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Autore: DeniseCecilia    30/05/2016    6 recensioni
Una fanfic dedicata a Judy, a Nick e a un possibile "noi".
Alle scelte che il mondo ci chiede di fare e che non possiamo ignorare, se vogliamo crescere.
Ma che, in fondo, sono soltanto nostre, e di chi amiamo.
Genere: Drammatico, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bonnie Hopps, Judy Hopps, Nick Wilde, Stu Hopps, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Furry, Tematiche delicate
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Lo devo proprio dire: adoro questo capitolo.
Il risultato finale è ancora lontano da quello che mi girava nella testa, dalle sensazioni che volevo raccontare.
Ma ugualmente ne sono soddisfatta.
E' più lungo e ricco dei precedenti, e dopo l'inizio che li vede insieme alterna più volte i POV di Nick e Judy.

In parte rappresenta, ancora, un esperimento: qualcosa di nuovo in questa fic, anche se non del tutto per me, in quanto ho già descritto in passato sia una corsa che una musica (a proposito: ho inserito i link alle due canzoni che J&N ascoltano; se vi va, vi consiglio di metterle in sottofondo). Per questo aspetto in particolare il parere di Redferne (trovi credibile questo Nick?) e quello di Chiara (com'è il ritmo? vedi qualche patata gigante in giro?). Naturalmente, qualunque commento sarà apprezzato.

Dedico questo capitolo a chi mi ha seguito fin qui, a chi è appena arrivato (benvenuti/e) - e a tutti i runner! :)

 

