ero troppo sporco, così dopo poco tempo riuscii a vederli in faccia i miei eroi.
O meglio, tentai. Difatti Cesare era già entrato nel Senato, Crasso e Pompeo non mi importavano più di tanto, osservai indispettito il loro passaggio finché quel impacciato di Horatio non mi diede una spinta che mi fece catapultare al centro della via. Mi gelai.
Tutti gli sguardi erano rivolti a me, il figlio del miglior avvocato rivestito di fanghiglia fino ai capelli, un ottimo spettacolo, avrei quasi riso io stesso se non fosse stato per un cavallo dietro di me che si era imbizzarrito. Indietreggiai un po’, lanciando un urlo terrorizzato, non c’era il sole quel giorno.
Questa era l’unica cosa che riuscivo a pensare: sarei morto con le nuvole, io, in mezzo ad un corteo di trionfo, morto. Gli Dei però avevano deciso che quel giorno non mi volevano nell’oltretomba, ne mai mi vorranno, delle volte mi viene da credere che perfino l’inferno mi risputerebbe via.
Un uomo dai capelli e la barba bianca, in sella all’animale, tirò le briglie facendolo calmare.
Lo continuai a fissare sconvolto.
-Ragazzino! Fatti da parte!- urlò con disprezzo aggirandomi, non calcolò bene lo spazio visto che mi urtò sporcandosi la toga.
-Mi scusi signore- chinai la testa per nascondere il sorriso che era sorto sul mio viso, impertinente, ecco come mi dipingevano tutti.
-Scusare cosa?! Guarda cosa hai fatto?!- esclamò rabbioso portando indietro una mano, ma qualcuno lo fermò. Un altro uomo, dai lunghi capelli corvini sorrideva, in modo molto simile al mio, gli occhi furbi assottigliati in un espressione sorniona. Sfruttai l’occasione per parlare.
-Signore, se permette, vorrei farle notare che non ho fatto nulla, è stato lei a non capire fin dove poteva spingersi senza sporcarsi- feci notare ghignando, in quel momento alzai la testa portando il mio sguardo nel suo, me bloccai terrorizzato: i suoi occhi erano rossi, come il sangue.
-Impertinente…- ringhiò, ma il suo compagno lo fece desistere dal continuare sussurrandogli qualcosa all’orecchio. Si voltarono uno ridendo e l’altro sibilando. Io continuavo a rimanere fermo al mio posto, fissando le loro schiene allontanarsi al ritmo del trotto dei loro cavalli.
Rossi, avevano gli occhi rossi. Come era possibile?
-Aro?- la voce sottile e melodiosa di mia sorella mi risvegliò dal mio rimuginare, ormai la folla si era dileguata, eravamo rimasti soli in mezzo alla via.
-S..Sì?- balbettai confuso, ero rimasto sconvolto dalla loro apparizione.
-Dobbiamo andare, voglio sentire il discorso di papà- mi ricordò scuotendomi un po’ le spalle.
-Oh, sì, andiamo- mormorai riprendendo a camminare verso la Curia.
-Sei strano Aro- osservò guardandomi attentamente dal basso. Non le sfuggiva nulla, era particolarmente abile nell’individuare le sensazioni altrui.
-No, Didyme, solo paura, quel cavallo stava per uccidermi!- scherzai provando a ridere, ci riuscii, fortunatamente ero un ottimo attore.
Riprendemmo a correre e arrivammo davanti al senato in poco tempo, velocemente ci arrampicammo sopra l’ulivo che si erigeva dietro, esattamente fino al ramo dove si vedeva in modo eccellente tutta l’assemblea.
Un uomo anziano stava seduto a destra in prima fila, sembrava stanco, aveva appena finito di parlare, dato il chiacchiericcio sommesso che regnava per tutto l’ambiente. Dalle descrizioni che giungevano da mio padre sembrava essere Cicerone, il suo acerrimo nemico. Lo notai scrutare torvo le prime file dei banchi dove erano seduti i due uomini che poco prima avevo incontrato per la strada.
-Guardate! E' pelato dietro!- l'esclamazione stupita ed ingenua di mia sorella mi fece ridestare, spostai la mia attenzione su di lei e su i suoi occhi neri che brillavano di curiosità, con il braccino indicava un uomo altero che stava seduto di spalle, e che aveva, effettivamente, una bella chierica ad ornargli la nuca. Trattenei a stento le risate notando che il “pelato”, come lei diceva, era niente di meno che Caio Giulio Cesare.
