Felicity
«Papà, ho
sonno…», aveva borbottando Arabella,
stropicciandosi gli occhietti grigi stanchi, una mezz’oretta
prima per poi
crollare sul divano.
Avevo spiato segretamente dalla
soglia della cucina Liam
posare delicatamente il corpicino della figlia tra i cuscini,
sistemarle il
plaid leggero che tenevo vicino al portagiornali sulle spalle e
accarezzarle i
boccoli sparsi. Avevo sorriso di fronte a quella scenetta e mi ero
ritirata in
silenzio verso il lavello e la pila di piatti sporchi che mi
attendevano.
Mr. Liam aveva poi insistito per
darmi una mano con le
stoviglie da lavare e così, dopo aver accostato la porta per
non disturbare la
bambina, avevamo iniziato a lavorare fianco a fianco. Io passavo la
spugnetta,
li sciacquavo sotto l’acqua tiepida e poi glieli passavo per
permettergli di
asciugarli ed impilarli in ordine. Non parlammo ma stranamente mi
sentii molto
più vicina a quell’uomo distante di quanto fossi
mai stata.
Una volta ripulita la cucina e i
fornelli gli proposi di
prenderci un caffè in veranda. Lo invitai ad andare ad
accomodarsi mentre io
preparavo il tutto. Gli preparai un espresso, prodotto dalla mia
macchina del
caffè di cui andavo veramente orgogliosa, e scaldai
l’acqua per la mia tisana
ai frutti di bosco. Aggiunsi all’ultimo qualche biscotto,
promettendo che poi
ci avrei dato un taglio con tutti quei dolcetti fuori pasto.
Quando lo raggiunsi notai che si
era seduto sulla
poltrona che solitamente occupavo io e quando si accorse del mio arrivo
distolse lo sguardo dal giardino buio e mi dedicò un tiepido
sorriso. Chissà se
quell’uomo sapeva ridere di tutto cuore…
«Da qui si riesce a
vedere il cielo che, tra l’altro,
stasera è bellissimo…»,
osservò tornando a guardare oltre le pareti in vetro.
Lo sapevo molto bene, avevo
passato notti intere
accoccolata su quella poltroncina in vimini a naso in su, gli occhi
rivolti al
firmamento.
Lui si stiracchiò, un
gesto che trovai estremamente
familiare e per questo insolito data la sua tradizionale compostezza, e
mi
confidò piano: «Da bambino sognavo di fare
l’astronomo. Scrutare per ore gli
astri, attendere mesi per poter vedere un pianeta in una determinata
posizione…»,
poi parve riscuotersi e aggiunse: «Ma era solo uno sciocco
desiderio infantile»
Allungai le gambe sul divano e
scossi la testa nella
penombra. «Non è vero, Mr. Liam. I sogni che si
hanno da bambini sono qualcosa
di puro e autentico. Io sto facendo proprio quello su cui fantasticavo
da
piccola: rendo belle le cose, omaggio la natura e regalo piccoli angoli
fioriti
alle persone»
«Non fai testo,
Felicity. Comunque tu avresti avuto le
spalle coperte. Io dovevo riuscire a diventare qualcuno. Dovevo
cambiare le
cose e per farlo mi servivano prestigio e soldi, certamente non
telescopi e
mappe di costellazioni!», ribatté, una punta di
frustrazione nella voce.
Quel suo commento iniziale mi
indispettì. Avrei dovuto
esserci abituata: da sempre le persone pensavano che in quanto di
famiglia
benestante fossi immune ad ogni problema. Mi sentivo giù?
Papà poteva regalarmi
una vacanzina ai Caraibi, no? Mi sentivo sola e incompresa?
Papà poteva
spedirmi dal miglior psicanalista del paese, giusto? Non era mai stato
così. Le
persone mi avevano sempre giudicato per quello che mio padre e mia
madre possedevamo
e non erano mai stati imparziali nei miei confronti. Come
può una ricca
ragazzina sentirsi malinconica? Ero consapevole che il mondo fosse
pieno di
persone veramente sfortunate e che io ricoprissi una posizione
privilegiata, ma
questo non toglieva il fatto che la mia vita non era stata comunque
sempre
tutta rose e fiori.
«Non fare anche tu
l’errore di vedermi solo come Ms. Van
Houten. Ci sono che tu non sai di me, perciò non permetterti
di dire certe
cose. Cosa credi? Io non sono proprio il tipo che dice
‘Vabbè, tanto Papino
finanzia quindi io di professione posso fare il lazzarone’,
speravo lo avessi
capito ormai…», esclamai amareggiata.