IX. Correndo

Si chiusero la porta alle spalle e si immersero nel buio che cullava la casa.
Subito Judy sentì le zampe di Nick appoggiarsi sulle sue spalle e fare presa per voltarla verso di sé.
L'oscurità era così piena e perfetta che non riusciva a vedere neppure il riflesso dei suoi occhi, stavolta, a differenza della sera prima. Le parve tutto così nitido nella mente, eppure così remoto. Erano accadute molte cose – erano stati loro a farle accadere, e non era certa di quale sarebbe stato il prossimo passo. Forse dormire insieme, di nuovo. Semplicemente. Ventiquattro ore o poco più, e già aveva sviluppato un attaccamento, una dipendenza; doveva averlo vicino.
Le zampe di lui salirono a incorniciarle il volto. Ci fu un piccolo cambiamento in lei, nel battito del suo cuore: non tanto un'accelerazione vera e propria, più che altro una manciata di extrasistole gettate alla rinfusa in mezzo al normale ritmo cardiaco.
Il mix indistinguibile dell'odore dei loro corpi, a distanza quasi nulla, saturava l'aria.
Poi lui parlò.
“Credo che tu sappia già dove si trova tutto ciò che ti può servire. Sentiti a casa tua... temo però che stanotte dovremo dormire separati. Tu letto, io divano”. Oddio, suona un po' come Io Tarzan, tu Jane, pensò assurdamente Nick un attimo dopo aver pronunciato la frase. Frase che gli era costato molto pronunciare: tant'è vero che aveva preferito non essere costretto a guardare Judy negli occhi nel farlo. Ma doveva. Fino ad allora era riuscito a mantenere la compostezza di un perfetto mammifero ragionevole e posato, ma la sua resistenza aveva un limite, e non voleva scoprire dove fosse esattamente questo limite.
“Dopo stasera non riesco a pensarti troppo lontana, a casa tua per esempio. Ma se dovessimo dormire di nuovo insieme, adesso come adesso, non riuscirei a trattenermi. Capisci cosa intendo?”, aggiunse dunque.
Era tentato di assecondarsi, e di assecondare il corso degli eventi. Che li portasse a soltanto a condividere il letto o più... lontano. Ma sapeva che questo avrebbe significato due cose: perdere il controllo della situazione, già precario, e affrettare qualcosa che aveva invece bisogno di tutta la cautela del mondo.
Judy non rispose per alcuni secondi. Infine mugolò un verso dal significato ignoto.
“Credo di capire, sì. Anzi, ne sono certa”. Se non puoi trattenerti tu, non contare su di me, era la didascalia della sua risposta. “Come ho detto, mi fido di te”. Non che ne fosse entusiasta, beninteso. A tentoni cercò il muso della volpe davanti a sé, andando a toccarlo appena sotto gli occhi a lei nascosti. Poteva vedere la sua reazione, lui? Restarono in quella posizione, zampe sulle reciproche gote, per qualche momento ancora prima di staccarsi.
Judy mosse alcuni passi rasente al muro, senza osare dissolvere quel buio benedetto, fino alla porta del corridoio che dava sulla camera di Nick, prima di voltarsi per augurargli la buonanotte.
“Aspetta”, lo sentì dire – più vicino, le sembrò. Si era mosso? “Giusto perché tu non abbia dubbi”.
Sì, era più vicino, constatò appena un secondo prima che la lingua rasposa e bagnata di lui la svuotasse di ogni pensiero, come la risacca cancella le orme sul bagnasciuga. La stava leccando veloce, con gusto. Guance, naso, bocca. Poi più nulla. Lo sentì sospirare leggero. E ancora posare la lingua, solo di punta, sulla sua bocca così piccola, così diversa, così da... coniglio. Fermandosi lì, come in attesa della sua mossa. Adesso davvero il cuore le stava pompando a un ritmo esagerato. Esitò. Inghiottì saliva. E si slanciò verso di lui facendo quel che poteva, quel che umilmente poteva, per accoglierlo dentro di sé. Spazio ne aveva, certo, nel cuore nella testa e nella bocca; ma non si poteva negare che non fosse come baciare un suo simile. Non poteva darsi a metà: poteva solo arrendersi completamente, lasciarsi invadere, prendere un unico profondo respiro e calarsi in un'apnea ipnotica che aveva ben poco da invidiare ad un altro tipo di... ginnastica. Sentendosi annegare lappò la superficie inferiore della lingua di lui, qualcosa di sporgente e teso che doveva essere il nervo, e in quell'attimo cozzò con la nuca contro la parete del corridoio. Nick la stava spingendo all'angolo. Lo prese per i fianchi per annullare lo spazio che li divideva, stringendolo con molta più forza di quanta ne avrebbe messa nel placcaggio di un fuggitivo; e solo quando non ce la fece più, a malincuore, voltò la testa interrompendo il bacio.
Nick tornò a leccarle piano, in piccoli movimenti, il muso, tenendoglielo fermo tra le zampe raccolte a coppa. Poi ne lasciò cadere una sul fianco della coniglietta scendendo a inumidirle il collo. Era decisamente l'ultima tappa, quella, non poteva permettersi altro pena scivolare nella follia. Inalò il suo odore, qualcosa di incredibile che riteneva ancora un indizio di erba e di terra, e si fece chiaramente udire mentre sniffava, e leccava, e ansimava, e... basta. Tutta quella meraviglia gli aveva prosciugato il sangue dal cervello e l'aveva spedito altrove, più a Sud. Basta. Era a un passo dal cedere.
Si staccò da Judy con lentezza – lei potè percepire distintamente ancora due, tre volte il fiato di lui lambirla. Come poteva una cosa essere al tempo stesso tanto paradisiaca, e tanto tormentosa?
Chiusero il loro incontro nella maniera più semplice e difficile insieme; una volpe che accompagna una coniglia lungo i pochi metri che la separano dalla stanza in cui avrebbe dormito. Sola. Le dita che sciolgono il loro intreccio. Una buonanotte sussurrata a mezza voce, con la paura che anche un'unica parola fosse di troppo. E la notte ancora lunga davanti a loro.