Horatio non conosceva bene i movimenti dei politici quanto me, suo padre era un ricco mercante, e lui pensava che l'unica cosa importante nella vita era mangiare ed essere felici. Piuttosto squallidi come traguardi nella propria vita, non credete? Perciò rimaneva perplesso ad osservare quegli uomini agitarsi, preoccuparsi, gioire senza capirne il vero motivo.
Io ero impaziente, non vedevo l'ora che mio padre prendesse parola, quando lo fece affinai l'udito e mi preparai ad una grande orazione.
-Concittadini- iniziò con un sorriso cordiale aprendo le mani in segno di pace -come vedete oggi Roma si è riunita nella sua grandezza per ribadire ancora una volta quando questa sia parte integrante della Repubblica. Abbiamo sentito il mio collega parlare, l'abbiamo ascoltato, applaudito ed apprezzato, ma ora, devo aggiungere, vorrei parlare anche io.
Lui ha detto che Roma è di pochi- affermò con voce solenne inchiodando con lo sguardo l'avversario -ma non lo ha certo detto in questa sede, con parole uscite dalla sua bocca, ma appoggiando in ogni sua decisione quei pochi che costituiscono l'aristocrazia della città- un mormorio sommesso iniziò a percorrere tutta la Curia, il mio genitore si concesse un sorriso nascosto e riprese.
-Io non vi chiedo di uccidere i vostri fratelli, troppi prima di me lo hanno chiesto ed ora giacciono nella nostra coscienza. Io non vi chiedo di immolare i vostri beni per una guerra persa ancor prima di essere combattuta. Io vi chiedo, semplicemente, di credere in quest'uomo- si voltò ed indicò Cesare che abbassò solo un attimo il capo, come segno di ringraziamento.
-E vi pongo davanti ad un bivio, potete credere nei pochi di Roma, o potete credere IN Roma!- detto questo concluse, voltandosi e rimettendosi a sedere con un sorriso soddisfatto godendosi gli applausi che iniziavano a nascere spontanei.
Non scorderò mai quel giorno, in particolare quel discorso, quei volti contrariati nascosti dietro sorrisi di perbenismo, non scorderò mai e poi mai lo sguardo vittorioso di mio padre. Perché lo rivedo ogni volta che mi porto davanti ad uno specchio, vedo la sua brama di potere, la sua voglia di vincere, di sottomettere, quella perfida gioia che nasce quando si assoggetta qualcuno, e delle volte mi spaventa.
Gli anni passarono velocemente, come deciso studiai orazione con i migliori maestri della Grecia, imparando la loro lingua, seguii mio padre, le sue orme, mentre la città mi cresceva accanto.
Ricordo bene il mio ultimo giorno di vita, fu di sicuro il più intenso e forte della mia breve esistenza umana, rimpiango solo una cosa della trasformazione: è avvenuta quando ormai la primavera si era prepotentemente insinuata nel vento tiepido di quel periodo.
Il 15 marzo del 44 io ero a casa, mia madre si era recata nella nostre residenza in campagna, giù al Sud, ed io ero rimasto con mia sorella ed alcuni servi.
Quella mattina mi svegliai salutando mio padre come mio solito, stranamente non dovevo recarmi al Foro, avevo già sbrigato tutti i miei doveri, lo vidi uscire ed annoiato mi misi a leggere all'aperto un classico greco. Non ero concentrato, l'imminente matrimonio con una donna della gens Claudia mi pesava sulla testa e non mi lasciava pensare ad altro. Non volevo sposarmi, affatto. Lo ritenevo un legame troppo stretto per il mio carattere volubile e facilmente distraibile. Mi annoiava rimanere troppo tempo a fare qualcosa, incentrarmi solo su quella, mi sembrava uno spreco.
Comunque, non riuscii a leggere. La faccia poco armoniosa della mia futura sposa, con il suo mento rientrante e le sue labbra così sottili da parer invisibili, continuava a comparirmi in mente, distraendomi, i suoi modi scoordinati ed il suo sorriso ebete mi infastidivano e ancora mi chiedevo come mai avevo acconsentito a sposarla.
Già, speravo di eludere il connubio matrimoniale.
Nonostante i pensieri poco piacevoli decisi di rimanere a godermi l'aria fresca dei primi giorni di primavera, quell'anno era giunta in anticipo, spiazzandomi un po'.
