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Autore: fortiX    31/05/2016    4 recensioni
Bassai dai é il nome di un kata del karate shotokan. Il termine vuol dire entrare nella fortezza. E cosa sono Sephiroth e Cloud se non due fortezze mai violate? Cloud sta aprendo la sua verso una nuova vita e si accorgerà presto che, nonstante le numerose sconfitte, il suo nemico mortale non é mai stato veramente conquistato. I segreti e le paure verranno mai svelati? Cloud avrà questo coraggio?
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cloud Strife, Nuovo personaggio, Sephiroth, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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22. Fuga

Il sapore del sangue marcio mi ottunde il gusto.

Quella bestia mi schiaccia col suo peso, impedendomi con i suoi artigli di sfuggire.

Cerco di urlare, invano.

In fondo, come potrei?

Non riesco nemmeno a respirare.

Non mi arrendo, tuttavia. So cosa vuole e non lo avrà tanto facilmente.

Gli infliggo altro dolore e stavolta sono libera.

Una libertà illusoria.

Non riesco ad assaporarla poiché la mia bocca avverte un solo terrificante sapore.

Un solo veloce momento di lucidità, prima che la mente venga ottusa dal dolore.

Quando tocco il fondo dell’abisso, ormai non credo di essere nemmeno più viva.

Nel mio cuore spezzato, tuttavia, un pensiero continua a ferirmi più della morte.

 

Il mio bambino…

 

 

Non smetto di guardare il ritratto di Takara. Non so ben dire se stia corrispondendo i desideri di un padre costretto a veder crescere la propria figlia da lontano, ma fatto sta che continuo a chiedermi che aspetto possa avere. Sephiroth mi sta affollando la mente con stralci di ricordi riguardanti la sua bambina, ma non riesco ben mettere a fuoco il suo aspetto, dal momento che sono più che altro i sensi e le sensazioni a farla da padrone. Appare confuso. Combattuto. Sembra quasi che la sua natura bestiale si stia ribellando contro un sentimento troppo umano da sopportare, ma irreprimibile come tale. Inoltre, non avverto altro che colpa. Colpa per non essere stato il padre che lei meritava. Colpa per averla messa in pericolo con le sue azioni riprovevoli. Colpa per averla dimenticata.

Senza rendermi conto una lacrima abbandona il mio occhio sinistro: una piccola manifestazione dello sconfinato dolore che alberga in quel cuore colmo di rimpianto. Sospiro e mi adagio contro la parete, fissando il soffitto bianco. Improvvisamente, un pensiero spazza via ogni barlume di pietà, lasciando spazio solo al risentimento. Mi asciugo la lacrima con stizza e mi rivolgo alla stanza vuota.

 

- Why pretend you sad? –

[Perché fingi di essere triste? Sephiroth, FFVII: ACC]

 

Mi guardo intorno, come se LUI fosse lì, appostato dietro alle ombre della notte. Mi alzo, spavaldo, pronto a combattere contro qualunque cosa possa uscire da quegli abissi multiforma. Mi avvio verso il centro della stanza, guardingo. L’attesa è lunga, ma so di non aver parlato al vento.

- Lo so che ci sei. Sono parte di te, ricordi? –

La temperatura sembra essere calata di colpo. Un brivido mi trapassa da parte a parte. Non saprei dire se di aspettativa o furore. Forse entrambe.

- Non hai pensato a ciò che la tua vendetta avrebbe portato a te stesso? Non hai pensato alla tua casa quando hai dato fuoco all’intero villaggio? O a tua moglie quando hai ucciso mia madre? –

Avverto le pareti crepitare, gemere, come se una forza invisibile scorra tra le intercapedini, similmente a un corso di sangue ribollente d’ira. Inconsciamente, le mie labbra si piegano all’insù, mostrando i denti, delineando così un sorriso maligno.

- Non hai pensato a tua figlia mentre uccidevi tutti quei bambini? -

Le ombre si animano, prendono consistenza e si protendono nella mia direzione. Assumono la forma di lunghe e scheletriche dita artigliate. Fa dannatamente freddo. Dalla mia bocca escono nuvolette di condensa. Gli artigli mi toccano. Sono mortalmente freddi, tanto ferirmi la pelle con il loro gelo. Tuttavia, non ho paura. Che faccia di me tutto quello che vuole, in fondo non m’importa nulla.

 

Non ho niente da perdere.

 

Appena formulo quel pensiero, le ombre si ritirano come se scottate, lasciando che l’accomodante luce lunare rischiari l’interno della stanza. Mi guardo attorno, confuso, spiando all’interno delle ombre; ma tutto sembra essere tornato alla normalità. Poi, realizzo. Chiudo gli occhi e rilasso i muscoli.

- Non avevi nulla da perdere… Credevi che tua figlia fosse morta, vero? –

Nessuna risposta, ma so che, da qualche parte nel mio inconscio, una testa ha annuito tristemente. Raggiungo il letto e riprendo in mano il diario, lasciato aperto sulla pagina del ritratto. Lo guardo con una consapevolezza completamente nuova.