 

Nick si ribaltò avanti e indietro sul divano, praticamente insonne, per le successive due ore.
Si sistemava la coperta, la ricacciava via; accomodava con attenzione i cuscini solo per cambiarli di posizione dopo dieci minuti. Si mise disteso, seduto, ranicchiato, raggomitolato, poi ancora disteso.
Sapeva di aver fatto la scelta giusta, tuttavia questa consapevolezza non lo aiutava a superare quell'oceano freddo che lo separava dall'alba, o almeno dall'addormentarsi e dimenticare dov'era, senza chi era.
Desiderava Judy in maniera così intensa. E proprio per questo non voleva bruciare le tappe. Sentiva l'urgenza di sbattere la testa al muro, oh sì. Per smettere di pensarci. Oppure di una doccia gelata, ma per farla avrebbe dovuto passare per la sua stanza. Avvicinarsi a lei. Oh, no. Non ce l'avrebbe mai fatta!
La voleva. E anche se entrambi erano stati con altri, prima, ora le cose erano cambiate. Si appartenevano. Eppure ancora non gli bastava, non intendeva accontentarsi. Voleva tutto di lei. Da lei. Voleva un sì totale, a scatola chiusa. Nessuna possibile ritrattazione.
Perché la verità era che loro due non avevano alcun potere, né certezza. Né la certezza di rinnovare l'attrazione che provavano finché fossero vissuti, né il potere di appianare i contrasti che sarebbero sorti. Potevano soltanto fare una scelta: di rimanere insieme comunque, anche quando, anzi specialmente quando, gli sarebbe sembrato che non ne valesse più la pena. Per averlo deciso prima, arbitrariamente, ed esserselo giurato davanti a Dio – “preda e predatore, due nature unite nel medesimo essere”, così recitava la formula canonica. L'unica variabile che avesse valore era la loro volontà.

 

Judy si sarebbe fatta un mucchio di paranoie alto come il Kilimangiaro, ne era certa, se non fosse stato per quel bacio con cui Nick l'aveva tramortita una mezz'ora prima. Breve ma intenso, promettente. E nel complesso, quell'ultima particolare giornata era stata troppo persino per lei. Insomma, troppo per modo di dire.
La coniglietta rinunciò a prender sonno, almeno per il momento. Nonostante la stanchezza galoppante, era ancora su di giri. Temeva inoltre che se si fosse addormentata sul fianco destro, avrebbe disperso il tocco sapido che la volpe aveva lasciato sul suo collo, cedendolo alle lenzuola come uno di quei trasferelli con cui giocava da bambina.
Si sedette allora a zampe incrociate, e alla luce della piccola lampada che sporgeva dal lato del letto si mise a riorganizzare le proprie playlist sull'mPod. L'indomani, cascasse il mondo, si sarebbe alzata all'ora consueta e sarebbe andata a correre nel parco più vicino. Sarebbe in ogni caso tornata prima che Nick si svegliasse. Considerato che avevano la mattinata libera, e avevano tirato tardi, avrebbe lasciato che recuperasse il sonno finché gli pareva.
Creò una nuova cartella intitolandola Monday, I'm in love e cominciò a spostare i file: da cose più ritmate come l'immancabile Gazelle, a cose più d'atmosfera come Whitney Foxston. Ragionò sui testi che avrebbero saputo sottolineare al meglio la tempesta di impressioni che covava dentro; sulla durata delle tracce. Voleva correre più a lungo del solito; non si trattava di un allenamento normale ma di un lasciarsi coinvolgere, dare voce e sfogo a quell'affanno felice che le impediva di acquietarsi.
Non vedeva l'ora che si facesse giorno.
 