Fu Didyme a venirmi incontro, verso metà giornata, affannata e con le lacrime che le rigavano le gote.
Mi alzai di scatto, correndo verso di lei: una cosa difficile da vedere a questo mondo sarebbe stata mia sorella piangere.
L'accolsi tremante nelle mie braccia cercando di calmarla accarezzandole i lunghi boccoli corvini, un'impresa inutile, continuava a singhiozzare. Teneva in mano una lettera rovinata, scritta di fretta, non feci in tempo a chiedergliela che lei a capo chino me la porse senza fiatare. Amavo, e tutt'ora amo mia sorella, e quello che ho fatto l'ho fatto solo per un bene superiore; vederla così fragile e scossa mi aveva sconvolto.
Lessi la lettera rimanendo shockato: Aro dobbiamo avvertirti che c'è stata una congiura al senato, tuo padre, Cesare e pochi altri fedeli sono rimasti morti, ti invito a raggiungermi il prima possibile.
Marco Antonio
Non era possibile, non doveva essere possibile: questo era l'inizio della fine, di una nuova guerra civile.
Piansi? E' questo che vi state chiedendo? No. Non lo feci, non ci riuscii, anche se ammiravo nel profondo mio padre non sono mai riuscito a considerarlo tale, ma in fin dei conti erano altri tempi. Tutt'oggi però pensare a lui è come qualcosa di sfuocato, probabilmente per via degli anni che passano cancellando come onde i nostri ricordi scritti nella sabbia.
Non avevo mai parlato di persona con Antonio, era un “piacere” che lasciavo volentieri a mio padre, sapevo unicamente dove abitava perciò lo raggiunsi immediatamente a cavallo, lasciando Didyme alle cure di Artisia, la nostra schiava Macedone.
Non sapevo cosa aspettarmi, e quando arrivai nella sua dimora lo trovai a sorseggiare agitato un bicchiere di vino rosso mentre parlava animatamente con un ragazzo di al massimo venti anni, questi teneva la testa china ed annuiva deciso alle affermazioni dell'uomo che gli stava di fronte. Fui presentato da uno schiavo e fui invitato dal padrone di casa a sedermi sul triclinio che aveva fatto portare, mi chiedevo come si potesse essere così tranquilli in questa situazione.
-Salve giovane Aro, ho sentito molto parlare di te al tribunale, si dice che tu sappia come commuovere i più rudi generali e dissuadere il più testardo dei muli- mi lusingò con falsa gentilezza facendomi segno di servirmi da bere, rifiutai con un gesto veloce della mano.
-Direi che ho avuto un ottimo maestro, defunto ormai- risposi inchiodandolo, volevo risposte, non stupide chiacchiere: cosa volevano da me? Perché mi avevano convocato in questa sede mentre fuori Roma fremeva scossa della agitazioni popolari?
-Esatto, esatto... proprio per questo. Credo tu sappia cosa è avvenuto quest'oggi al Senato- pronunciò la frase lentamente, ponderando il tono per sembrare il più calmo possibile.
-Fin troppo bene, mio padre è rimasto ucciso nella congiura insieme al dictator , morto per mano di traditori- tentai di frenare la rabbia e ci riuscii, anzi, di sicuro sembrai fin troppo freddo ai due che mi guardarono stupiti.
-Bene, credo sia giunto il momento di vendicare la morte dei nostri amici- si alzò in piedi, come se avesse studiato la mia reazione e si fosse accertato di qualcosa.
-Dove stiamo andando?- chiesi fremente seguendolo alla porta della domus ed uscendo con lui per poi salire a cavallo.
-Al Foro, ho chiesto di radunare un consiglio speciale a cui sono invitati a partecipare tutti i cittadini, lì mostreremo la tonaca di Cesare, e quella di tuo padre, faremo vedere loro chi sono i veri assassini della democrazia- la sua voce risuonava di una vana gloria, che lo rendeva pomposo ed artificioso, poco sincero e molto, ma molto falso.
Credeva davvero che la democrazia in questa società esistesse davvero? Che veramente questa fosse possibile con la mandria di stolti che la popolavano?
Pensava sul serio che questa magnifica utopia, inventata e poi maltrattata dai Greci, potesse essere la soluzione ad uno stato logoro come il nostro?
No. E lui lo sapeva meglio di me, era un attore che conosceva bene il pubblico e capiva che usare queste parole l'avrebbe portato in alto, peccato per lui, però, che io sapevo, e tuttora so usare la parole meglio di chiunque altro. Peccato... davvero un peccato.
