Faceva
freddo. Tanto freddo. Troppo freddo.
I miei soli
indumenti erano: due sudice scarpe, uno straccio a righe che doveva essere un
vestito, ma che a me dava più l’impressione di essere un sudario. Sapevo che in
quei giorni io non ero. Non esistevo. Solo toccandomi capivo di essere vivo,
anche se a volte, pur toccandomi, avevo come la sensazione che il mio dito
attraversasse la materia. Non avevo neanche la certezza di consistere. Potevo
essere un fantasma in un mondo evanescente, per quanto mi era concesso di
sapere.
La notte si
era inoltrata già da parecchio tempo, ma per noi non faceva nessuna differenza,
in quella terra di nessuno dovevamo continuare a spalare la neve. Quel
movimento, su e giù e su e giù, all’inizio sembrava massacrante, ma adesso, a
distanza di sei mesi, è diventato rilassante. E’ come essere sotto ipnosi, a
volte mi capita di veder luccicare la neve e allora mi dico che sono morto e
che quello è il paradiso, sorrido. Se quell’espressione senza denti può
chiamarsi sorriso, è ovvio.
Sono
arrivato qui quasi un anno fa. Nella mia altra vita facevo il poeta, era un
mestiere per cui mi sentivo fortunato. Non c’era bisogno di faticare
fisicamente, però il lavoro mentale era al di fuori di ogni discussione. Ero un
gran viaggiatore, mi piaceva osservare ogni cosa, fosse stato anche solo il
movimento di una foglia, per me tutto il globo era materiale di lavoro. Ho
scritto circa sessanta poesie, sono state tutte pubblicate ed hanno avuto un
discreto successo, e adesso, pur avendo settant’anni, scopro cosa significa
dover mettere sotto sforzo un corpo malridotto giorno e notte per sopravvivere,
un po’ mi rammarico per aver condotto una vita abbastanza agiata. Sarà questa
l’espiazione dei miei peccati?
Non mi sono
mai ritenuto un uomo senza peccato, per nessuna ragione, ma so che nella mia
vita ho sempre cercato di non far del male a nessuno, anche gli insetti per me
erano importanti. Tutto il creato lo era, indistintamente.
Facevo
parte di un organizzazione di ambientalisti, donavo al mese una quota
prestabilita per la piantagione di nuovi alberi e la protezione degli animali,
a volte partecipavo attivamente alle manifestazioni. Ritenevo il mondo una cosa
oltremodo preziosa, e non mi andava che l’uomo la distruggesse così.
Nonostante
tutto, non ho mai avuto un animale domestico, il motivo era abbastanza
semplice. Non ero quasi mai a casa e quando c’ero ero assuefatto dal lavoro.
Non potevo badare a quella bestiola come si deve e questo mi faceva andare in bestia.
Così decisi prontamente di portare sempre con me del cibo e infatti ogni volta,
nelle mie esplorazioni quotidiane, davo sempre da mangiare a quei poveri
animali di strada che avevano un espressione di terrore mista a disperazione
dipinta negli occhi. Alcuni scappavano, altri scorgevano sul mio volto fiducia,
ed erano loro a farmi compagnia spesso e volentieri, la loro presenza riempiva
il mio cuore di gioia.
Nella mia
vita non ho mai avuto una donna, il mio vero amore è sempre stato la natura e,
se avessi potuto, sarei convolato a nozze con lei. In tutte le mie sessanta
poesie non parlo mai d’amore. Forse, a volte, qualcosa di sottinteso c’è, ma
mai nessuna donna mi ha fatto battere il cuore. Ho sempre provato affetto per
loro, così come per gli uomini. Si dice che i poeti siano coloro che
s’innamorano meglio, allora bisogna ricredersi, perché io non lo sono mai
stato.
Non c’è
natura, qui. Anzi, mi correggo, non c’è nulla qui. Davanti a me vedo solo un
grossa bocca che continua a sputare fumo, nero. Che io detesto,
tranquillamente. Una volta, mentre spalavo la neve, sentii due uomini che
borbottavano e ascoltai senza farmi notare.
<< E’
una catastrofe, prenderanno anche noi prima o poi...>> disse il primo,
canuto e torvo come una pianta che aspetta solo di morire.
<<
Già, manca poco e poi saremo materiale per saponi.>> rispose l’altro,
alto e magro come un cencio.
<<
Dobbiamo scappare.>> gli tremava violentemente la voce.
<< Tu
sei matto, non c’è scampo e lo sai, vedi di accettare il tuo destino. Lo sapevi
benissimo quando ti hanno preso.>>
<< Ma
come diavolo fai ad essere così tranquillo??>> urlò di rimando.
<<
Abbassa la voce, deficiente. A me non importa, non ho più una vita e di
conseguenza non m’importa.>>
<< Ti
sta bene morire così...?>> aveva iniziato a piangere sommessamente e si
distingueva il groppo in gola nella sua voce. L’altro, invece, aveva una voce
più che ferma, che terrorizzava.
