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Autore: Luine    11/04/2009    1 recensioni
Quando mi hanno regalato questo diario per il mio dodicesimo compleanno, non credevo che mi sarebbe stato tanto utile. Credevo che sarebbe rimasto intonso come quando l'ho scartato. E, invece, eccomi qui a scrivervi sopra e a raccontare la mia (strana) vita.
Mi chiamo Ken Iccijojji, vivo a Tokyo con i miei genitori, Videl e Gohan, e con mia sorella maggiore, Pan.

Kenny ha dodici anni, una sorella maggiore alquanto turbolenta e una situazione familiare decisamente movimentata. A causa del terrore di sua madre di vederlo diventare come Pan, si ritrova iscritto in una scuola speciale per ragazzini problematici che già da subito si rivela essere una vera e propria caserma militare.
Tra paure, insegnanti molto duri, amici fidati e misteriosi, incomprensioni, equivoci e risate, si snodano le vicende di Kenny che come valvola di sfogo ha il suo diario, sul quale annota le sue più intime paure e i fatti di vita quotidiani, cercando di convincere se stesso che, forse, poteva andare peggio.
[ Dragon Ball, Digimon 02, Gundam Wing, What a mess Slump e Arale, e altri ]
Genere: Comico, Commedia, Parodia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Le lezioni al primo anno.

Presentazioni


La mamma, quando ci ha parlato della scuola per ragazzi disturbati e disadattati, non ci aveva detto proprio tutto tutto... ci aveva dato solo qualche assaggio. E anche piuttosto deludente.

Ho passato tutta l'estate ad attendere il mio destino e il primo di settembre, il momento in cui sarei entrato in una scuola piena di... persone come Pan.

Sapevo che sarei diventato il tappetino di altri, se solo mia sorella l'avesse voluto.

E l'estate è volata via, così, come è arrivata e non me la sono goduta minimamente. Agosto, poi, è stato un vero inferno, non solo per il caldo: la mamma ha preteso che cominciassimo a prepararci le valigie.

«Se no, poi, arrivate lì e vi manca un paio di mutande!» ha detto, mentre posava tutte quelle che trovava nel mio borsone da viaggio. Le volevo dire che non sarebbe stato il paio a fare la differenza, ma poi preferivo optare per altre domande, quali parastinchi, parapalle e quant'altro per sopravvivere nella giungla degli energumeni. Ma lei mi rideva in faccia e, come sempre quando le facevo di queste richieste, andava da un'altra parte che, di solito, era la camera di Pan.

La mia sorellona era più irascibile del solito ed era meglio evitare di stare per più di due minuti nella stessa stanza con lei, se non si voleva dire addio a timpani e ossa. Persino nonno Satan non è stato risparmiato: la ferita sul labbro che lei gli ha procurato si deve ancora rimarginare e ce l'ha da due settimane, ormai!

Mamma, comunque, non è mai riuscita a farle cambiare idea: le ha semplicemente preparato le valigie e, dopo le prime due volte in cui Pan le risvuotava, ha imparato a metterle in un «posto sicuro», di cui nessuno ha mai saputo l'esatta locazione.

Ma comunque Pan non è mai scappata. Forse perché detesta cordialmente nonna Kiki e non andrebbe mai a vivere sotto il suo stesso tetto.


1 Settembre


Stamattina mi sono alzato molto presto, svegliato dalla mamma che batteva il mestolo di metallo sul retro di una padella, dal fondo delle scale.

Pan ha sbattuto la porta di camera sua, cominciando a urlare:

«CHE CAZZO C'È?»

Era la stessa domanda che mi stavo facendo io. Mi sono messo seduto e ho sbadigliato sonoramente, mentre lei entrava, ancora sbattendo la porta.

«Sei di una finezza disarmante, Kenny!» ha avuto il coraggio di dirmi. Ho alzato gli occhi per chiederle che stesse dicendo, ma era già corsa in bagno. Dato che, quando entra lei in bagno, ci mette sei quarti d'ora ad uscirne, sono sceso in cucina per la colazione.

Non ho mai visto casa mia in quello stato: il corridoio di fronte alla porta d'ingresso era stivato di valigie e borsoni, quasi dovesse partire uno squadrone, non due ragazzini. La porta era aperta e papà andava e veniva portandone un paio alla volta verso la macchina parcheggiata fuori. Aveva una faccia da funerale, così come il nonno che era seduto sul bordo di una poltrona e aveva anche gli occhi lucidi.

Non l'avevo mai visto piangere.

La mamma, intanto, era ancora in cucina e accarezzava una tovaglietta da colazione e singhiozzava silenziosamente. E' stato il momento più brutto della mia vita: ho realizzato che avrei lasciato la mia famiglia per molti mesi e che li avrei passati in un postaccio terribile. Non riuscivo a trattenere le lacrime, ma ho fatto del mio meglio, peccato che, quando sono entrato in cucina, non ce l'ho fatta e mi sono messo a piangere come un vitellino.

«Oh, Kenny!» piangeva la mamma, alzandosi e venendo ad abbracciarmi. Mi sentivo un condannato a morte. «I miei bambini che se ne vanno di casa! Non vedrò i miei bambini per quattro lunghissimi mesi!»

«L'unica cosa che dovevi fare, mammina cara...» è stata Pan a parlare. Non appena l'abbiamo sentita, io mi sono girato e la mamma ha sciolto il nostro abbraccio. Mia sorella sembrava l'unica a non essere stata affetta da crisi di pianto. «L'unica cosa che dovevi fare era di non iscriverci a quella cazzo di scuola, ma, dopotutto devi avere dei figli che, non appena gli schioppano una frusta poco vicino al culo, devono scattare, per cui...»

Non ha finito la frase, si è seduta e ha cominciato a trangugiare la colazione. Intanto, notavo il suo abbigliamento: era vestita da mare, con il prendisole e le ciabatte, una cosa che fa quando non ha voglia di andare da qualche parte e non la si può convincere del contrario.

Per questo è stata una bella impresa caricarla (nel vero senso della parola) in macchina. Dopo che abbiamo finito tutti di prepararci, pure il nonno, eravamo pronti per partire, solo che, appunto, Pan non voleva salire.

Ero dietro di lei, con a fianco la mamma che continuava ad asciugarsi le lacrime con un fazzolettino di carta, quando mia sorella si ferma davanti alla portiera aperta della macchina e guarda me.

«Su...» mi ha detto, quasi gentile. «Posa le chiappe su questo cazzo di sedile!»

