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Autore: _Maeve_    23/05/2016    1 recensioni
Questa vaga attendenza
alle soglie dell’infinito
l’avevo immaginata diversa.

Per l'appunto si tratta di una poesia dell'attimo, ma non priva di un'architettura (più o meno) logica di fondo, di un pensiero coerente. In soldoni sarebbe la vertigine che proviamo sull'ignoto, su qualcosa di nuovo, per cui non sappiamo se siamo o meno adatti. Poi ve la spiego meglio. Nel frattempo, magari, portatevi avanti e leggete Kierkegaard, che di me è un pochetto più bravo.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Poemetto dell'attimo Premessa: questa poesia necessiterebbe di spiegazioni, che ora non ho il tempo di dare, perchè ci vorrebbe tempo e rischierei di essere in ritardo. Però ecco, doveva stare qui. Chi mi legge, la leggesse e basta, con un po' di fiducia.  L'autenticità del sentimento è un suo pregio che mi sento di  riconoscerle, e credo uno dei pochi pilastri ai quali tutta la poesia come categoria archetipica dovrebbe attenersi.



Questa vaga attendenza
alle soglie dell’infinito
l’avevo immaginata diversa.

M’ero aspettata
un otium incaponito
e un concerto di plusvalore.

Cosa la natura ci ha promesso?
E’ giusto ravvisarlo
in pallidi spettri di ciò che fummo e non fummo?

Fallire è a un tocco da noi esseri umani,
appena fuori dall’anello atomico
e a livello di vene che, non vedi?
riaffiorano color così blu…

A gioie migliori, Lucia. Ti si commuovono persino le scapole.
Bello, bello come tutte le morali euclidee che ci diamo,
da Dio a (non) ti amo.  
Gattopardi e leoni di queste esistenze,
forse stiamo solo fuggendo dal fatto che per alcuni
- a caso, assolutamente senza ragione –
debba essere solo dolore.

(Capitalisticamente e omericamente, parleremmo di un necessario bilancio di distribuzione delle ricchezze)

Lévamela quella mano, che mi fa paura.
Davvero? Il tempo perduto ricorda solo i nostri sbagli
e ad una più attenta analisi, questa memoria
ci tira i capelli
e direi
che non ce lo possiamo permettere.

Per cui, ti chiamo appena ho finito, papà.
Sicura di niente fuorché dell’inevitabilità della condizione umana,
di questa malattia decadente che mi impedisce
di fottermene allegramente come ben suggerisci tu,

e chissà ch’io torni in trionfo, con le nevrosi ai piedi del carro,
continua a sembrarmi poco funzionale a quest’espiazione
ma chissà, chissà la poesia, la poesia tra la voce e il silenzio,
fra l’inchiostro e l’inespresso,
l’eccetera e una bella conclusione.
   
 
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