Mi rannichiai su me stessa, le
mani strette intorno alla
tiepida ceramica della tazza e gli rivolsi uno sguardo deluso. Lui
parve
pentirsi delle sue parole e si sporse verso di me: «Scusa,
non era mia
intenzione Felicity. Mi sono espresso male. Devi sapere che io sono
cresciuto
in una famiglia tanto numerosa quanto modesta. Non mi sarei mai sognato
di
possedere un’auto che valesse più di 2000$ e che
non fosse di terza o quarta
mano! Mai avrei potuto immaginare che sarei arrivato a possedere
più di una
casa o una barca. Condividevamo tutto e cercavamo di arrivare a fine
mese.
Calze buche e rattoppate per la centesima volta, zuppa leggermente
allungata e
sussidi statali erano la mia quotidianità. Io sono scappato
da quella vita,
probabilmente spaventato dall’idea di ritrovarmi in un batter
d’occhio ad
essere un padre di famiglia che faticava a sfamare i figli e a
garantirgli
un’istruzione basilare. Ho fatto tanti errori nella mia vita
ma non recrimino
certo i miei genitori, loro hanno fatto ben più di quanto le
loro possibilità e
la loro educazione permettesse. Ho lavorato, ho studiato notte e
giorno, ho
subito tantissime umiliazioni per arrivare dove sono ora e ne sono
fiero»
Ascoltai sempre più
sorpresa quel discorso così intimo
che veniva direttamente dalla parte forse più tormentata e
nascosta di
quell’uomo sempre lontano ed imperscrutabile. E
così capii, compresi che anche
lui era sempre stato giudicato per tutto quello che lo circondava e mai
per le
sue vere capacità. Era una situazione esattamente antitetica
alla mia eppure
entrambi avevamo reagito allo stesso modo: eravamo scappati.
Quasi senza accorgermene allungai
una mano e gli lasciai
una lieve carezza sul braccio. Lui a quel contatto alzò gli
occhi e mi dedicò
uno sguardo pieno di gratitudine e comprensione.
Non so perché ma mi
ritrovai a narrargli come fossi
davvero finita a
fare la giardiniera da
strapazzo. Gli raccontai di come, ad undici anni non ancora compiuti,
Papà
andasse a giocare a golf con il rettore di Harvard e insieme
progettassero di
inserirmi nel corso di legge avanzato con addirittura un anno di
anticipo e
senza neanche sottopormi ad un test attitudinale o un quiz selettivo
perché
tanto ‘è figlia tua e la genetica non
mente’. Mi ritrovai così, a sedici anni,
da sola in un loft a Cambridge, perché mia madre al solo
sentir nominare la
parola ‘studentato’ aveva borbottando qualcosa a
proposito di bande di
depravati, furti e festini alcolici, prima di simulare uno svenimento.
Avevo
passato sere intere a piangere al telefono con Zoe e a supplicare mio
padre di
farmi tornare a casa o almeno di permettermi di cambiare corso di
laurea. Trascorrevo
le notti sui libri di diritto penale senza capirci assolutamente nulla
e la mia
unica consolazione la trovavo nel prendermi cura della mia terrazzina
fiorita.
Al termine del primo anno, con il solo esame di lingua inglese passato
alle
spalle e un esaurimento nervoso che stava per avere la meglio su di me,
mamma
finalmente si era resa conto che così non si poteva andare
avanti e fece una
cosa per cui le sarò sempre grata: si oppose a mio padre. So
che può sembrare
un nonnulla ma voi non sapete cosa significhi avere a che fare con
Montgomery
Van Houten, non ne avete proprio idea. Abituato ad avere sempre il
controllo su
tutto e ad occupare una posizione di superiorità non
concepiva il fatto che
qualcuno avrebbe potuto ribellarsi ai suoi piani accuratamente redatti.
«Ammetto che persino io
mi sono sentito in soggezione di
fronte a tuo padre...Come si è risolta quindi la
faccenda?», mi chiese
interessato, sorseggiando il suo caffè ma non distogliendo
gli occhi attenti
dal mio viso.
Mi rigirai pensosamente una ciocca
si capelli tra le dita
mentre con la mente ritornavo a quella terribile estate fatta di
silenzi densi,
occhiate di disapprovazione e occhi segnati dalla stanchezza.
