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Autore: BBola    30/05/2016    0 recensioni
Una breve apologia di un tradimento.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Incompiuta'
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Più volte, e a diverse intensità
 
Erano le undici meno venti. Zelante, mi ero anticipata un po’ sul mio appuntamento giornaliero con la macchinetta del caffè. Non ero l’unica; d’altronde era lunedì.
Una mano digitò veloce il codice della bevanda che prendevo di solito, e me la porse.
Prima di poter ringraziare, un collega si frappose tra me e il gentile filantropo.
«Buongiorno, bella! Divertita questo fine settimana?»
«Mah, insomma! Questo week end sono scesa dalla mia famiglia. Mi sono stancata, più che altro!»
«Se, la famiglia! Sei andata a trovare il fidanzato, forse!»
Abbassai lo sguardo, un po’ imbarazzata.
«No, no…»
Ma il suo sguardo voleva qualche spiegazione in più.
«…anche il mio fidanzato non vive più nella nostra città. È sempre in viaggio per lavoro. In questo momento è in Sudafrica.»
«Aaah, stai piena di corna allora!»
 
Voleva scherzare, ma gli feci solo una linguaccia. Non volevo parlare di quelle cose davanti al gentile filantropo. Che mi aveva appena lanciato un’occhiata seria d’intesa che mi fece sudare freddo per qualche istante.
 
Eravamo tutti nuovi, in quell’ufficio. Ragazzi giovani provenienti da città diverse. Non conoscevamo nessuno, e abbiamo legato subito tra di noi. Per i primi tempi abbiamo fatto tutto insieme, eravamo sempre insieme. Anche troppo.
 
Il gentile filantropo era stato il primo con cui avevo stretto amicizia. Era, appunto, gentile, anche simpatico, forse non troppo furbo. Non abbastanza da capire che mi faceva piacere stare in sua compagnia perché non volevo stare sola. Ma la sua tenacia nel lanciarmi sguardi piacenti mi divertiva, e anche se non avrei dovuto, avevo deciso di stare al gioco.
Era un po’ che non ridevo tanto. La strada per arrivare a lavorare in quell’ufficio era stata lunga, a tratti avvilente, e per buona parte l’avevo dovuta percorrere da sola, col mio fidanzato sempre in giro.
Ormai erano tre anni che aspettavo di poter condurre una vita normale con lui, ma più ci speravo e più lui diventava una trottola, sempre in viaggio, sempre in posti più lontani.
 
E avevo iniziato a chiedermi se ne valesse ancora la pena.
 
Non subito, ovviamente. Dopo qualche serata passata in spensieratezza con questi nuovi colleghi.
Dopo un bicchiere di vodka in più. Dopo che per gioco pensai bene di baciare il gentile filantropo, convinta che il giorno dopo non ci avrei pensato più.
 
Non sapevo che invece quel bacio avrebbe scoperchiato il vaso di Pandora, e avrebbe fatto esplodere tre anni di dispiaceri, frustrazioni, solitudine.
Che mi avrebbe reso insopportabile tornare ancora a casa, da sola, e rotolarmi nel letto accarezzandomi un braccio che avrei voluto essere stretto da qualcuno. Da chiunque, ormai.
Più passava il tempo, più sentivo l’angoscia di una giovinezza vissuta solo a metà, con istinti repressi, e desideri realizzati in solitario, in modi che cercavo di rendere sempre diversi, sempre più creativi, per non lasciarmi prendere dalla insofferenza.
 
Per qualche giorno cercai di evitare il gentile filantropo. Ma scappando avevo finito per aggiungere un’altra voce alla lista delle cose che avrei voluto e non potevo fare.
O potevo? Cosa sarebbe cambiato se per una volta fossi stata meno intransigente? O se mi fossi impuntata e avessi deciso che ne avevo abbastanza di una vita tanto costretta? O se mi fossi semplicemente arresa al fatto che l’amore della mia vita, schiavo di un cane radioattivo, sempre in giro per raggiungere col suo carico d’oro nero un altro cane dagli occhi color del ghiaccio, non fosse davvero l’amore della mia vita, e che era arrivato il momento di trovare il coraggio di iniziare d’accapo?
 
Poi il gentile filantropo iniziò a frequentare altre persone. E mi rese le cose più semplici.
 
Da indecisa divenni gelosa. Furiosa. Mi stavo divertendo con lui e volevo continuare a divertirmi. Senza troppe implicazioni.
 
Non sapevo dove mi avrebbe portato il mio cercarlo insistentemente, dirgli mezze frasi che volevano dire tutto e niente, potevano lusingarlo, divertirlo o spaventarlo.
«Dovremmo uscire senza parlare!» decise infine.
 
Quel fine settimana ero scesa a casa. Ed ero tornata con l’ultimo treno, il più tardi possibile.
Lo vidi sotto al portone, che mi aspettava all’ora giusta.
Lo guardai sorridendo timidamente, e aprii il portone, senza dire una parola.
«Non mi fai entrare?» chiese, un po’ contrariato.
«Avevamo deciso che saremmo usciti senza parlare, giusto? Stasera mi limiterò a sorriderti e a dirti di sì, come fanno le signorine perbene con gli uomini.» Diedi un calcio al portone, pesante. «Più volte, e a diverse intensità, se preferisci.»
Annuì.
«Preferisco.»
Ci richiudemmo il portone alle spalle, e mi ci spinsi contro, trascinandolo con me.
Guardai i suoi capelli, rasati sulle tempie, ad impedire ai primi segni bianchi gli ricordassero che era diventato un uomo ormai.
Sorrisi malinconica, costatando quanto effimero fosse quello che mi piaceva di lui, e quello che doveva piacere a lui di me.
In fondo lo sapevo, che era solo un ragazzotto poco furbo.
 
Ma la vita è una sola, e puoi decidere di viverla quietamente, accontentandoti delle emozioni che ti regala di tanto in tanto.
O puoi arrabbiarti, sbagliare, distruggere tutto, e ricominciare, ogni volta che ti senti stretta nelle maglie di un’abitudine senza vigore.
Puoi perdere tutto, lasciarti una vita alle spalle, morire e rinascere.
Più volte, e a diverse intensità.
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
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