- Non le avresti mai fatto del male… -

Le mie dita seguono le linee delicate che compongono il paffuto viso della piccola. Mi sembra di sentire la delicata morbidezza della sua pelle profumata scorrere sui miei polpastrelli. E di nuovo il dolore per poco mi soffoca. Mi rendo conto che questo è più reale che mai. Capisco anche un’altra verità.

- Tu sei morto molto prima di dare fuoco a Nibelheim. Chi, allora, è l’artefice di tutto ciò? –

Alzo la testa di scatto e sgrano gli occhi.

Ma certo…

Jenova.

 

All you are, it’s an empy puppet.

[Tutto ciò che sei, è una vuota marionetta, Sephiroth FFVII:ACC]

 

 

- Dove credi di andare? –

La voce calma di Vincent rimbomba nell’oscuro corridoio, bloccandomi sul posto, oltre che a farmi prendere un colpo. Ma come fa ad essere così silenzioso?

- Devi smetterla di apparirmi alle spalle quando meno me lo aspetto. –

Mi volto truce, ma il mortale viso del pistolero rimane impassibile, come una statua di cera. Egli si avvia nella mia direzione, emettendo solo un flebilissimo fruscio di vesti.

- Non hai risposto alla mia domanda. –

Vincent si eleva di fronte a me, le braccia incrociate al petto. Il suo viso ha assunto un’espressione seria, ma non greve o minacciosa… un’espressione strana, molto simile a quella assunta da un padre che ha colto il figlio in fallo. E mi rendo conto solo ora della leggera sfumatura di preoccupazione nella sua voce. Mi sento piccolissimo in confronto a quella figura possente e autoritaria. Stranamente, non me la sento di mentire.

- Me ne sto andando. Rimanere qua non ci aiuta a trovare Takara, Vincent. –

Il pistolero scioglie la morsa delle sue braccia e le lascia cadere lungo i fianchi, senza staccare lo sguardo dal mio. Non dice nulla, ma posso vedere un’intricata e complessa rete di ragionamenti nei suoi occhi. Ogni volta che menziono la sua nipotina, mi sembra quasi vedere il suo cuore di Protomateria illuminarsi. Il desiderio di conoscerla è così forte che posso quasi avvertirlo esplodere nell’aria. In questi momenti mi è permesso vedere il vero Vincent Valentine, il giovane Turk innamorato di una fragile e bellissima donna. Un uomo immortale che ha sofferto ogni pena infliggibile a un essere umano. Il passionale ragazzo trascinato da eventi più grandi di lui e affogato per via della passione. L’uomo celato dietro alla bestia in rosso. Tuttavia, è un attimo, un assaggio appena accennato, siccome la bestia, calcolatrice e fredda, non ama essere messa da parte.

- Non sei ancora abbastanza in forze per affrontare un viaggio così lungo. E come pensi di cavartela se dovessimo incontrare Genesis? Non sei nelle condizioni di combattere. –

Avverto un profondo senso di sconforto, ma se da parte mia o di Sephiroth non saprei dirlo, ciononostante non mi lascio abbattere e lascio che sia la calma a ribattere alle sensate opposizioni di Vincent.

- E’ vero. Sono distrutto, sia mentalmente che fisicamente. Non ho forze nemmeno per stare in piedi, come posso pretendere di combattere contro un ex-SOLDIER di Prima Classe? Eppure, sono l’unico che può portare a termine questo compito. E’ per questo che mi hanno scelto. Perché nonostante tutto il dolore inflitto io continuo ad andare avanti. -, mi appoggio alla parete con una mano, mentre con l’altra indico un immaginario punto lontano, - Laggiù, da qualche parte, c’è la promessa di un mondo migliore, un Dono divino che non può andare sprecato. E io non permetterò che lo sia, non finché avrò fiato in corpo! –, il furore delle mie parole sfuma pian piano, mentre le forze tornano a meno, ma non la mia determinazione, - Ti chiederai perché continuo imperterrito a inseguire questa missione, nonostante è palese che probabilmente non ne vedrò l’epilogo. Sinceramente, non lo so nemmeno io, però… -, tiro fuori il diario e ne osservo la copertina rovinata, - I peccati vanno espiati. Forse solo così si può ottenere la pace. –

Alzo lo sguardo verso Vincent e vedo i suoi occhi essersi fatti cupi, fissi sul diario del figlio. Quel figlio che avrebbe tanto voluto pretendere come suo. Sospira. Vedo la sua mano allungarsi verso la colonna del libro. Le dita guantate stirarsi timide verso la pelle nera, tremanti, spaventate. Il suo viso è l’espressione del puro tormento, di una colpa troppo grande per essere espiata; eppure solo quel minuscolo gesto d’amore represso potrebbe alleviare. Teme il confronto, tradito dal respiro pesante e affannoso. Davvero tuo figlio vuole la tua pietà? Tu, che non sei stato in grado di proteggerlo quando più aveva bisogno? La risposta, per Vincent, è palese. La sua mano crolla accanto al fianco, come se scottata, celandosi dietro alla sua prigione rossa.