«Continuai a
frequentare giurisprudenza ma ottenni il suo benestare per affiancare
ad essa
anche degli studi paralleli e io scelsi botanica e scienze naturali. Da
lì in
poi le cose migliorarono decisamente: compresi quale fosse la mia vera
passione, riuscii a superare gli esami di legge e conobbi
Theodore…»
«Mi pare assurdo pensare
che hai studiato sugli stessi
banchi dove poco prima ero passato io; ci saremmo potuti conoscere anni
fa…»,
mormorò piano.
Gli rivolsi un’occhiata
in tralice: «Ti pare assurdo che
una ragazzina che per campare pianta fiorellini possa avere il tuo
medesimo
titolo di laurea conseguito nello stesso prestigioso
ateneo?», lo provocai con
tono di sfida.
Lui arricciò le labbra
in una sorta di buffa smorfia
prima di negare, ma vidi chiaramente il luccichio divertito nei suoi
occhi.
Balzai giù dal divano e
gli puntai un dito contro il
petto: «Mascalzone!
Davvero ti sorprende
questa cosa?»
Un pochetto ci rimasi male
perché non credevo davvero che
anche un uomo intelligente come Mr. Liam potesse cadere vittima di
quegli
sciocchi luoghi comuni che associavano sempre le persone con un lavoro
umile e
manuale ad un livello di istruzione irrisorio.
Lui mi imitò e, una
volta in piedi a sua volta, mi
ritrovai in una posizione di svantaggio, sovrastata com’ero
dal suo metro e
novanta. «Non avevo dubbi sul fatto che fossi sveglia, solo
non immaginavo lo
fossi più del sottoscritto. Non sopporto le persone
più in gamba di me, tutto
qui: pure manie di protagonismo», sussurrò piano
scompigliandomi i capelli
delicato.
Le mie labbra si stirarono
autonomamente in un sorrisetto
vittorioso: «Stavi apertamente ammettendo che sono
più brillante io? Oh, quale
soddisfazione! Anche se a tal proposito io non avevo mai avuto
dubbi…», mi
presi gioco di lui sollevando le sopracciglia e scuotendo la testa.
In quel momento si sentirono dei
passettini sul legno
chiaro della veranda e una vocina ci interruppe:
«Papà? Voglio anche io un
pesce come quello di Felicity, posso averlo? Papà?»
A quanto pareva George aveva fatto
colpo. Mi piegai sulle
ginocchia e sussurrai nell’orecchio della bambina:
«Quel pesciolino là dentro è
il mio migliore amico, sai? Ascolta tutto quello che ho da dire e non
è mai
scorbutico o distratto». Vidi i suoi occhi, ancora assonnati,
spalancarsi
nell’udire quel segreto e la sua piccola bocca si
aprì sorpresa senza però
emettere nessun suono.
«Poi chi se ne prende
cura quando tu non ci sei?», le
domandò Liam, come sempre troppo serio e preoccupato anche
per le più piccole
inezie.
Presi tra le braccia la bambina,
che si stava già
rabbuiando nel sentire la risposta del padre, e le sorrisi.
«Potrei tenerlo io
quando tu sei dalla tua mamma, che ne dici? Prometto di dargli sempre
la pappa
e Georgie potrà fargli compagnia, non è una bella
idea?»
Poco dopo mi lasciarono sola a
guardare i fari della loro
macchina che si allontanava. E mi ritrovai a provare un moto
d’affetto
incondizionato nei confronti di quella piccolina divisa tra due
genitori, tra
due case, tra due coste differenti di una nazione. Da piccola tremavo
ogni
volta che mia madre, dopo una lite con papà, minacciava di
lasciarlo. Ora penso
che non potrebbero mai davvero dividersi, sono entrambi poco pazienti,
nevrotici e convinti di essere persone cordiali ma di polso e insieme
formano
un duo indissolubile. Mio padre sarà sempre un uomo troppo
impegnato e sempre
pronto ad esprimere il suo dissenso tramite brontolii e sbuffi;
così come mia
madre sarà sempre leggermente schizofrenica e svagata.
Eppure è da anni e anni
che, non importa quanti chilometri li separino, si sopportano e si
continuano a
cercare. Montgomery Van Houten probabilmente odia il romanticismo tanto
quanto
il Grinch detesta il Natale eppure una volta mi ha confessato che
quando
viaggia per lavoro si ritrova sempre ad osservare le cose belle o
ridicole e a
pensare a quanto sarebbero potute piacere a Grace o quanto avrebbe riso
di
fronte a ciò. E io l’ho sempre trovata una cosa
semplicemente meravigliosa.