Diedi uno strattone alle briglie ed il cavallo partì alla volta del centro della città, durante il breve viaggio fui presentato velocemente al giovane: Ottaviano, si chiamava Ottaviano ed era il nipote di Giulio. Strane coincidenze hanno tracciato la mia vita, che poi non credo sia seriamente vita, ma un susseguirsi di vittorie e di sconfitte, grandi e piccole, che unendosi danno origine al filo scarlatto che ognuno di noi ha.
Arrivammo al Foro che l'entrata del tempio delle Vestali era completamente coperta dalla gente: contadini, mercanti, commercianti... tutti, erano venuti per noi, per loro.
Salii su un piccolo rialzo fatto sul momento, Ottaviano venne raggiunto da due altri ragazzi, massimo venticinque anni ciascuno, uno lo riconobbi subito dal portamento fastidiosamente ambiguo: Mecenate, troppo si parlava di lui nei salotti per bene. Ogni volta che lo intravedevo giuravo a me stesso che non sarei mai caduto così in basso.
L’altro aveva i tratti massicci e poco piacevoli, quasi burberi, teneva la testa verso il basso, borbottando qualcosa lanciandomi occhiate sospettose che ignorai, troppo occupato a capire cosa volesse da me Marco Antonio.
Magari voleva farmi far parte della sua idea di grandezza... probabile, dopo la morte di mio padre l’unico che appoggiava i populares dotato di un’ottima capacità d’orazione ero io. Era l’unica soluzione che trovavo al mio problema. Guardai in lontananza verso il Palatino e sorrisi: l’unione delle di due alberi formava, grazie alla luce sempre più fioca del sole che tramontava, la sagoma di un lupo. Una lupa per la precisione, perfino la natura, a Roma, teneva conto delle proprie origini.
Non ascoltai il discorso del più anziano, fissavo i volti della gente deformati dalla rabbia, cercavo qualche indizio che potesse essermi utile per rendere il mio futuro discorso efficace, quando il primo finì mi alzai pronto a parlare, ma successe qualcosa che non sarebbe mai e poi mai dovuto accadere: mi bloccai.
Per la prima volta nella mia vita mi fermai un attimo, senza parole. Li vidi: gli uomini dagli occhi rossi, fermi in mezzo alla folla rumorosa, come circondati da un’aura di inumanità e gloria, che mi fissavano, come avevano fatto quel giorno, in mezzo alla parata. Inizia a respirare faticosamente, attaccato da un nuovo terrore, non erano cambiati, erano i medesimi uomini che quasi dieci anni prima avevo incontrato, magnificamente belli ed angelici. Uno di loro, il più giovane, mi guardava rapace, come divertito.
Spalancai le palpebre e cercai di regolarizzare il mio stato d’animo, dandomi un’aria più calma e tranquilla, sfortunatamente in quell’arco di tempo il futuro Augusto prese il mio posto, spinto dai suoi amici.
Si sporse verso la folla titubante ed io ringhiai sommessamente infastidito per essere costretto a parlare per ultimo.
Così non fu, troppo inesperto e timido, Ottaviano rimase ben presto senza parole, titubando davanti a quell’animale feroce che è il popolo, tenendo tra le mani la veste insanguinata dello zio, stringendola agitato tra le mani, percorrendo con le dita le pieghe ormai rosse.
Sono sempre stato dell’idea che nella vita puoi fare due cose: agire, o non agire, da questo si decide il tuo futuro. Io, come sempre, decisi di agire.
Feci uno scatto veloce e strappai la tunica da quelle mani inesperte, mi portai davanti a lui e con voce tuonante inizia a parlare.
-Popolo di Roma, mi vedo qui, riunito insieme a voi, in questo infausto giorno. Le cause sono state ben spiegate dai miei colleghi, sono stati uccisi due cittadini Romani. Nel modo più infame che ci possa essere: non gli è stato concesso di morire sotto le armi, bensì trucidati dai colpi di traditori nascosti sotto le spoglie di eroi- Ripresi l’attenzione in un baleno, tutti gli sguardi erano puntati su di me, sui miei gesti ampi e decisi, perfino quelli vermiglio delle due figure. –Ebbene vi dico che non sono morti inutilmente, sono martiri della Repubblica, martiri di quel sogno che abbiamo costruito insieme, distruggendo Cartagine, i barbari, e tutto ciò che la minacciava- attesi un attimo che le mie frasi facessero effetto, studiando le loro espressioni, poi decisi che era giunto il momento di far vedere a tutti la prova di tanta violenza, sollevai così la veste.