Ho annuito, incapace di contraddirla, ma la mamma mi ha bloccato afferrandomi per una spalla.

«Prima tu, Pan! E smettila di essere volgare!» ha detto, categorica.

«Ma non rompere, mammina cara!» ha risposto lei, ancora usando quel tono falsamente gentile. Non sapevo che pensare... ma sapevo che la faccenda mi preoccupava: Pan non è mai così accondiscendente, a meno che non abbia un piano in mente. E i suoi piani mi spaventano sempre un po', perché sono tutto meno che sicuri. Cioè, sicuri sono, ma per quanto riguarda le costole rotte.

«PAN! UN PO' DI RISPETTO! SONO TUA MADRE!»

«Fai salire Kenny!» Pan mi ha indicato.

«HO DETTO PRIMA TU!»

«E IO TI DICO PRIMA KENNY!»

«PRIMA TU!»

«PRIMA KENNY!»

«TU!»

«KENNY!»

«HO DETTO: TU!»

Mamma ha fatto un balzo avanti, cosa che né Pan né io ci aspettavamo. L'ha afferrata per le spalle, decisa a spingerla dentro.

Il problema è che Pan ha fatto resistenza ed è anche riuscita a girarsi, così che ha potuto afferrare il tettuccio della macchina con le mani e puntare i piedi sulla strada, in modo che, comunque la mamma la spingesse, non potesse entrare.

«NON CI VERRO' MAI IN QUELLA SCUOLA! SCORDATELO!» gridava mia sorella, continuando a opporre fiera resistenza, con la mamma che, da dietro, la spingeva e gridava a sua volta.

«NON FARE STORIE, TESORUCCIO! MUOVITI, ENTRA IN MACCHINA!»

«MAI!»

Papà guardava tutto con fare preoccupato dal posto di guida, mentre il nonno tifava per Pan dal marciapiede. Aveva lasciato perdere le valigie che non erano ancora state caricate e mi sembrava quasi di essere allo stadio. I vicini avevano cominciato ad affacciarsi, credendo ad un rapimento, forse.

Il signor Parker, il nostro dirimpettaio era uscito in giardino come tutte le mattine, aveva aperto il tubo dell'acqua con il quale annaffia i fiori e guardava il tutto come se non credesse ai suoi occhi o come se non ci vedesse molto bene. Ma forse un po' tutti e due.

«Ehm... Videl...» ha chiamato papà, ad un certo punto.

«PERCHE' NON VIENI A DARMI UNA MANO, GOHAN, INVECE DI STARE LÌ A FAR NIENTE? PAN, ENTRA...»

«HO DETTO DI NO!»

Nemmeno il poliziotto che passa tutti i giorni nel nostro quartiere si è fermato... ormai conosce bene la nostra famiglia e nemmeno i vicini inviano più segnalazioni alla polizia, ma, chissà come mai, la nostra zona è famosa per il più basso tasso di vendite immobiliari... comincio a credere che sia colpa nostra.

«Pan, tesoro...» ha cominciato papà, uscendo dall'auto, mentre ero nel bel mezzo di queste elucubrazioni mentali.

«NON MI AVRETE! IMMOLATEMI, PERCHE' IO NON PARLERO'!»

«NON ABBIAMO BISOGNO CHE PARLI! SOLO CHE COLLABORI E TI INFILI IN MACCHINA!» ha continuato la mamma, ancora spingendo con forza. Davvero non sapevo se ridere o nascondermi, se aiutare mia madre o continuare a starmene fermo in quel modo come un cretino. La verità era che mi sentivo davvero un cretino.

«VAI, PAN, CHE SEI FORTE!» questo è stato il grido del nonno.

«PAPÀ, PIANTALA E DAMMI UNA MANO! A TE DÀ ASCOLTO!»

Il nonno, alle parole della mamma, ha smesso di fare il tifo, ma anche di fare qualsiasi altra cosa.

Mamma continuava la sua lotta contro mia sorella che, adesso, si scuoteva come una scimmia, appesa al tettuccio, mentre io tentavo di non ridere. Chi non c'era non può capire l'ilarità, il problema è che credo di essere stato l'unico a coglierla, insieme al dirimpettaio, che continuava a guardare la scena con la bocca e l'acqua aperte, un mezzo sorriso incerto, mentre la vecchia della casa alla destra di quella di Parker aveva chiuso le tende, indignata.

«Ma io non voglio che la mia nipotina mi lasci!» ha spiegato il nonno alla mamma che gli chiedeva perché non faceva niente.

«NONNO, NOI NON CI PIEGHEREMO A QUESTI AMERICANI SCHIFOSI!» gridava mia sorella, allungando un braccio verso di lui. Il nonno non ha capito e ha cominciato a guardarsi intorno.

«Quali americani?»

«BASTA! SIETE TUTTI CONTRO DI ME! KENNY, COMBATTI TU PER ME! IO SONO SCONFITTA!»

Ho fatto una smorfia strana: che avrei dovuto fare? Mi sono guardato intorno più spaesato del nonno, mentre la mamma continuava a chiedere aiuto a papà. Ma Pan era davvero sconfitta: le sue mani non sono riuscite a resistere alle spinte di mamma e, sudando, sono scivolate. Così è entrata in macchina.

Il resto è stato un secondo: non so cosa o chi mi abbia afferrato. Mi sono sentito catapultare in macchina e mi sono ritrovato proprio sopra Pan.

«CHE FAI? MANIACO!» mi ha tirato un pugno sulla testa e poi mi ha spinto con una ginocchiata fin sullo sportello prontamente richiuso dalla mamma. Meglio così, altrimenti mi sarei ritrovato con la testa spaccata sull'asfalto e, questa sera, avrei scritto questa pagina di diario al fianco di San Pietro. Scommetto che Pan non sarebbe stata così dispiaciuta.

Ma nel frattempo mi sono lamentato parecchio.

«Invece di aiutarmi, pensi di finirmi addosso! E tu ti dichiareresti mio fratello! Che schifo!» ha detto, delusa e disgustata, prima di sputare sul sedile davanti, mentre il nonno riapriva la portiera dal suo lato. Ho immaginato un luccichio sinistro negli occhi di Pan, prima del suo nuovo tentativo di fuga: «BRAVISS... MERDA!»

Il nonno era salito prima che lei potesse solo provare a mettere un piede a terra.

«Perché, nonnino?» ha chiesto, a quel punto, Pan, in tono lamentoso. «Perché vuoi abbandonarmi in quella scuola per pazzi? CI GODETE A FARMI SOFFRIRE?»