Cinque minuti, cinque minuti soltanto; fu quel che Judy si disse accoccolandosi contro il corpo caldo di Nick. Sottosopra, il pelo discretamente arruffato, la volpe aveva abbandonato la camicia sul bracciolo del divano e nella lotta contro i suoi fantasmi notturni una gamba e mezzo torace erano rimasti all'aria. La coniglietta si godette con tutta calma quel piccolo, peloso regalo mattutino.
Indugiò avvolta in quella deliziosa massa soffice, che per la prima volta vedeva libera dalla costrizione degli indumenti, finché non le sembrò di avergli rubato abbastanza calore.
Rimessasi in piedi, si premurò di allungare il plaid perché coprisse adeguatamente il suo prezioso partner. Fece la sua serie di piegamenti e allungamenti, allacciò l'mPhone al braccio ed infilò gli auricolari. Aprì la porta di casa più piano che poté, uscì, la richiuse, si mise la chiave in tasca.
Un respiro profondo. Via.

 

Cespugli di rose, fasci di iris, papaveri a perdita d'occhio.
Profumi o colori intossicanti, come piacevolmente tossico era l'effetto che la volpe le faceva.
La Morris si stava esibendo in una versione deliberatamente lenta, ad alto tasso erotico di quella stessa Toxic che Britney Spears aveva reso una hit. Irriconoscibile. Aspirò l'aroma dei fiori di cui il parco era pieno, inspirò in profondità e rilasciò la cassa toracica con un sospiro lento e sonoro.
Sotto le sue zampe il manto erboso.
Il sole la inondava di luce tiepida; la stessa luce che faceva rifulgere le pagine inferiori delle foglie degli ulivi tutt'attorno, come cristalli esposti.
Una brezza leggera, un maggio perfetto.
Mammiferi stupiti e riconoscenti, sospettosi o ritrosi, a tutti sorrideva per prima; incurante di venire corrisposta o meno.
Era lì: profondamente partecipe del flusso del sangue nelle sue vene, del saliscendi del suo respiro, dell'alternarsi di flessione ed estensione di ogni muscolo al lavoro. Eppure, contemporaneamente, era altrove, in un universo a parte. Un universo fluido, fatto di quella voce che rasentava il timbro maschile sui toni bassi, e diventava un lancinante grido di passione quando s'involava sul dorso degli acuti.
Le piaceva la sensazione che la corsa le dava, di poter allungare il suo corpo già elastico oltre ogni aspettativa. I fasci muscolari rispondevano ai suoi ordini docilmente, i tendini li agevolavano. Non imponeva loro alcuno sforzo superiore a quello necessario per scivolare tra siepe e siepe, tra i cuccioli che giocavano a pallone, tra un'emozione e l'altra che intenzionalmente esaltava con la musica.
Correre come volare. Faticare per sollevarsi sopra la fatica.
Spalle morbide. Testa alta. Cuore che scalpita dentro ogni colpo di zampa che batte il suolo.
Azzurro del cielo, verde nel fremito dell'erba, bianche nuvole pigre di passaggio che spezzavano l'immensità della volta celeste – la rendevano meno gravosa da sopportare –, ogni informazione visiva si trasfondeva nella successiva mentre Judy non smetteva di bersi tutta la vita che sentiva palpitare attorno a sé. Ogni cosa a sua disposizione. Tra le sue braccia.
La Morris era appunto passata a cantare quella cosa dolcissima e lacerante che era Into my arms.
Così le pareva che il suo mondo fosse diventato d'improvviso: carico di dolcezza e lacerato, le sue emozioni già normalmente traboccanti ancor più visibili ed esplicite. Immaginava che a chi la stava osservando in quel momento dovesse apparire radiosa in una maniera preternaturale, illuminata da dentro, e sì: sconvolta. Per questo aveva la necessità di far correre corpo e mente insieme, per portare tutto alla luce, riequilibrarsi e fermare la sua altalena interiore.
Fonda e ruggente le penetrava nelle orecchie la marea.
La chitarra sottolineava i picchi di massima e minima della voce.
Judy ebbe un ultimo scatto.
Verso casa e verso Nick.