-Vedete questa? E’ il simbolo per cui ogni Romano d’ora in poi dovrà lottare, per cui passerà le sue giornate nei campi, per cui coltiverà la terra, per cui difenderà i confini, per cui deciderà di morire.
Gli assassini sono scappati, vili! Pensano che questo sia il modo per salvare le sorti del nostro stato!
Io so bene qual è l’unico modo per farlo, perciò vi voglio porre davanti un bivio: d’ora in avanti potete credere nei pochi di Roma, uccisori della libertà e della democrazia, o in Roma!- Respirai affannato dal lungo discorso in cui avevo usato al meglio le mie corde vocali. Sorrisi soddisfatto, ghignando in direzione di Mecenate che borbottava qualcosa, come un rimprovero, all’ inesperto amico.
Tornai di fronte a Antonio senza guardare in basso, non avevo voglia di incontrare nuovamente gli occhi spaventosi di quei due demoni, perché questo erano in base alle conclusioni che avevo tirato.
-Perfetto! Tuo padre ha concepito un erede alla sua altezza!- esclamò brioso questi cingendomi con un braccio la spalla. –Ora ho notato che sono tutti eccitati dall’idea di seguire le tue parole, perciò sfruttiamo la loro forza: te la senti di condurne almeno in parte verso la casa del primo aiutante di Bruto?- domandò inchiodandomi con lo sguardo. Annuii e senza dire nulla mi voltai lasciandomi cadere in mezzo al popolo, urlai ordini che vennero immediatamente eseguiti, salii sul cavallo e questi mi seguirono.
Le urla di fomento, le grida di ribellione erano ciò che mi nutriva in quel momento, sentivo scorrermi nel corpo una nuova sensazione: potere.
Questa droga afrodisiaca che distorce la realtà, incatena l’uomo a se stessa.
Il passo di marcia venne tenuto, ormai il sole era calato, e la luna era coperta dalle nuvole, presenti quel giorno. Tutto procedeva per il meglio, niente avrebbe potuto fermarci, anzi! Fermarmi. Perché questa era la mia battaglia, la mia gloria. Come ho detto, tutto procedeva, perché ben si sa che a Roma gli incendi non sono una cosa rara, e si sa anche molto bene che il fuoco non è un buon amico dei cavalli.
Davanti ad una casa in fiamme il mio animale si imbizzarrì e perfino per me, abile cavaliere, rimase impossibile domarlo. Caddi a terra disarcionato, e ancor prima di potermi spostare sentii il rumore degli zoccoli infrangersi contro la cassa toracica, distruggendola. Dolore.

Il cavallo non smetteva di nitrire, sentivo le ossa del mio corpo sbriciolarsi, la gola seccarsi e una tosse improvvisa impossessarsi di me, mi voltai per sputare un pesante fardello che tenevo in bocca: sangue.
Stavo morendo. Nessuno si accorse di me, e come poteva essere possibile? Steso a terra, sporco di sangue e sporcizia, il volto sfigurato dalle numerose persone che ignorandomi mi stavano calpestando.
Dimenticato, lasciato nel fango, come un verme! Era questa la morte che mi attendeva? Veramente, io, grande e potente cittadino, probabile padrone di Roma, sarei morto lì: tra i piedi di insulsi plebei?
Strinsi i pugni, serrai la mascella, sentivo parole intrise di rabbia pronte ad uscire dalla mia bocca, si gelarono quando capii che non potevo più parlare.
Morto da muto! Ecco cosa sarei divenuto: un freddo e inutile corpo.
Sentivo che la vista mi veniva meno, ogni cosa perdeva consistenza, tutto stava svanendo. Morto, morto, morto! Mentre rimpiangevo la mia vita che passava via, lasciandomi, due figure sfuocate si avvicinarono, una di esse mi prese caricandomi sulle sue spalle, gridai di dolore quando le mie costole si incrinarono ulteriormente.
-No! Idiota! Lo ammazzerai così!- una voce grave sgridò il mio portatore, che chinò la testa in segno di scuse.