Il nonno stava di nuovo per farsi venire i lacrimoni agli occhi, cosa che stava facendo commuovere anche me, non solo per via delle stelline che ancora riuscivo a vedere dopo quel colpo in testa.

«Adesso possiamo andare!» ha esclamato la mamma, non appena ha chiuso tutte le portiere con la sicurezza-bambini, per paura che Pan le potesse sfuggire con la macchina in corsa.

Il viaggio è stato indolore. Sì, fino all'autostrada!

Siamo rimasti imbottigliati nel traffico per rimanervi fino oltre le due, con un caldo e una fame che ci stava uccidendo. Perché, come se non bastasse, la mamma non aveva preparato nemmeno un panino, convinta che ci saremmo fermati in qualche autogrill. Almeno ha portato sei bottiglie d'acqua, peccato che Pan se ne sia scolate due e mi sia toccato lottare per avere la terza.

Il nonno continuava a lamentarsi e io ero decisamente andato K.O., non solo per la fame, ma anche per il caldo, perché papà ha comprato la macchina senza l'aria condizionata per via dei costi troppo alti. E non potevamo nemmeno aprire i finestrini: non è il massimo finire asfissiati dallo smog dei tubi di scappamento. Una volta ci abbiamo provato ed è un'esperienza da non ripetere.

Non abbiamo potuto nemmeno entrare in autogrill, perché, anche per entrarci, c'era una fila che non auguro neanche al mio peggior nemico.

«Io lo sapevo che oggi sarebbe stata una fottuta giornata!» diceva Pan, disperata. Anche lei non sembrava messa troppo bene: sudava come un maiale e aveva cominciato a puzzare. «Sapevo che saremmo crepati in questo caldo!»

Fortunatamente, non appena abbiamo lasciato l'autostrada, la strada si era fatta più sgombra e abbiamo potuto aprire i finestrini e far entrare un po' di aria fresca.

La mamma, a un certo punto, ha detto a papà di girare a sinistra al primo svincolo. Giuro che Pan ha dato voce ai miei pensieri, cosa che mi ha lasciato del tutto impreparato:

«Ma... se gira a sinistra, mammina cara, finisce nel covo dei militari. Guarda: c'è un filo spinato e sui cartelli c'è scritto: “Vietato l'ingresso. Zona militare”.»

Io mi chiedo dove ha trovato la forza per parlare, ma l'ha fatto e col tono che si usa coi bambini scemi e la mamma, per una volta che mi ero premunito e mi ero tappato le orecchie, non ha cominciato a urlare, ma, anzi, ha risposto tranquillamente.

«Ho un passy speciale. Me lo sono fatto inviare per posta!»

«Ma quante stronzate che spari!» ha sbuffato mia sorella, spaparanzandosi sul sedile, accanto al nonno che si era scolato l'ultima bottiglia d'acqua.

«IO NON SPARO STRONZATE, MIA CARA FIGLIA MALEDUCATA!»

Vorrei tanto essere come mia madre e mia sorella: con tutto il loro argento vivo. Sono davvero incredibili, anche con lo stomaco vuoto.

«E di chi è la colpa, se sono maleducata?» ha sbottato Pan, sarcastica.

«TACI!»

«Ehm... allora...» ha domandato papà. Il suo tono era abbastanza incerto, ma non posso biasimarlo: la mamma sarebbe capace di farci finire fuori strada, se non si tenta di calmare le acque. «Che faccio? Giro o non giro?»

«GIRA, GOHAN! GIRA!»

«Ehm... sì, okay, giro!» così ha messo la freccia e, dopo qualche metro, ci siamo ritrovati davanti alla cabina della guardia del “covo dei militari” che aveva abbassato la sbarra.

«Buon pomeriggio!» ha detto la guardia, chinandosi sul finestrino, con la mano sopra al tettuccio e guardandoci dubbioso, come a chiederci chi eravamo.

«Abbiamo il passy!» ha esclamato la mamma, tirandolo fuori dalla borsetta e sventolandolo come un fazzolettino.

Pan non ci poteva credere (neanche io, fino a che non l'ho visto, devo essere sincero): come poteva avere un passy per entrare in una zona militare spaziale?

«FAMMI VEDERE!» si è spinta tra i due posti davanti e ha allungato la mano per strappare il passy dalle mani di mamma che, però, non voleva cederglielo e tentava di spingerla indietro a suon di gomitate.

«STAI SEDUTA, PAN! STAI SEDUTA!»

«Vi prego, smettetela!» diceva papà, in tono disperato.

La guardia ci guardava con gli occhi sgranati. Aveva perso tutto il suo contegno militare e io mi vergognavo come un ladro. Il nonno aveva ripreso a fare il tifo per Pan.

«FAMMI VEDERE E MI METTO SEDUTA!» diceva lei, lottando e sventolando quel braccio come per salutare qualcuno molto lontano.

Papà ridacchiava nervosamente. «Le scusi!» diceva al soldato.

«Basta che non mi fanno stare qui tutto il pomeriggio...» ha replicato lui, come se la scena cui assisteva fosse stata normale. «Stanno per arrivare anche i pullman dalla città... e un sacco di altri genitori. Devo ammettere che...» ha guardato me, sul sedile posteriore. «avete fatto piuttosto in fretta... il traffico dell'autostrada è davvero incredibile a quest'ora!»

«Ha ragione...» ha ammesso papà. Ha cercato di intavolare una conversazione, ma non ce l'ha fatta, grazie alle grida di mia madre, di mia sorella e del nonno. Mentre io mi chiedevo come mai quel tizio ci stesse aspettando... e un pensiero orribile si è formato nella mia mente: che la scuola per ragazzini disturbati... fosse... dentro?

«ADESSO BASTA!» gridava la mamma. «GOHAN, PRENDI IL PASSY E DALLO...»

«A ME!» ha risposto Pan.

«ALLA GUARDIA!» l'ha corretta mamma.

«Scusa, Pan...» ho chiesto. Lei ha smesso di lottare con mamma e, senza pensarci un attimo, papà ha afferrato il passy dalle mani di mamma e l'ha ceduto alla guardia che, sospirando, l'ha preso.

«Sei scusato, ma solo se la tua è una domanda intelligente!» mi stava dicendo Pan, intanto. Ero dubbioso: la mia sarebbe stata una domanda abbastanza intelligente? Ho deciso di cambiarla all'ultimo.

«Ecco... ehm... perché volevi il passy?»