Era un qualcosa che mi aveva
sempre attratto il
matrimonio e il rapporto che questo racchiudeva. Quando due persone si
promettevano rispetto, fedeltà e sostegno nel bene e nel
male di fronte ad
un’autorità, laica o religiosa che fosse, erano
nel fior fiore
dell’innamoramento e non avevano la minima idea di quanto
quel sentimento
sarebbe potuto durare. Forse per sempre, forse un paio di anni. Quanto
sarebbe
durata quella felicità e quell’amore? Nessuno
poteva saperlo eppure si poteva
decidere di avere fiducia l’uno nell’altro e
provare ad affrontare il futuro
fianco a fianco. E io, Felicity Van Houten, era dalla tenera
età di quattro
anni che non aspettavo altro.
***
Da: l.carter.wright@gmail.com
A: felicity.vh@gmail.com
Object: A proposito di quel
pesce rosso…
Ora ho
una famiglia di
pesci che abita nel mio salotto. Mi chiedo di chi sarà mai
stata la brillante
idea…
Arabella
pare al
settimo cielo e prima di andare a letto (ha insistito per portarsi la boccia in camera) ha
voluto leggere loro
una favola della buonanotte.
Inutile
dire che ti
devo ringraziare, forse.
L.
Carter Wright
Nascosi
un
sorriso dietro il bordo ricamato della coperta leggera in cui ero
avvolta.
Avevo lavorato tutto il giorno sotto il sole cocente e quando
finalmente ero
tornata a casa mi ero ritrovata con un fastidioso mal di testa e la
sola voglia
di sdraiarmi ad oziare in compagnia di una vaschetta di gelato. Non
avevo la
concentrazione necessaria per riprendere la lettura della biografia di
Charles
Darwin, regalo pasquale di Theo, e non ero neanche dell’umore
adatto per
cucinare o riordinare casa. Volevo solo godermi un attimo di pace
usando meno
muscoli possibili.
E
quando aprii
la mia casella di posta elettronica e ci trovai quel messaggio ancora
chiuso in
attesa mi rallegrai tutta d’un colpo. Mi accorsi solo dopo
svariati secondi che
sotto a quello c’era un’altra bustina lampeggiante
il cui mittente era un certo
Prof. Theodore H. Graham.
Era la
prima
volta che mi scriveva da quando avevamo avuto quella sorta di lite via
etere
che si era conclusa con lui che si disconnetteva bruscamente da Skype
senza
neanche cercare di provare a riconciliarsi con la sottoscritta.
Nonostante fossi
curiosa di sapere cosa avesse da dire a proposito il signorino non
avevo
resistito e avevo deciso d’impulso di parcheggiarla per il
momento e aprire
immediatamente quella di Mr. Liam.
Mi
sentii per un
momento come una specie di Tata Matilda (magari un po’
più bellina, dai) con la
missione di mettere pace e una spruzzatina di gioia nella vita di Liam
Carter
Wright e della sua deliziosa figlioletta Arabella. Un po’ lo
invidiavo perché,
nonostante non avesse avuto la storia d’amore da favola,
aveva pur sempre una
dolce creaturina tutta sua di cui prendersi cura.
Nel
pensare a
ciò mi si imporporarono le guance dalla vergogna del ricordo
di quando avevo
accarezzato l’idea di mentire a Theo e fare in modo di
restare incinta a sua
insaputa. Era stato un pensiero terribile, egoista e meschino e mi ero
pentita
due secondi dopo averlo formulato eppure era da allora che sognavo di
avere dei
bambini con la stessa frequenza con cui fantasticavo riguardo al mio
tanto
agognato futuro fiabesco con principe azzurro, ranocchie e scarpette di
cristallo.
Iniziai
a
digitare di getto la risposta senza dover pensare troppo a cosa
scrivere, con
una naturalezza che non avevo mai quando invece scrivevo al mio
fidanzato. Con Theo
avevo sempre la sgradevole sensazione di essere sotto esame, che ogni
mia
parola, decisione o passo fosse attentamente analizzato e poi valutato:
approvato o bocciato. E la cosa che più di tutte mi faceva
impazzire era che il
tutto avveniva in silenzio. Perché un conto è
scoprire le proprie carte e dire
chiaramente che una determinata cosa non è stata gradita, un
altro invece è il
giudicare e il rimproverare con sguardi risentiti, silenzi carichi di
biasimo e
i tentativi di evitarsi in un chiaro segno di muta critica.