-Caius trasformiamolo ora, lo porteremo a casa sua subito dopo, durante il viaggio potrebbe morire- un sussurro deciso, che non ammetteva repliche, tentai inutilmente di aprire gli occhi, troppo stanco, troppo vicino allo Stige.
Nessuno rispose, di colpo si fece tutto silenzioso, udivo in lontananza le urla della folla furiosa, di nuovo a terra, nuovamente silenzio.
E di colpo il lacerante dolore di un taglio, una lama affilata che dilaniava la mia pelle, trapassandola fino alla vena, gridai, questa volta più forte, e veramente terrorizzato.
Demoni!
Nonostante fossi riuscito a spalancare le palpebre non vedevo nulla, solo un bianco accecante che mi disorientava, un vero silenzio opprimente, sospeso in un luogo ne vivo ne morto, semplicemente esistente.
Non avrei visto Caronte con la sua lugubre barca, le anime dei miei antenati costrette a giacere per sempre in quei luoghi, nessuno sarà con me.
Ed ora, un nuovo Dio è stato inventato, nemmeno lui mi vorrà, mi lascerà qua, in questo mondo marcio, troppo schifato da quello che sono diventato.
Sentivo come un fiume di fuoco percorrermi il corpo ardendolo poco alla volta, sempre più violento più impetuoso, travolgendomi maligno.
Mi portai le mani al collo iniziando a graffiarmelo con violenza: VIA! VIA! Via da me veleno maledetto!
Sentivo il caldo del mio sangue macchiarmi le unghie, scendermi per l'avambraccio, poi nulla.
Continuai a galleggiare in quell'inferno dove tutto pareva non esistere, oltretomba astratto ed ingannevole.
Bruciavo.
Ardevo.
Morivo.

Uno: muori, soffri, capisci il vero significato del dolore come cosa vera e non irreale, non il dolore fisico, non solo, quello mentale, dell'anima, di ogni particella del proprio corpo
Due:Urli, strepiti, emetti gemiti sovrumani, chiedendo, implorando la fine. Incubi di un mondo demoniaco, satiri danzanti al ritmo di una canzone macabra.
Tre: vivi.
Il dolore scomparì di colpo, così come era venuto, attesi un attimo prima di aprire gli occhi, cercai di studiare tutto ciò che mi circondava.
Un materasso morbido sotto di me, un guanciale a circondarmi il collo, un odore forte di inchiostro e carta, molto più pungente di quanto ricordassi. Ero di sicuro in camera mia, nella mia casa. Aprii gli occhi cercando un indizio e il tavolino di legno accanto al mio letto mi diede la conferma, ero nella mia domus.
In lontananza sentivo i rumori delle pentole poggiate sul focolare, la legna scoppiettare in cucina, le lingue dei servi sciogliersi e parlare in dialetti sconosciuti, i singhiozzi di mia sorella nella camera accanto, e dei passi decisi echeggiare per il porticato che circondava il cortiletto. Mi misi in piedi in un istante che non riuscii neanche a capire come ci fossi riuscito, mi guardai intorno e nonostante le finestre fossero state sbarrate con delle assi di legno potevo distinguere benissimo il ballo della polvere che mi circondava. Afferrai in mano una pergamena e spalancai la bocca estasiato quando potei notare tutte le sue rifiniture, il numero di fogli soprapposti per formarla, tutti particolari che fino a quel momento, a causa della mia miserevole condizione umana, avevo ignorato.
Mi girai di scatto quando la porta si aprì, una figura longilinea apparve chiudendosela dietro. Marcus, se non erravo. Lo guardai, poi, in uno scatto d'ira, lo raggiunsi per strattonarlo.
-Cosa?! COSA SONO!?- gridai con tutto il fiato che avevo in gola, questi non si scompose, anzi, mi guardò come divertito, lo fissai per degli attimi eterni e guardo lo riposai gli sfiorai la spalla nuda, dato che la stoffa era stata spostata.
Straordinario... magnifico! La trasformazione è perfettamente riuscita!
Mi staccai spaventato, ritirandomi in un angolo senza smettere di fissarlo, aveva parlato, tenendo la bocca chiusa: come era possibile?
Notando il mio cambiamento improvviso di umore si avvicinò un poco con cautela inchiodandomi con il vermiglio delle sue iridi.
-Aro, non è vero?- fece la domanda retorica alla quale risposi con un gesto del capo.
Riflettevo in che modo potesse parlare con me senza fiatare, magari era un potere che avevo acquisito insieme alla velocità, la vista, l'udito e quant'altro super sviluppato.