La sua espressione, da curiosa, è diventata delusa e disgustata. «MA CHE CAZZO DI DOMANDA È? MA SECONDO TE?»

«Potete andare!» ha detto la guardia, restituendoci il passy.

Papà ha messo in moto, mentre mi beccavo un pugno sulla guancia. Non so come la mia mandibola o i miei denti abbiano retto all'urto, ma sono felice che sia successo. Peccato per il dolore che, se ci ripenso, torna tutto intero.

«Sì, ma... perché?» ho chiesto ancora, mentre seguivamo il grosso viale.

«Perché...» Pan si è sporta di nuovo verso il davanti e, stavolta, è riuscita a strappare di mano a mamma il passy. «Perché volevo vederlo... ma a quanto pare è autentico...»

Ha guardato sospettosa nello specchietto retrovisore, mentre io guardavo il passy della discordia nelle sue mani. C'era solo scritto: Autorizzazione all'ingresso nel distretto militare spaziale, seguito da disegnino dell'aquila che era stato anche sul berretto della guardia. Ora sì che ero preoccupato. Ho deglutito a vuoto un paio di volte, prima di prendere coraggio e di parlare di nuovo.

«Senti, mamma... ma la scuola è... qui

«Ma certo che è qui!»

«COSA?» ha gridato Pan, indignata. «COSA VUOL DIRE CHE LA SCUOLA È QUI? DOVE MI HAI MANDATO?»

«Su, Pan, calmati!» stavolta è stata la mamma a parlare con sufficienza.

«CALMARMI? MI STAI MANDANDO DA QUESTI FASCISTI ASSASSINI!»

«ORA BASTA!»

Eravamo finiti in una zona militare che, a priva vista, era identica alle altre, coi suoi fabbricati grigi, i camion verdi e qualche soldato vestito di nero che guardava passare la nostra macchina rosa.

Il rosa è un colore imbarazzante, soprattutto per una macchina, ma era il colore che costava meno e, quando abbiamo deciso di cambiarla, la mamma non ha voluto sentire ragioni.

Sì, è imbarazzante all'inverosimile, ora che ci penso.

«Avevo capito che era una scuola per ragazzi difficili!» ho detto, sentendomi improvvisamente molto più teso.

«Beh...» ho visto la mamma fare una smorfia dallo specchio retrovisore. «La vita militare è l'unica che può plasmarvi davvero e farvi diventare bravi ragazzi, come voglio che siate.»

Ora sì che volevo davvero scappare.

«Mamma...» ha continuato Pan, inorridita. «Lo sai che mi stai mandando a una scuola di obbedienza, come ai cani?»

«Ma non è una scuola di obbedienza! E' un collegio militare speciale!» credo che la mamma non abbia colto l'ironia di mia sorella, ma non è una novità. Se prima ero stato terrorizzato dai ragazzi difficili e disturbati, lascerei solo immaginare quello che ho provato, non appena ho sentito le parole “collegio militare speciale”. Unire le due cose mi ha riempito del terrore più puro. Credo di sapere cosa prova uno ad avere la pistola puntata alla tempia, perché era così che mi sentivo.

«Che, a casa mia, è sinonimo di scuola di obbedienza!» ha detto Pan, in risposta all'obiezione di mamma.

«Fino a che vivi a casa mia, sarà un collegio militare!» è inutile: la mamma, quando vuole, non capisce l'ironia neanche se la paghi. Pan ha deciso di ignorarla, mentre io meditavo il suicidio.

Dopo un paio di metri, abbiamo trovato un cartello con una freccia che recitava: “Collegio Militare – 100 m”.

«SVOLTA, PRESTO!» ha gridato la mamma. Papà, per la sorpresa, ha cominciato a sbandare e abbiamo preso tutti a urlare, mentre papà, terrorizzato, tentava di riprendere il controllo del mezzo. Giuro, se non me la sono fatta addosso in questa occasione, non me la farò mai più. Non so neanche come non ci siamo cappottati, mentre papà muoveva velocemente il volante e frenava contemporaneamente. Mamma continuava a gridare come una pazza, insieme a me, mentre Pan si reggeva dal manico sopra il finestrino accanto al nonno. Lui sembrava l'unico in grado di apprezzare quello che, più tardi, avrebbe chiamato «grazioso contrattempo».

«MORIREMO!» erano queste le confortanti parole di mia sorella, mentre posava i piedi sopra il sedile davanti, quello di mamma, e la testa sul suo poggiatesta e si metteva a dondolare di qua e di là, nella grottesca imitazione di una scimmia.

Neanche il tempo di dirlo ancora, che la macchina era di nuovo in carreggiata, solo qualche metro più avanti rispetto a dove dovevamo andare. La cosa positiva era il silenzio calato sulla macchina. Papà, ho visto dallo specchietto retrovisore, era incazzato nero e stringeva convulsamente il volante.

«Videl...» ha detto, dopo un po', tremante. «La prossima volta che vedi un cartello... taci! Ci penso io!»

«Certo!» è stato l'acido e leggermente isterico commento di mamma. «Così poi ci fai morire! Se non c'ero io, eravate tutti già all'altro mondo!»

«Mah...» ha sbottato Pan, che continuava a dondolarsi. «Io dico che papà, per una volta, ha ragione e non ha detto le solite stronzate! E tu sei solo un'isterica!»

«IO NON SONO ISTERICA!»

«CAZZO, VIDEL! TACI UNA BUONA VOLTA!»

Il silenzio, poi, è calato davvero sulla macchina: era la prima volta, penso, in tutta la mia vita, che sentivo mio padre urlare a quel modo... e per zittire la mamma! Persino Pan, scioccata, ha deciso di riprendere a fare la persona normale e si è seduta composta. Solo il nonno ha parlato e solo per dire, appunto del «grazioso contrattempo», al quale Pan ha risposto con un «Tu sei tutto scemo!».

Nemmeno una parola, da allora, è volata all'interno della macchina, perché avevamo tutti paura, credo, di sentire papà fare, di nuovo, una cosa così strana come urlare. Se non l'avessi sentito con le mie orecchie, non l'avrei creduto possibile.

Abbiamo girato in tondo per un po', fino a che un soldato caritatevole ci ha indicato la strada giusta.

Incredibilmente, abbiamo lasciato la zona dei fabbricati e ci siamo infilati in una via alberata, in netto contrasto con il panorama precedente. Davanti a noi, una caserma nella caserma, più protetta di Fort Knox. Insomma, all'insegna del benvenuto.