<<
No, ma guarda in faccia la realtà, solo uno stolto può desiderare una bella
morte.>>
Con questo
chiuse la discussione e con passo malfermo impugnò la pala ricominciando a
spalare. L’altro non riusciva a reggersi in piedi e singhiozzando cadde in
ginocchio tenendosi la testa tra le mani, non passò molto che arrivò un tenente
altezzoso e gli diede tranquillamente un calcio tra le costole blaterando
qualcosa in tedesco. Quel vecchio dapprima urlò, poi lentamente prese anch’esso
la pala e riprese a spalare.
Io rimasi
basito, cioè non più di tanto ad essere sincero, sapevo che non ci avevano
trascinati lì per farci fare un bel pic-nic, però non avevo ben capito cosa
intendeva con “materiale per saponi”, anche se una vaga idea l’avevo.
Beh, e
allora? Cosa ci potevo fare?
Quando
quella notte finì e ci diedero venti minuti per dormire, io scrissi dei versi,
in realtà avevo molta paura, solo che esternarla non mi avrebbe di certo
aiutato. Così scrivere mi servì a sciogliere il magone che provavo dentro,
nessuno poteva impedirmelo, scrivere era la mia migliore arma contro la
disperazione, anche se effettivamente mi ci gettava dentro senza pietà. Ma non
erano i saggi che dicevano che il peggior modo per dimenticare i problemi è il
non affrontarli?
Nascondevo
il taccuino sotto quella cosa che chiamavano materasso e avendo ancora cinque
minuti di tempo sostai di fronte ai vetri di quella finestra ingiallita e
dimenticata. Le finestre sono come gli occhi, offrono una veduta del mondo più
o meno nitida, permettendo alla mente di spaziare a piacimento. La sfiorai,
quel freddo vetro mi fece rabbrividire, ma non per il freddo. Rabbrividii
perché mi resi conto che la mia vita stava per finire, non riuscii a capire
cosa sentivo ed era strano perché io lo sapevo sempre. Rimasi sconvolto nel
comprendere in quell’istante come avessi preso alla leggera la permanenza in
quel posto. Non ero mai stato rimproverato e nonostante vivessi in completa
miseria non riuscivo a sentirmi triste, la mia maledetta anima da scrittore mi
permetteva di trovare delle belle sfumature anche in quel lavoro monotono che
svolgevo ogni giorno. E allora perché stavo piangendo? Perché queste dannate
gocce avevano inumidito queste guancie avvizzite? Perché questi miei occhi
azzurri si erano velati? E’ così che la consapevolezza della morte riduce un
uomo? E’ così che lo stende? Allora anche coloro che sono appena nati, una
volta resisi conto che stanno vivendo, urlano? Dovrei fare la stessa cosa
anch’io che so di stare morendo? Se avessi urlato, forse mi sarei liberato.
Forse. Ma non lo feci. Continuai a piangere sommessamente, fino all’arrivo dei
soldati che ci ributtarono poco gentilmente a spalare quella maledetta neve,
che di magico non aveva più niente.
Mi sentivo
depresso, non badavo agli sguardi atroci e inumani dei tedeschi, di loro non
m’importava un bel nulla. Piuttosto badavo alle persone intorno a me, il loro
non era uno sguardo, sembravano piuttosto marionette senza vita che
continuavano a spalare meccanicamente, qualche volta taluno piangeva, qualche
altra taluno gridava, ma non si spingevano più di così. La nostra vita era
finita e io, da stolto quale ero, l’avevo capito solo in quel momento.
Mentre
avanzavo nel mio spazio vidi un cumulo di neve rialzato, mi sorpresi perché
fino ad allora la neve era sempre stata piatta. Posai la pala e m’inginocchiai
titubante sulla sporgenza, la scostai piano e vidi un cucciolo di cane
tremolante. Rimasi di sasso, appena poggiai le mie mani piene di calli sul suo
corpicino, lo trovai freddo, immobile, ghiacciato. Mi spaventai pure a
sollevarlo temendo che si spezzasse. Era sdraiato di fianco e dal suo tremolio
convulso capii che era ancora vivo, io rimasi fermo come un fesso e lo guardavo
aspettando chissà cosa, in quell’istante lui girò il muso verso di me e mi
fissò coi suoi occhi lucidi, la nuvoletta che condensava i suoi sospiri si
assottigliava sempre più e lui continuava a fissarmi. Lo presi, lo accoccolai
alla bell’e meglio tra le mie scheletriche braccia e singhiozzai sopra di lui.
Il suo corpo sembrò sciogliersi, ma le mie mani sentivano che il suo cuore
batteva sempre più lentamente, fino a fermarsi. Quella povera bestiolina era
morta, era volata via proprio come avremmo fatto noi di lì a poco.
La
seppellii. Con ancora gli occhi pieni di lacrime ricominciai a spalare, adagio.
Quel tedesco mi stava fissando, probabilmente mi avrebbe picchiato, poco
importava. Poteva pure uccidermi, poco importava.
In quella
terra di nessuno la vita non aveva rilevanza, in quella terra di nessuno dove
gli ebrei erano rigettati, stuprati della loro dignità.
Nel cuore
di quelle persone che ormai non erano più, faceva freddo, tanto freddo, troppo
freddo.