-Bene, giovane Aro, sono felice di annunciarti che sei perfettamente trasformato- disse con un sorriso ingannevole.
-Lo so bene, me lo ha già detto- sibilai sospettoso socchiudendo gli occhi.
Questi però li spalancò stupito, quasi confuso, assottigliandoli attento.
-Cosa intendi?- domandò deciso.
-Qua...quando l'ho sfiorata, ho sentito che era contento per il fatto che sono stato ...trasformato- spiegai balbettando impacciato. Dannazione! Non era da me! Presi fiato, una boccata d'aria tiepida che si gelò nei miei polmoni morti.
Rimase in silenzio, studiandomi con abile maestria.
-Cosa sono...?- chiesi prendendo coraggio.
-Tecnicamente un vampiro, estremamente lucido per giunta!- esclamò contento, quasi infantile.
Non capii all'istante, mi sedetti sul letto prendendomi la testa fra le mani, la gola mi bruciava, e sentivo una morsa attanagliarmi appena sopra allo stomaco: avevo fame.
Eppure l'odore di carne che proveniva dalle cucine mi schifava, facendomi venire il voltastomaco, cosa mi era successo?
-Vedo che hai perso la tua loquacità....- rise accostandosi, lo fulminai furioso: come si permetteva?! Di colpo aggrottò la fronte, poi la rilassò ghignando. Pochi istanti dopo un servo, che aveva infranto la regola di non entrare nella mia stanza per nessun motivo, giaceva a terra morto completamente dissanguato da me, che lo fissavo famelico in piedi.
-Quindi ci nutriamo di sangue?- sussurrai pensieroso.
-Perspicace...- mugugnò Marcus più a se stesso che a me.
-Siamo molto più forti di un comune umano...- continuai sempre più eccitato., osservando la massa muscolare del Germano molto superiore alla mia che nonostante tutto si era piegata facilmente sotto il mio tocco.
-Ambizioso...- ridacchiò lui avvicinandosi.
-Siamo... immortali?- domandai voltandomi con gli occhi che brillavano di curiosità.
-Perfetto- concluse lui poggiando una mano sul mio braccio, un altra scarica elettrica, simile a quella che avevo provato poco prima.
I corridoi bui di una casa, le terre dell' Etruria, i morti in battaglia, la gloria della vittoria, e la soddisfazione dell'avermi trovato.
Mi scansai e assottigliai lo sguardo: cosa succedeva?
-Dove è quella casa?- chiesi senza tradire emozioni. Di nuovo il suo sguardo stupito e la domanda confusa:
 -Quale casa?-
-Quella dei suoi pensieri- risposi con lo stesso tono, riacquistando la freddezza che mi caratterizzava.
Finalmente sembrò arrivare ad una conclusione, batté le mani estasiato.
-Oltre ogni aspettativa!- esultò avvicinandosi alla porta, pronto ad uscire, la visita sembrava essersi conclusa.
Lo raggiunsi in un millesimo di secondo, prendendolo per un braccio in uno sprizzo di rabbia: come poteva andarsene così!? Senza avermi detto nulla, se non una serie di considerazioni inutili!
-Cosa vuole da me?- ringhiai infuriato, un suono gutturale nuovo per me, mi sentivo come un animale, istintivo, poco razionale, pronto a sbranare chiunque avessi trovato sulla mia strada.
Non io, non più.
-Offrirti tutto ciò che vuoi- rispose enigmatico e suadente voltandosi con un ghigno criptico.
Mi drizzai e rimasi muto.
-Tieni, faremo prima- sorrise porgendomi una mano, l'afferrai e quello che vidi bastò: Fama, Gloria, Potere, Rispettabilità, l'essere temuto da tutti....
Volterra....
-Basta?- chiese arricciando le labbra.
-Basta- confermai ritirandomi nel buio con un sorriso esultante.
-Ti verremo a riprendere tra qualche settimana, quando avrai placato in parte la tua rabbia animale- spiegò uscendo -intanto un nostro schiavo ti porterà ciò di cui ti ciberai- dette queste parole scomparì.
Rimasi in un cantuccio seduto con le spalle al muro per non so quanto tempo ripetendomi sempre la stessa domanda, come una litania: ero pronto?
Sì, confermai a me stesso scoppiando a ridere come un folle.

Il tempo passò velocemente, e tutt’ora passa nello stesso modo.