Il muro era grigio, alto e spesso. Credo che, là sopra, ci poteva stare per lungo tutta la macchina di papà e anche molto comodamente. E all'ingresso c'era pure un cancello blindato, ma che per fortuna era aperto. Almeno il passy non è servito di nuovo. Anche perché non c'era manco un sorvegliante.

Ci siamo ritrovati in un cortile di terra battuta, davanti ad un edificio alto, grigio e triste. Pare una scatola, pieno di finestre piuttosto piccole come quelle di una prigione. Il benvenuto trasudava da tutti i pori.

Abbiamo parcheggiato davanti al muro, di profilo, così che si vedesse meglio il colore rosa da qualunque angolazione la si volesse guardare

«La mamma ci ha mandando in un carcere di obbedienza.» continuava a borbottare Pan, che si era stretta nelle spalle e guardava torva il lungo cortile davanti a noi.

Il portone dell'edificio, sempre di metallo, è preceduto da una scalinata spoglia. Ho guardato bene: c'erano tre ragazzi là seduti, tutti vestiti di nero. Non sembravano molto più grandi di me.

Erano tre dei famosi ragazzi disturbati e difficili.

Ho deglutito molto rumorosamente, mentre mi facevo forza e scendevo dalla macchina. Pan mi ha, stranamente, seguito e, come me, guardava tutto con la bocca spalancata.

«E io dovrei venire a vivere qui?» diceva. «Ma tua madre, Kenny, è fuori come un cazzo dalle mutande!»

«Senti, Pan... che ne dici di lasciare i francesismi e di cercare di fare una buona impressione?» ha chiesto papà, gentilmente, chiudendo la macchina con un colpo di telecomando.

«Tanto a che serve? Questa prigione è fatta apposta per farmi smettere di dire certe parole... anche se io intendo far diventare la vita di quelli che ci proveranno un fottuto inferno!» ha risposto lei, guardando quei ragazzi sulle scale che ridacchiavano. Io so perché lo facevano: la macchina rosa. E io mi vergognavo peggio di un ladro.

«Certo, tu potresti anche evitare di...» cercava di dire papà.

«Non scassare il cazzo!» ha tagliato corto Pan.

Papà non ha detto niente davvero. Mi chiedo se avessimo potuto crescere diversamente, se, ogni tanto, ci avesse dato uno scapaccione. Ma lui non l'ha mai fatto: ha sempre detto che non vuole metterci in pericolo e distruggerci con la sua enorme forza. Il bello è che io non l'ho mai visto usare la forza... solo quella volta, quando avevo tre anni, in cui ha sollevato la macchina per prendere il mio ciuccio che era finito là sotto. E, a quel tempo, la macchina non era di certo rosa...

«Su, ragazzi, andate a fare amicizia!» ci ha spronati la mamma.

«Non ci penso proprio!» è stato il commento di Pan, che si è stretta nelle spalle e si è voltata, in modo da darle a quei ragazzi. Anche io ero piuttosto titubante. Uno di loro è entrato nella prigione, mentre gli altri continuavano a osservarci, come se fossimo stati degli animali strani.

«Gohan, tu scarica i bagagli!» ha esclamato la mamma, mentre porgeva un fazzoletto al nonno che aveva ripreso a piangere e a dire che è stata crudele a mandare Pan in una scuola per ragazzi disadattati come questa.

Quelli seduti sulle scale erano vestiti con la stessa uniforme nera della guardia al posto di blocco. Qualcosa mi diceva che anche io, presto o tardi, l'avrei messa... e anche mia sorella e che tutti i vestiti che la mamma ha messo nelle nostre valigie li potevamo usare per accendere il fuoco. Se ci fosse un camino.

Dieci minuti dopo, sono usciti dall'edificio due persone: la prima era uomo alto, coi capelli biondo platino con una maschera che gli copriva la parte superiore del viso; l'altra era una donna. Era più bassa di lui, aveva i capelli castani raccolti in due crocchie ai lati della testa, era brutta e portava degli occhialini tondi che le facevano sembrare gli occhi ancora più piccoli e, cosa ancora più grave, ci guardava come se fossimo delle merde. Entrambi erano vestiti di rosso, avevano molte medaglie e i soliti polsini e colletto a strisce dorate.

«Non hanno un'aria molto raccomandabile...» ha detto il nonno, preoccupato, tanto che ha acceso la curiosità di mia sorella che ha deciso di voltarsi e guardare.

«Che facce di cazzo!» ha esclamato. Fortunatamente, erano ancora abbastanza lontani. La mamma, comunque, le ha dato lo stesso una botta sulla spalla per farla tacere.

I ragazzi sulla porta hanno fatto il saluto militare e, non appena i due in rosso sono passati, si sono rilassati. Già mi preoccupava il dover scattare in piedi ogni volta che vedevo qualcuno: non conoscevo i gradi e non li conosco. Continuo a chiedermi se salutare chiunque o solo qualcuno... di loro due, almeno sono sicuro.

«Benvenuti!» ha esclamato la donna, non appena è stata vicino a noi. Si è fermata in una rigida posa militare, quasi avesse avuto un palo nel sedere. «Sono il Colonnello Une, insegnante e direttrice di questo collegio. Questo è il Colonnello Zack Marquise, uno dei nostri qualificatissimi insegnanti.»

L'uomo con la maschera ha fatto un cenno con la testa.

«Abbiamo parlato con lei al telefono!» ha detto la mamma, allungando una mano che il Colonnello Une ha preso con titubanza. «Siamo la famiglia Iccijojji!»

Le ha mostrato il passy che quella donna ha a malapena guardato.

«Sì, mi ricordo...» ha tagliato corto. «Lei è la signora che voleva iscrivere entrambi i suoi figli!»

«Precisamente!» ha risposto la mamma, orgogliosa che ci si ricordasse di lei. «Bene. I suoi figli possono salire in camera coi loro bagagli, mettersi in divisa e andare dritti in Sala Conferenze, dove il nostro Generale terrà un discorso di benvenuto per il nuovo anno! Seguitemi, prego!»

Ha fatto un mezzo giro su se stessa, imitata dal Colonnello Marquise e si è diretta verso i ragazzi che ancora rimanevano in piedi sulla porta.

«Caporale Yuy!» ha chiamato lei. Il ragazzo che era entrato a chiamarli ha rifatto il saluto.