Da: felicity.vh@gmail.com
A: l.carter.wright@gmail.com
Object: Re: A proposito di
quel pesce rosso…
Posso
suggerire dei
nomi per i nuovi membri della famiglia Carter Wright? Io opterei per
qualcosa
che sdrammatizzi quel cognome pomposo che si ritrovano…Aldo?
Gino? Vito
Corleone? Un pesce rosso con il nome del mafiosissimo Padrino mi pare
molto
appropriato, non credi?
Quando
riparte
Arabella?
F.
Schiacciai
il
tasto di invio, senza ricontrollare la sintassi e
l’ortografia di quanto avevo
appena battuto a computer cosa che invece dovetti fare prima di dare
l’avvio
alla spedizione dell’email per Theo.
Era
stato
insospettabilmente carino e molto poco prolisso o concentrato su di
sé, cosa
assolutamente poco da lui. Anzi, se dovevo descrivere la sua missiva
avrei
usato tre parole: sintetica, risoluta e scritta certamente dal gemello
cattivo
di Theodore.
Da: th.graham@harvard.edu
A: felicity.vh@gmail.com
Object: -
Noi due dobbiamo parlare e dobbiamo farlo presto
perché così non si può
andare avanti.
Professor T. H. Graham
Non
aveva messo
l’oggetto! Voi forse non potete capire pienamente la
grandezza di questa cosa
ma vi dico solo che una volta, in preda ad un attacco di pigrizia e
poca
fantasia, gli inviai una mail senza oggetto e lui mi rispose con tre
fogli di
rimproveri a cui allegò un file di quelli che i professori
di Harvard rifilano
alle povere matricole per insegnare loro come scrivere correttamente
delle
eventuali email indirizzate ai propri docenti.
Non si
era però
dimenticato di firmare in modo completo come se io potesse mai
dimenticarmi del
fatto che fosse un fastidioso professore e tanti blablabla. Cosa avrei
dovuto
rispondere ad una lettera del genere?
Hai ragione?
Bene, allora muovi le tue
chiappette d’oro. Io ti
aspetto qui?
Hei, Theo, e
l’oggetto???
Sbuffai
esasperata;
non sopportavo quel genere di messaggi assolutamente oscuri e criptici.
Si manteneva
sul vago, senza fornire riferimenti temporali e spaziali, e mi ordinava
implicitamente qualcosa, come se fossi una bambina da ricondurre
all’ordine.
Dobbiamo parlare.
Che modi erano quelli? Io non dovevo fare proprio nulla se non finire
il mio
barattolino di gelato cioccolato e caramello avendo ormai quasi
raggiunto il
fondo in plastica della confezione.
Chiusi
la
conversazione e anche il pc, sprofondando tra i cuscini alle mie
spalle, e
ripresi in mano il cucchiaino. Quando si parla di comfort
food…
***
«Mi
raccomando:
innaffia le piantine tutti i giorni e tra poco avrai le tue personali e
gustosissime fragole, non mangiarti tutti i biscotti
sull’aereo altrimenti poi
ti viene mal di pancia e non ti resterà che contorcerti dal
dolore per tutto il
volo e penserai sempre con risentimento a me e ai miei dolcetti e
soprattutto,
Arabella, torna presto!», non riuscii a terminare
l’ultima frase che la bambina
si gettò tra le mie braccia andando a cozzare con la sua
testolina contro la
mia mandibola.
«Ahi!»,
esclamammo all’unisono prima di guardarci negli occhi,
scoppiare a ridere e
tornare ad abbracciarci.
Accarezzai
piano
quei morbidi capelli boccolosi che avevano la consistenza delle piume
di un
pulcino e inspirai quel dolce odore che solo i bambini sotto i sei anni
ancora
conservano: borotalco, calore umano e albicocca.
Due
minuti più
tardi Liam le infilò sulle esili spalle il suo zainetto
azzurro di Frozen, le
lasciò un ultimo bacio sulla fronte e la consegnò
alle cure dell’assistente di
volo che avrebbe badato alla piccola fino all’atterraggio in
California e al
passaggio di testimone, ovvero Arabella, nelle mani di sua madre
Tiffany della
famiglia Kennedy.