 

Cinque minuti, cinque minuti soltanto; fu quel che Nick si ripromise quando si accorse di essere sveglio. In concreto, ne trascorsero altri cinquanta prima che si decidesse a sedersi e mettere le zampe a terra. Si sentiva addosso qualcosa, un che di indefinito; come l'impronta di altro corpo che si fosse appoggiato al suo di recente. Per esempio, quello di Judy. Era solo un'impressione, purtroppo.
Sbadigliò, si stiracchiò, e notò due cose: dalla cucina proveniva un delizioso odorino di pane tostato; dal bagno, invece, lo scroscio della doccia. Evidentemente Judy si era portata avanti, come suo solito.
Alzandosi si sentì contratto e intorpidito. Aveva bisogno di sciogliere la tensione, sia fisica sia mentale, che aveva accumulato. Decise perciò che sarebbe uscito a correre. Rassettò sbadatamente il divano, recuperò un paio di pantaloncini e una maglietta tecnica da un cassetto e si vestì. Scrisse un biglietto per avvisare Judy e salutarla. Colazione veloce – avrebbe sbranato un lupo quella mattina, ma forse non era politically correct ammetterlo –, stretching veloce, ed era pronto. Via.

 

La città gli sfilava ai fianchi, sotto pelle, dentro gli occhi dilatati dall'esercizio.
La amava, semplicemente.
Nei capillari che erano le sue strade si andava perdendo.
I finestrini delle auto in scorrimento riflettevano un brano del suo corpo distorcendolo in un'onda sinuosa – gli piaceva ciò che vedeva. Era snello. Ogni volpe che non avesse perso il contatto con l'istinto della fuga lo era. Per il mondo questo non valeva forse granché, ma l'opinione del mondo era un'astrazione.
I suoi passi cadenzati sull'asfalto non lo erano.
Le spalle davano il ritmo agli arti superiori per accompagnare i passi, gli avambracci sollevati a lasciar defluire la linfa. Le sue spalle, gli avambracci non erano astrazione; l'aria che fendevano ne era testimone. Ad ogni appoggio i glutei si contraevano, tornavano in posizione di riposo, si ricontraevano.
E quella scoperta continua dei propri gruppi muscolari, come fosse ogni volta un fatto originale, lo emozionava, lo esaltava. Tutto questo non aveva bisogno di alcun commento: l'unica musica che desiderava ascoltare era il battito cardiaco che impazziva per sfuggire alla costrizione della cassa toracica e gli rimbombava nelle orecchie tese, raggiunto il suo livello di guardia; lo sbuffo del respiro che gli gonfiava le narici nell'impegno a non aprire la bocca per guadagnare ossigeno.
Correre significava regalarsi al dolore, morire un po' per ridare colore alla vita.
Era forse l'unica attività fisica che in Accademia aveva perseguito onestamente, senza espedienti di sorta ad aiutarlo nella riuscita. E prima ancora, era stata uno dei pochi diversivi alla sua vita scapestrata sì, eppure monotona. Senza scopo.
Correre era meditazione in movimento.
Liberazione dai vincoli del pensiero in costante agitazione; dal peso del corpo che, fermo, lo inchiodava ai suoi limiti e alle sue perdite.
La perdita, in corsa, era guadagno: i liquidi e i sali eliminati corrispondevano ad altrettanta serenità conquistata, coi denti e con gli artigli, e onorata con la costanza, l'insistenza.
Il sudore lo inzuppava fin nel solco della colonna vertebrale. Lo percepiva freddo per contrasto al calore sviluppato da trapezio e gran dorsale in una sollecitazione positiva, ancora ben lontana dal produrre acido lattico.
Nick si slanciò all'inseguimento di una Dodge Viper che l'aveva appena sfiorato, la coda che oscillava seccamente spazzando l'aria.
Forse era solo nella sua testa, ma aveva letto quel rombo e quel sorpasso come una provocazione.
Poteva aumentare ancora lo sforzo, incrementare la velocità.