«A rapporto!» ha detto. Non aveva che qualche anno più di me, forse aveva quindici o sedici anni, i capelli castani e uno sguardo severo e leggermente snob. Il Colonnello Une si è voltato verso di noi e ci ha lanciato certe occhiate che avrebbero fatto rabbrividire un morto: credo che non avremo vita facile con questa donna... fa davvero paura. Pure gli altri si sono portati sull'Attenti. Tutti quanti erano poco più grandi di me. «Scorterà questi due ragazzi nel loro dormitorio, sono i soldati semplici Iccijojji!» ha detto la Une, in tono di comando, al Caporale Yuy.

«Sissignora!» ha esclamato lui, riunendo i piedi. La Une e Marquise sono rientrati, con tutti noi al seguito. Gli altri due ragazzi rimasti si sono messi a borbottare al nostro passaggio, ma non ci hanno seguito.

«Questa caserma si riserva di formare i migliori piloti spaziali del mondo!» ha detto la Une. «Ci vuole disciplina, rispetto delle regole e amore per la patria! E ora, signori Iccijojji, vogliate seguirmi in Sala Conferenze, mentre i vostri figli si cambiano!»

I miei e il nonno non hanno detto niente, mentre a me cominciava a gelarsi il sangue nelle vene: non credo di amare abbastanza la mia patria per poter andare a pilotare un aereo spaziale, magari per qualche guerra coloniale...

Abbiamo seguito il Caporale Yuy fino al quarto piano (non ci sono ascensori, solo scale, tante scale) e lui ha preso un enorme foglio dalla tasca. Sopra c'era un elenco lunghissimo di nomi.

«Iccijojji...» ha sussurrato. «Eccovi... quarto piano, primo anno corso B!»

«Corso B?» ha ripetuto Pan, come se Yuy avesse detto chissà che parolaccia.

«Sì...» ha risposto lui, atono, mentre salivamo le scale e io e Pan ci guardavamo intorno, cercando qualcosa che potesse diventare familiare, come un quadro, una scritta qualsiasi sul muro. Ma niente, tutto era spoglio e freddo. Persino il Caporale Yuy lo era.

«Questa prigione ha anche dei... corsi? Non siamo quattro gatti?» ha insistito mia sorella.

«No...» ha risposto lui, scrutandola. «Siamo molti di più, mi spiace deluderti! Ci sono ragazzi che vengono da tutto il Giappone e anche dalle colonie spaziali.»

«Poveri sfigati!» è stato il commento disgustato di Pan, quando siamo arrivati al quarto piano.

«Direi che ti stai dando della sfigata!» Yuy ha ripiegato il foglio e se lo è rimesso in tasca, prima di guardare di nuovo mia sorella.

«Sì, lo sono, dato che, se non fosse stato per mia madre, io qui non ci stavo!»

«La vostra camera è l'ultima in fondo. C'è scritto “Primo anno corso B”, non potete sbagliarvi!»

Ho guardato Pan, in cerca di coraggio, ma temo che mia sorella sia stata ben lungi dal volermi fare coraggio, infatti non mi ha degnato di un'occhiata. Ci siamo, senza ulteriori indugi, diretti verso la porta indicata da Yuy. Comunque sia, ci ha seguiti.

«I tre piani successivi sono tutti dormitori.» ci ha detto. «E io sono il responsabile di questo, quindi, se succede qualcosa, dovrete chiamare me, chiaro?»

«Quindi tu sei il più rompicoglioni e il più leccaculo qua dentro, ho capito bene?» è stata la risposta di Pan. Ogni tanto vorrei che avesse un po' più di pudore...

Lui non ha risposto, o se l'ha fatto, non l'ho sentito, perché, in quel momento, ho visto una ragazza uscire da una camerata sulla cui porta c'era scritto “Quarto anno corso A”. Ed era una ragazza... una di quelle vere, non come mia sorella che è più un maschiaccio.

«Ma... qui vengono anche le ragazze?» ho chiesto, prima di capire di aver detto un'enorme stronzata.

«Sembra.» è stata la risposta pacata di Yuy. Meno pacata è stata quella di Pan che mi ha tirato uno scappellotto.

«IDIOTA! E IO CHE SONO? UN FUNGO?» ha preparato il pugno e tirato indietro il braccio, pronta a tirare.

«No... scusa, scusa, Pan!» ho detto, proteggendomi la faccia con le braccia: ho troppa paura dei suoi destri... non che coi sinistri la mia paura migliori...

«E sarà meglio!» ha detto, ritirandosi, per mia fortuna. Yuy ci guardava perplesso, come se non capisse, poi, facendo un cenno, ci ha invitato a proseguire.

Una volta dentro, sono rimasto io perplesso... la nostra camerata era... enorme, un appartamento, più che altro. Aveva un piccolo disimpegno e tre porte. Una aveva una piccola targhetta con su scritto “Ragazzi” e, sotto, un foglio attaccato che conteneva un elenco di nomi; sull'altra c'era una targhetta con “Ragazze” e un foglio analogo e, sulla terza, la targhetta recitava “Bagno”.

«Le camerate sono confortevoli. Ogni soldato ha il suo armadietto, biancheria per il letto e per il bagno personali. Naturalmente, il bagno è in comune...» ci ha informato Yuy.

«E io dovrei pisciare dove hanno pisciato...» Pan si è messa a contare il numero di alunni maschi. «Diciassette esseri dotati di cazzo?»

Ho guardato Yuy spaventato, pregando perché non facesse rapporto già dal primo giorno. Ma lui sembrava ragionare su quanto detto da Pan.

«Sì...» ha risposto, senza scomporsi. «Altrimenti ci sono i bagni comuni su tutti i piani, ma, anche quelli vengono usati dagli... ehm... esseri dotati di cazzo... e ora scusa, ma devo parlare con uno di loro...»

Si è avviato verso la porta della camera dei ragazzi e ha aperto senza manco bussare.

«Ramazza?» ha domandato, ficcando la testa dentro. Dal disimpegno non vedevo niente e quasi avevo paura di entrare. «Dov'è Ramazza?»

«Chi cazzo è Ramazza?» è stata la risposta che mi ha spiazzato.

«Lascia perdere, lo aspetto qui!» ha risposto Yuy. Pan, intanto, si è diretta verso la camera delle ragazze e ha aperto la porta, guardando dentro, come se si aspettasse che, una volta dentro, sarebbe stata assalita da un mostro o da uno zombie. Stavo facendo un passo verso la camera dei ragazzi, quando l'urlo disumano di mia sorella e di qualcun altro che non ho riconosciuto mi ha fatto decidere di schizzare là dentro.