Il
sole stava
tramontando e centinai persone, cariche di bagagli, scorrevano
rapidamente
intorno a noi, tutte dirette chissà dove. Sapevo benissimo
che Liam aveva
scelto quel volo nella vana speranza che la figlia riuscisse a dormire
durante
il volo in modo da arrivare riposata e non accusare troppo le tre ore
di fuso
orario. Lo osservai di nascosto mentre ci dirigevamo fianco a fianco
verso l’uscita
del Logan International Airport e mi intenerii nel vedere i suoi occhi
velati
di malinconia.
«Agosto
arriverà
presto e poi potrai averla con te per due intere
settimane…», cercai di
consolarlo mentre gli sfilavo davanti, approfittando della sua
gentilezza nel
volermi sempre aprire le porte e farmi passare per prima.
Lui
non parve
risollevarsi alla notizia, anzi, se possibile si rabbuiò
ancora di più. Ecco,
ora chissà quale brutto pensiero gli avevo fatto tornare in
mente. Decisi così
di non infierire ulteriormente e lo seguii obbediente verso
l’immenso
parcheggio sotterraneo. Pagò l’importo indicato
alle macchinette automatiche,
agguantò in modo brusco il ticket rilasciatogli e fece
dietrofront verso la sua
auto.
Io
guardai con
sguardo perso quelle file infinite di auto tutte uguali.
Chissà perché la gente
amava acquistare autovetture di colori sempre uguali: nero, blu,
grigio. Una massa
uniforme di lamiere luccicanti che non aiutavano certo il mio
già forte senso
di disorientamento.
«Ti
ricordi dove
l’hai parcheggiata?», domandai dubbiosa cercando di
ricordarmi quale lettera
contrassegnasse il nostro settore ma l’unica cosa che mi
venne in mente fu che
avevo passato tutto il tempo a lasciare che Arabella intrecciasse i
miei
capelli in modo disordinato con le sue manine paffutelle
perché voleva
trasformarmi in Elsa.
«Certo»,
asserì
lui, svoltando sicuro a sinistra.
«Ovviamente…»,
borbottai sottovoce di fronte all’ennesimo sfoggio di
Liam-perfezione.
Quell’uomo
era
stato progettato in laboratorio? Probabilmente sì, mi
consolai mentalmente
pensando che sua sorella Judith invece aveva un’automobile
color zucca e
nonostante ciò una volta, ovviamente una volta in cui anche
io ero presente, la
aveva smarrita ugualmente.
Una
volta
accomodatami sul sedile del passeggero non smisi certo di preoccuparmi
del
fatto che ipoteticamente parlando c’era la
possibilità che stessi dividendo l’auto
con un robot, soprattutto notando nuovamente quanto guidasse bene.
Teneva
in modo
sicuro il volente, frenava dolcemente e ripartiva in modo deciso ma mai
brusco.
Non saliva sui marciapiedi per sbaglio, non passava con il giallo e non
rischiava di investire i ciclisti: tutte cose che io facevo
abitualmente.
«La
tangenziale
è dall’altra parte, sai? Ne sono certa
perché è l’unica strada che riesco ad
identificare senza Google Maps…», gli feci notare
indicando l’ampio l’imbocco sulla
destra che aveva appena superato.
Lui,
come
sempre, ignorò quello che avevo appena detto e
continuò imperterrito a fissare
la strada di fronte a sé. Tamburellai le dita sulla pelle
scura del mio sedile
per decidermi sul da farsi. Avevo visto tanti, troppi, film
d’azione per colpa della
mia amicizia di Donovan, anche se a Tom Cruise e Matt Damon non si dice
mai di
no, e perciò pensai alla possibilità di aprire la
portiera, gettarmi dall’auto
in corsa, fare quella strana mossa di rotolamento
sull’asfalto, possibilmente
non lasciando su quest’ultimo tre quarti di pelle, per poi
rialzarsi tutti
baldanzosi in piedi, sani e salvi, mentre l’auto con il
nemico salta in aria in
lontananza.
Provai
a tirare
con cautela la maniglia della mia portiera e con mio enorme stupore mi
accorsi
che era stata bloccata.
Girai
lentamente
la testa verso il mio autista. «Con te non si sa
mai…», mugugnò senza
distogliere la sua attenzione dalla strada.
Rinunciai
ai
miei propositi alla 007 e mi lasciai andare contro lo schienale del
sedile. «Questo
è un rapimento?», gli domandai
stridula.
«Può
darsi», mi
rispose con la sua solita faccia tosta.
Ecco,
così
imparavo ad invischiarmi in questioni familiari che non mi
riguardavano. Questa
era la giusta punizione per la mia volontà nel voler dar
sempre confidenza a
tutti e non mettere dei paletti nel mio rapporto con i clienti. Dal
passare da piantare
tre piantine aromatiche all’organizzare un barbeque insieme
io ci impiegavo
esattamente tre minuti.