Fosse di conigli nei tempi dimenticati in cui la sua specie era selvaggia, di prestazioni, di lussi... di una divisa, di riconoscimenti mancati. Dell'affetto di Judy. Fosse quel che fosse, era un cacciatore, un predatore. Pericoloso no, predatore sì.
Un predatore quasi ex, quando un'altra auto lo raggiunse da dietro ed evitò per un pelo di falciarlo. Ecco, bravo. Fatti mettere sotto. Molto fico. Lo stronzo aveva scartato senza motivo, certo, Nick non s'era spostato dalla sua traiettoria. Ma aver ragione non aveva mai consolato nessun morto. Tornò rapidamente a indirizzarsi verso una zona meno periferica, cercando un percorso che gli consentisse di lasciarsi andare e non preoccuparsi di ciò che lo circondava.
Superò un paio di incroci facendo lo slalom tra i pedoni intenti ad attraversare. Ignorò un crampo al polpaccio e rallentando a sufficienza, lasciò che il tempo facesse il suo lavoro scacciandolo in silenzio, senza chiasso. Giunto infine ad una ciclabile che costeggiava una delle arterie principali del Dowtown di Zootropolis, si permise di chiudere gli occhi congestionati dallo smog e lasciarsi guidare un po' dall'olfatto.
La sfida stava nel cogliere ed amplificare quelle note sottili che per la gran parte degli altri mammiferi neppure esistevano, sommerse dall'inquinamento e dal ventaglio ricchissimo di odori di cui la città era satura.
Ma durò poco.
All'improvviso un altro genere di nota, vibrata sulle corde di un pianoforte, lo distolse.
Una melodia dolce e cristallina, sorretta da suoni rotondi e morbidi, poco marcati, fece irruzione.
Un pianoforte. Musica senza parole. Sentimenti diretti e chiari.
La lenta marcia della composizione, che aveva inizialmente l'incedere incerto di un carillon, crebbe pian piano fino a prendere un ritmo più determinato.
Nick si arrestò e si soffermò ad ascoltare.
Sull'ingresso del negozio da cui la musica scivolava via, nessuno.
Solo una volpe che introduceva cauta il muso, scrutandone l'interno.
C'era una statua di un duro materiale rosato, sulla sinistra, in vetrina. Scaffalature nere, vuote. L'intera stanza era vuota, fatta eccezione per due strumenti tirati a lucido con il marchio dipinto in oro – chi suonava si trovava invece nella stanza adiacente, e non poteva scorgerlo. Nick alzò una zampa e si chiese se avrebbe fatto scricchiolare il pavimento di parquet, piuttosto polveroso, casomai ve l'avesse poggiata. Non accadde.
In compenso, la melodia stava seguendo un crescendo irregolare, ma ormai s'era definita in tutta la sua aerea leggerezza. Le frasi andavano rincorrendosi via via più vicine, quasi ansiose di emergere dal vuoto, dando l'impressione di accavallarsi. Si arrestarono per tre battute di silenzio. Poi la ripresa, uguale. Ancora il fraseggio delicato e struggente, privo di peso, come una vela che si gonfi al vento. Fino all'esplosione incontenibile che gli spezzò le gambe e lo costrinse ad accasciarsi a terra, schiena al muro, sopraffatto; con il cuore che si espandeva e si levava, una nuvola, una piuma – un lungo attimo di commozione straniante, poi fu ritrascinato via. La città lo chiamava a reimmergersi nel suo magma.
Si fiondò fuori dal negozio con tutta la foga che la corsa non gli aveva ancora rapito, gettandosi in direzione della sua abitazione senza quasi avvertire il contatto delle zampe con il suolo.
Avrebbe desiderato mantenere quello slancio cattivo, da crepacuore, per sempre; al contempo però pregustava l'idea della fine, della definitiva resa al suolo.
Il suo quartiere, il suo viale.
Vide Judy sui gradini alzare lo sguardo su di lui all'arrivo. Uno sguardo che parlava di casa.

  
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