«Che c'è?» ho gridato, convinto che lo zombie ci fosse davvero. «Che c'è?»

«TU!» ha gridato Pan, ma non si stava riferendo a me. Indicava una ragazza dai capelli azzurri che stava sistemando il letto vicino alla finestra. «TU CHE CAZZO CI FAI QUI?»

La ragazza si è girata e, non solo lei, ma anche io ho sgranato gli occhi: di tutte le persone che mi aspettavo di trovare, lei era davvero l'ultima.

«Che ci fai qui?» ho domandato, con un filo di voce.

«Kenny...» mi ha chiamato mia sorella, con finta gentilezza. «Questa domanda l'ho già fatta io! VEDI DI FARNE UN'ALTRA!»

«Ehm... sì... scusa...» ho detto, ancora scosso, guardando lei. Non credevo che suo padre avrebbe mai permesso alla sua adorata figlia di fare una cosa come... chiudersi in una caserma.

Bra è la figlia di una grandissima amica di nonno Goku, Bulma, la proprietaria di un’azienda molto importante, la Capsule Corporation. E' anche figlia di Vegeta, amico-rivale del nonno. Lui non mi piace granché... si sente un nobile, ma è solo uno sfigato che vive a scrocco di sua moglie Bulma. Si sente troppo superiore per fare un lavoro come tutti i comuni mortali.

Sua figlia, Bra, che ama tingersi i capelli di blu come sua madre, ha un anno più di Pan e loro due si odiano come mai nessuno si è mai odiato. Pan dice che Bra è una vera troia e Bra dice di Pan che è una sfigata violenta.

Non ho idea se lei sia una troia o no, dopotutto non ci frequentiamo molto... la conosco giusto perché abbiamo frequentato le stesse scuole elementari e per via del nonno. E comunque, dal rosso vestitino striminzito che indossava al momento del nostro arrivo, devo dire che il sospetto che lo sia davvero ce l'ho avuto.

«Chi si vede!» ha detto, stupita, lasciando andare la sua divisa sul letto, guardandoci dall'alto in basso. «Lo sapevo che Pan sarebbe venuta qui... dicono che questa sia una scuola di obbedienza per animali indisciplinati, oltre che una scuola sperimentale per persone normali!»

«Cosa vorresti dire, Bra?» ha chiesto mia sorella, già sul piede di guerra. «Possibile che ogni volta che ci incontriamo non puoi fare a meno di darti tante arie? Lo sai che poi diventi un pallone con la testa di muffa su un cazzo ammazzato dalle pecore in lotta?»

«Eh?» a quelle parole, Bra sembrava disgustata. «Ma che dici? Lasciamo perdere.. piuttosto...» si è rivolta a me. «Ken, lo sai che questa è la camera delle ragazze? Ma già... si dice in giro che sei un po'...» ha fatto una smorfia, ma non ha continuato.

«Un po'...?» l'ho spronata.

«UN PO' FROCIO, PARAMECIO RIGURGITANTE!» ha gridato mia sorella. «BELLE FIGURE CHE MI FAI FARE!»

Sono arrossito per l'imbarazzo. In quel momento avrei voluto avere la forza di mia sorella per spaccare la faccia a Bra.

«E chi... chi lo dice?» ho chiesto, cercando di far finta di niente.

«A scuola lo dicevano tutti...» ha risposto Bra.

Non sapevo più cosa dire. Ho abbassato lo sguardo e stavo per andarmene, quando un'ombra mi ha impedito di continuare.

«Ehi, ma è che questo casino?» mi sono voltato, forse ero ancora rosso come un peperone. Davanti a noi, sulla porta della camera delle ragazze, c'era un ragazzo a torso nudo e i pantaloni della divisa sbottonati che lasciavano intravedere delle mutande tutt'altro che pulite. «Voi dovete essere i miei nuovi camerati...» ha detto, cordiale. Si è avvicinato e ha porto la mano a Pan. Mentre camminava, una ventata puzzolente si è sollevata da non si sa dove: mi ha investito una puzza di sudore così intensa, da farmi credere di essere finito vicino a una discarica. Solo la spazzatura puzza così e solo dopo un bel po' che l'hai lasciata al sole, come è successo una volta a casa mia, quando papà si è dimenticato di buttarla nel cassonetto. «Alex Ramazza, piacere!»

Pan ha fatto la mia stessa smorfia disgustata e Bra non è stata da meno. «Lo sapremo solo vivendo!» ha detto mia sorella, senza provare a muovere un muscolo per stringergli la mano. Alex si è guardato la mano, come chiedendosi se Pan non l'avesse stretta perché era sporca, ma non se l'è presa affatto, almeno così mi sembra di aver capito.

Ha porto la mano a me e a Bra, che ci siamo presentati e siamo stati un po' più educati.

«Allora io vado!» ha detto Yuy, facendo capolino. «Tutti vestiti, gli esseri dotati di... ehm...»

«Topa!» ha concluso mia sorella.

«Sì...» ha risposto lui, piuttosto in imbarazzo. «Okay, io vado, Alex!»

«Certo... e grazie ancora per le sigarette, Heero!»

Non so che espressione avevo in quel momento, ma tutto mi ero aspettato meno che un “rompicoglioni leccaculo” come Yuy potesse essere uno che porta le sigarette di nascosto, perché, come lui stesso ci ha detto dopo, le sigarette sono proibite.

«Acqua in bocca!» ci ha detto. «Altrimenti ci inculano tutti!»

«E vorremmo evitare!» ha ribattuto mia sorella, che ha capito tutto al volo.

«Appunto!» ha annuito Alex.

Lui è un tipo strano, ma sembra molto simpatico, peccato che puzzi come una capra in decomposizione.

Nel momento in cui se n'è andato Heero Yuy, è entrato un ragazzo alto coi capelli neri e corti, un tipo che Bra e Pan hanno guardato come se fosse stato una specie di Dio. Sembrava che quello fosse il primo esemplare maschio che vedevano sulla faccia della terra. E non era neanche tutto questo granché: aveva i capelli neri e due sopracciglia che partivano in due diramazioni verso le tempie... un che di fantastico.

Era seguito da una ragazzina bassa, coi capelli lunghi fin sotto le spalle e dei grossi occhiali dalla montatura bluastra. Aveva un visino simpatico, un po' stralunato, al contrario di lui, che sembrava appena stato portato nella nostra camerata con una lettiga corredata di sventagliatrici.

«Buonasera...» ha detto lui, guardandosi intorno, con noi che eravamo tutti sulla soglia della camera delle ragazze.