Madre
me lo
ripeteva sempre, fin da quando da piccola un signore mi
invitò a salire sul suo
furgoncino, cosa che avrei fatto tutta felice se non fossi stata
prontamente
trattenuta da Zoe, la cui già da bambina era dotata di una
mente perversa che
la portava a diffidare di tutti e a schifare la maggior parte degli
esseri
umani, mi ripeteva sempre che avrei fatto una brutta fine se non avessi
imparato a dire di no alle caramelle offertemi e a non sedermi sulle
tazze dei
wc pubblici.
«Sei
certo di
voler rapire proprio me? Fossi in te mi abbandonerei accanto sul ciglio
della
strada e andrai a cercare qualcuno come Rachel McAdams o Blake
Lively…», gli
proposi cercando di mettere fine alla sua brutta abitudine di troncare
ogni mio
tentativo di capirci qualcosa in quella situazione alquanto
ingarbugliata.
«Ne
sono certo»,
mi zittì prontamente lui.
Nulla,
facevo
prima a conversare con il conduttore radiofonico che ora stava
gracchiando
qualcosa a proposito della nuova canzone che segnava il ritorno di
Justin Timberlake.
Cosa? COSA? Io amo Justin! Fin da quando aveva i ricciolini biondi ed
era un
super tamarro.
…I got this
feeling, inside my bones
It goes electric, wavey when I turn it on
All through my city, all through my home
We're flying up, no ceiling, when we in our zone…
Allungai
la mano
verso la schermata touch della radio e alzai il volume ad un livello
quasi
insopportabile che, se non si fosse trattato di Justin del mio
cuoricino,
sarebbe stato assolutamente un gesto da pazzi.
Abbassai
il
finestrino, se dovevo comportarmi da truzza volevo farlo in modo
convincente, e
iniziai a cantare a squarciagola, mettendoci particolare impegno per
imitare i
versi in falsetto:
«I
can't stop
the feeling
So just dance, dance, dance
I can't stop the feeling
So just dance, dance, dance, come on»
Dance,
dance,
dance! Wooo, iniziai a muovermi seguendo il ritmo della musica, per
quanto gli
spazi ristretti dell’auto potevano permettermelo, e continuai
così fino a
quando Rihanna prese il posto di Justin e io mi affrettai a cambiare
stazione
radio.
Quando
tornai in
me e mi ricordai che ehm, non ero propriamente sola, come al solito
quando
improvvisavo le mie sessioni di danza improvvisate e scoordinate, e
trovai il
coraggio di voltare il capo mi scontrai con Liam che tentava in tutti i
modi di
trattenersi per non scoppiare a ridere.
«Ridi,
non
vorrei mai che ti soffocassi nel tentativo di trattenerti dal prenderti
gioco
di me e della mia spensieratezza e uscissimo di strada andando a
spiaccicarci
contro quell’autobus», borbottai quasi offesa.
A dire
il vero
mi sorprendeva quasi il fatto che non avesse spento la radio e di
conseguenza
anche il mio entusiasmo ballerino nel suo tipico atteggiamento serioso
guastafeste.
«Permalosa»,
sogghignò
per punzecchiarmi.
Era
incredibile
come riuscisse ad irritarmi ma in un modo quasi piacevole non come
quelle
persone che ti indispongono e come conseguenza vorresti solo picchiarle
con una
sedia. No, Mr. Liam era fastidioso e spesso anche più
infantile di me eppure
anche quando ti tediava o si faceva beffe di te lo faceva in un modo
quasi
gentile e premuroso. Oddio, ho davvero associato l’attributo
di premuroso a
quella sorta di uomo gigante che ora sta sghignazzando senza vergogna
sul
sedile accanto al mio?
«Io
mi definirei
spontanea e poco rigida. A differenza di qualcuno che pare non sapersi
divertire, qualcuno a caso, qualcuno tipo Mr. Liam
Ho-Un-Cognome-Doppio-Perché-Fa-Figo!», tentai di
mettere a tacere le sue risate
di derisione.
Lui
girò all’improvviso
in una stradina perpendicolare sulla destra facendomi perdere il senso
dell’equilibrio
e così mi ritrovai, nel giro di un istante, ad atterrare,
sbattendo in malo
modo la tempia, con la testa premuta contro il vetro del finestrino.