Ritornarono come promesso, ufficialmente a mia madre fu detto che sia io che mia sorella eravamo rimasti morti nell'incendio della nostra casa, la piccola Didyme mi seguì fino in Etruria dove poi, in seguito a pochi anni, la trasformai.
La uccisi, questo lo ammetto, per ovvi motivi, che non sto a spiegarvi, un assassino direte voi... un uomo vi rispondo, con la voglia di volare alto, sopra a tutto e sopra a tutti, sottometterli, assoggettarli al mio volere, incantarli come prede per poi stritolarli nelle mie spire.
Ora sono ciò che ho sempre voluto essere:
Forte.
Potente.
Ricco.
Temuto.
Venerato.

L'uomo non sa perché continua a correre alla ricerca del Potere, per quale motivo lo continui a cercare spasmodicamente, io so solo che lo faccio perché è l'unico modo con il quale posso ancora dire al mondo di esserci, non essere un semplice corpo che resiste all'erosione del tempo, ma una mente pensante ed elevata.
Ed è anche l'unico modo che ho per dire che sono ancora vivo.

Angolo autrice:
SAlve! Un altra storia con il caro Aro, il mio amore<3, che ha partecipando ad un contest e si è posizionata terza. Mi ha fatto moltissimo piacere che la storia è stata definita come veramente originale, vale molto più di un primo posto.
Comunque bando alle ciance! Spero che sia piaciuta anche a voi! Mi auguro che vogliate commentare! Au revoir, vi lascio ai commenti delle giudici, che ringrazio sia per il commento scritto che per il banner!

Terza classificata: Princess of vegeta6 con Testis Temporum

CallieAM:
Livello ortografico: grammatica e sintassi 8/10
Lessico e stile 8.5/10
Originalità 10/10
Trama 9/10
Personaggi IC 5/5
Gradimento personale 4.5/5
Punti bonus: 1.25/1.25
Giudizio:Sicuramente la tua storia è una delle più originali del contest.
Parlare dell’infanzia e della giovinezza di Aro inserendolo in un contesto particolare come la Roma di Giulio Cesare è sicuramente stato un gesto molto ardito che ha ripagato i tuoi sforzi.
Far poi gestire ad Aro una situazione delicata come la morte dell’imperatore è stato il punto di forza della storia.
Grazie a questa trovata sei riuscita a far guadagnare la perfetta credibilità al tuo protagonista.
Con il “capo” dei Volturi, in questo contesto, hai fatto un eccellente lavoro per quanto riguarda la caratterizzazione del personaggio, cioè, l’hai reso pienamente IC. Leggendo la tua storia sembrava di vedere il vero Aro all’opera: intelligente, scaltro, manipolatore, senza scrupoli, insomma.
Ti devo fare i miei complimenti anche per come hai fatto comparire all’interno della storia Caius e Marcus, mi ha piacevolmente sorpresa! Ma ora, passiamo alle note dolenti.
Ho trovato una serie di errori di battitura che probabilmente ti saranno sfuggiti durante la rilettura e una o due frasi che non hanno un vero e proprio senso compiuto; hai confuso la parola destriero con cavaliere(o cavallerizzo/fantino che dir si voglia). Destriero è propriamente il cavallo(ho appena controllato per sicurezza sul dizionario^^) e, per finire, qua e là ho trovato alcune ripetizioni che non rendono troppo scorrevoli quelle determinate frasi.
Sono errori che, con un’attenta rilettura, si possono tranquillamente correggere ma che, in questo caso, hanno pregiudicato punteggio
Comunque, escludendo queste piccole sviste che possono capitare a chiunque, la tua storia mi è piaciuta veramente molto complimenti^^

45/50 punti + 1.25 punti bonus = 46.25


SlytherinPrincess:
Livello ortografico: grammatica: (4.5) sintassi(4.5)
Lessico e stile (7)
Originalità (8)
Trama (7.5)
Personaggi IC (5)
Gradimento personale (3)
Punti bonus: 1.25/1.25
Giudizio: la storia non è brutta mi piace molto come è impostata ma purtroppo non mi piace il tempo in cui è ambientata *ho litigato con i romani e il loro imperoXD* però è una storia scorrevole e ben impostata non ci sono errori troppo gravi.

39.5 punti + 1.25 punti bonus = 40.75

Somma dei giudizi 46.25 + 40.25 = 86.5


   
 
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