«Ciao a tutti!» ha esclamato la ragazzina, tutta denti. «Mi chiamo Arale Norimaki, piacere!»

Ha stretto la mano di tutti, pure quella di Pan che, però, voleva riservare a lei lo stesso trattamento che aveva riservato ad Alex. Non ce l'ha fatta, perché Arale Norimaki l'ha presa e gliel'ha scossa mezz'ora, così come ha fatto con tutti noi.

«E, invece, tu sei...» ha detto Bra, sbattendo gli occhioni in direzione del nuovo arrivato.

«Frank?» ma non è stato il ragazzo a parlare, era stato Alex, che sembrava stupito e anche tanto. Frank ha aggrottato la fronte e guardato Alex come se si chiedesse dove l'aveva già incontrato.

«Sei... Alex Ramazza?» il ragazzo ha cominciato a ridere e ha mostrato una fila di denti bianchissimi e perfetti. «Che diamine ci fai qui?»

Alex ci ha fatto scansare tutti ed è corso ad abbracciare quello che abbiamo intuito tutti essere un vecchio amico.

«Sono secoli che non ci vediamo!» ha esclamato Alex, commosso.

Diciamo che Frank non sembrava proprio contento di essere abbracciato da Alex... mi chiedo come mi sentirei, se abbracciasse me, ma non sono sicuro di volerlo scoprire.

«Due anni...» ha risposto Frank, sciogliendo l'abbraccio e guardandosi intorno. Arale e Bra erano sparite nella camera delle ragazze per cambiarsi. Io e Pan rimanevamo sulla porta.

«Sì, da quando sono entrato qui dentro...» ha risposto Alex, annuendo.

«Cosa ci fai qui dentro da due anni?» ha chiesto Arale. «Non sei del nostro anno?»

«Oh, sì che lo sono!» ha risposto lui, tranquillo, anzi, quasi compiaciuto.

Lei ha inclinato la testa, dubbiosa. «E com'è possibile?»

«Sono stato bocciato due volte. Vieni, Frank, prendiamoci i letti vicini!»

Ho seguito i due amici dentro la camerata dei ragazzi, per riuscire a prendermi un letto prima di ritrovarmi con quello più umido.

La camera sembrava essere stata strappata ad un ospedale: diciassette letti di metallo, come quelli ospedalieri di una volta, disposti su due file uno accanto all'altro. In fondo alla stanza, diciassette armadietti. Era il formato più grande della camera delle ragazze.

Ho trovato il mio armadietto (anche questo di metallo, stretto ed alto, come tutti gli altri), perché sopra c'era una targhetta con il mio nome e dentro una divisa, le lenzuola, delle coperte pesanti e due asciugamani. Fortunatamente era tutto pulito.

Dieci minuti dopo, ero pronto, con la mia divisa un po' più grande della mia taglia, i pantaloni che mi scivolavano sotto le scarpe e una giacca e una camicia dentro cui nuotavo perché erano due volte più grandi della mia taglia. Pan, diversamente, aveva deciso di starsene in completo da mare.

«Non è una buona idea!» ha esclamato Alex, non appena siamo tutti usciti dalla camera, lui con macchie d'unto gigantesche sulla sua giacca della divisa sbottonata a far vedere la camicia che, invece di essere bianca, è gialla. «La Une non ama questo genere di cose...»

«La Une?» ho chiesto, senza capire. Lui mi ha guardato e ha annuito, serio.

«Quella troia della direttrice! E' un'insegnante di storia dei Mobile Suit e ce l'abbiamo per tutto l'anno! Gli insegnamenti pratici li fanno solo dal secondo anno in su, ma è una palla!» ha raccontato, mentre scendevamo le scale. «Con qualcuno si gioca anche!»

«Meglio così!» ha esclamato mia sorella, annoiata.

Bra si è esibita in uno sbuffo sdegnoso, Arale e un altro ragazzo che si è presentato come Trowa Burton hanno ridacchiato.

Alex ha fatto spallucce. «Dopo un po' ti spacchi le palle!»

«E tu ancora non sei fuggito?» gli ha chiesto ancora Pan.

«Macché! Ti portano davanti a una corte per... come si dice...»

«Diserzione?» ha proposto Frank, accanto a lui. La sua divisa, al contrario di quella di Alex, era perfetta, impeccabile e anche il suo modo di indossarla. Non so perché, ma quel tipo non mi piace granché.

«Sì...» ha annuito Alex.

«Allora sei idiota!» è stato il commento gentile di mia sorella. «Chi te l'ha fatto fare di farti bocciare?»

«Non è colpa mia, se non me ne frega un cazzo di quello che succede qua dentro!» ha replicato Alex, con foga. «Sono stato costretto a venire qui.»

«Allora non sono la sola!»

Siamo arrivati al primo piano, sempre seguendo Alex, che ci ha condotto fino alla Sala delle Conferenze. Quella, più che per delle conferenze, sembrava adatta per ospitare una rappresentazione teatrale, perché era esattamente un piccolo teatro. C'erano centinaia di file di poltrone, fino al palco, dalla parte opposta dell'entrata, su cui stavano: la direttrice; un uomo vestito di un'alta uniforme blu chiaro, molto alto e coi capelli biondo scuro; il Colonnello Marquise; due tipi, uno moro e uno biondo, vestiti tutti e due di blu, ma di una tonalità più scura rispetto a quella dell'uomo biondo; un altro tizio piuttosto grasso e, infine, uno smilzo, ma tutti e due erano vestiti di nero.

«Venite, prendiamoci i posti davanti!» ha detto Alex. «Tanto è lì che la Une ci farà stare!»

Pan ha borbottato, ma, alla fine, l'ha seguito anche lei, come abbiamo fatto tutti noialtri.


*****


Salve! Allora, che ne pensate di questo nuovo capitolo? Si cominciano a delineare la storia e a conoscere i personaggi che ci accompagneranno da qui per molto tempo...


Prof: sono felice che il primo capitolo ti sia piaciuto e spero che continui ad essere così, adesso e per i prossimi capitoli. Hai ragione: Pan fa un po' paura e la adoro. XD Chissà che poi non possa migliorare (o peggiorare), così da far felice anche la povera Videl. XD

Una sola domanda: cosa intendi per “ritmo troppo ridondante”? A spero presto. ^^


Un ringraziamento anche a coloro che hanno solamente letto e uno ulteriore a Prof che ha messo la storia nei suoi preferiti.


Saluti,

Luine.



  
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