Seppi per
certo che lo aveva fatto apposto, lui il Signorino nato con le doti da
pilota
alla Hamilton.
Ci
fermammo in
un piazzale in ghiaia e Liam spense i fari e il motore. Fece per darmi
le
spalle e scendere dall’auto ma parve ripensarci,
accostò la portiera che aveva
appena aperto, si girò verso di me e mi sussurrò
con voce flautata: «Ho
lavorato in un nightclub per pagarmi gli studi quindi sì, so
come ci si diverte…».
Me lo disse a pochi centimetri dal mio volto, le parole quasi soffiate
sulle
mie guance accaldate e gli occhi velati di malizia. Senza darmi il
tempo di
riprendermi uscì dall’abitacolo
dell’auto e nel giro di un nanosecondo, chi
caperri era? Edward Cullen?!, era già dal mio lato ad
aprirmi galantemente la
portiera.
Uscii
traballante
dall’auto e mi aggrappai a lui per non cadere dal momento che
ero riuscita
nella rara impresa di restare incastrata nella cintura di sicurezza.
Lui mi
sorresse
pronto ma subito mi presentò il conto di tale gentilezza,
mettendo su un ghigno
e commentando compiaciuto: «Ti ho rivelato il mio segreto due
secondi fa e già
cerchi di approfittarne: birichina!»
Idiota.
Dio, qui
stavamo toccando livelli di idiozia altamente pericolosi eppure, non so
se
perché abituata all’umorismo da edera rampicante
di Theo o dalla stupida
volgarità che caratterizzava ogni cosa facesse o dicesse
Donnie, ma apprezzavo
segretamente quegli scambi di battute a metà tra lo
scherzoso e un tentativo di
flirtare. FLIRTARE? Felicity Van Houten ritorna in te!
Mi
staccai, a
malincuore (accidenti, Felicity!), dal suo petto e feci due passi,
più per
allontanarmi da lui che per avviarmi davvero verso qualcosa non sapendo
neanche
se fossimo ancora in Massachusetts.
«Mi
stai quindi
dicendo che facevi il gigolò?», gli chiesi
ridacchiando, «Lo avessi saputo
prima avrei assoldato te per la mia festa dei diciotto anni: Claude fu
una
delusione terribile!», conclusi dandomi arie da grande donna
vissuta.
Lui
per un
attimo parve sconcertato, dopodiché tornò in
sé, sollevò le sopracciglia e mi
afferrò per un braccio. «Questo lo hai dedotto tu.
E comunque mi spiace per
Claude, ci fossi stato io al posto suo non l’avresti certo
ricordata come una
serata deludente…», commentò piano
facendo scorrere il palmo della mano lungo
il mio braccio scoperto fino a raggiungere la mia mano e stringerla.
Quello
non
andava per niente bene. Mi piaceva battibeccare con lui, anche se ormai
i
nostri punzecchiamenti avevano lasciato il sicuro terreno degli
argomenti
neutrali e si stavano avviando pericolosamente verso zone che non
dovrebbero
essere neanche lontanamente esplorate da due persone con un rapporto
come il
nostro. O meglio, due persone con il nostro non-rapporto.
Abbassai
lo
sguardo non sapendo bene come comportarmi di fronte a quelle sensazioni
in
netto contrasto con i sensi di colpa che la mia coscienza non faceva
altro che
sbandierare di fronte ai miei occhi. «Liam, io non penso
che…», sollevai gli
occhi e mi bloccai di fronte a ciò che mi si parò
di fronte agli occhi.
Ora
sì che erano
guai.
Capitolo corto e forse
anche un po’ inutile ma credetemi se vi dico che
faccio il possibile per non scrivere schifezze (che poi magari escono
in ogni
caso >.<) e non farvi attendere un nuovo passaggio della
cometa di Halley
prima di aggiornare.
Arabella è
partita, e così restano solo i nostri due protagonisti. Ma
prima
di esultare e pensare al vestito da comprare per il loro matrimonio
attendete
un attimino: Theo (*sbadiglio*) sta per tornare più forte di
prima!
Alla prossima ragazzuoli e
se volete farmi sapere cosa ne pensate non
esitate a scrivermi una recensione a cui io risponderò
prontamente (=entro il
2793 (no vero))
S.
P.S. Vi lascio anche
stavolta il link della nuova ff nonostante non
abbia ancora avuto il tempo di andare avanti (quando inventeranno sul
serio un
giratempo??) --> http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3444659&i=1