- Non è mai troppo tardi per chiedere perdono, Vincent. –

Le labbra pallide si sollevano in un mesto sorriso.

- Spero che tu abbia ragione… -

 

 

Le appuntite cime degli abeti si elevano nel cielo bluastro come tante lance scure, in protezione dei segreti celati nel cuore della foresta. Il Lifestream scorre molto vicino alla superficie, tanto che, talvolta, è possibile imbattersi in sue emanazioni, le quali, come centinaia di lucciole verdi danzano nell’aria gelida e pesante dell’abetaia, dissipando le inquietanti ombre della notte. Esse rischiarano la nostra fuga, testimoni silenti e scintillanti della disperata rincorsa al perdono. Fa freddo e il mio corpo debilitato fatica ad avanzare speditamente. Incespico nei miei stessi passi, ingarbugliati dall’intricata rete di felci rappresentanti il sottobosco, celati da un sottile strato di neve. Il vento ulula tra gli enormi tronchi degli alberi, rendendo l’atmosfera più inquietante di quanto non lo sia già. Non posso fare a meno di notare luci allarmanti osservarci nell’ombra. Mostri… o solo la mia immaginazione? Un generale senso di nausea e spossatezza mi stronca, costringendomi ad appoggiarmi contro un tronco, arrestando la mia corsa. Le gambe non reggono e finisco ginocchia a terra. Il cuore batte forsennato nel petto e l’aria gelida mi brucia nei polmoni, rendendo ogni respiro un’accoltellata lungo la faringe. Cerco di calmarmi e stroncare il fiatone, ma non faccio altro che ottenere l’effetto contrario.  La carenza di ossigeno inizia a dare i suoi effetti.

Mi gira la testa.

Il mondo si fa confuso.

Forse ho preteso davvero troppo dal mio fisico…

 

 

La pioggia scroscia ininterrottamente da stamattina, senza accennare di smettere. E’ straziante rimanere chiusa in casa in questa stanza vuota, maneggiando vestiti che dovrebbero essere indossati. Invece, sono qui, freddi e inermi nelle mie mani, in attesa di essere riposti ordinatamente nell’altrettanto triste e gelido ripostiglio. Sospiro sconsolata, mentre arrotolo un obi, stirandolo per bene in ogni sua parte. Non posso fare a meno di notare che è lo stesso obi che è stato indossato per una cerimonia molto importante. Senza nemmeno pensarci, la mia mano abbandona la stoffa e va sfiorare qualcosa più consistente appeso da una catena al mio collo. Un anello. Come la cintura, esso non mi appartiene ed è freddo, anche se non lo dovrebbe essere. La faccio girare tra le mie dita. E’ così grande… Come il suo palmo, ampio abbastanza da chiudere entrambe le mie mani nella sua morsa. Una morsa gentile e delicata, invero. Come le carezze che è capace di disseminare lungo tutto il mio corpo. Mi sembra quasi di sentirle, cingermi al sicuro, nella sua rassicurante stretta. Sorrido, certa della loro reale esistenza; finché un boato mi risveglia. Apro gli occhi e mi accorgo che le mani che tanto stavo amando erano le mie. Sospiro e lascio cadere le braccia sul grembo. Alzo lo sguardo verso la finestra. Le gocce di pioggia collidono contro il vetro e scendono soavi lungo di esso. Le loro ombre si proiettano sulla mia figura. Distolgo lo sguardo. Il cielo piange per me… Ormai, non ho più la forza di fare nemmeno quello. Dico a me stessa che, in fondo, non c’è motivo. Guardo la fede nuziale, risplendere nella sua fulgida semplicità.

Ha promesso di tornare, mi dico.

Lui torna sempre, in modo o nell’altro. Non è capace di lasciarmi andare.

Fino a che morte non ci separi.

Un brivido mi scorre lungo la schiena e mi costringe a distogliere lo sguardo dall’anello. Prendo un profondo respiro ed elimino quell’orrido pensiero così velocemente come è venuto.

E’ una possibilità a cui non devo nemmeno ponderare.

Mi rimetto al lavoro per distrarmi, quando avverto una presenza alle mie spalle. Mi volto. C’è Natsu in piedi sull’uscio della porta che mi osserva con un gran sorriso. Non ne comprendo il motivo, finché non abbasso lo sguardo verso il basso. Rimango a bocca aperta, appena vedo mia figlia… in piedi, senza aiuto. Avverto una profonda fierezza nei confronti della mia piccola principessa, la quale mi guarda tutta gongolante, sfoggiando il suo sorriso più bello. Incantata da quell’arco, sulla mia bocca se ne forma un altro altrettanto largo, mentre mi giro completamente e protendo le braccia nella sua direzione.

- Vieni, tesoro. Vieni dalla mamma. –

La piccola allunga le manine, cercando di afferrare le mie dalla sua posizione precaria. La vedo assumere un’espressione confusa e un po’ spaventata all’idea di non riuscire a raggiungermi.

- Su, Taky. Puoi farcela. –

Il tono rassicurante e il desiderio di toccarmi sconfiggono la sua iniziale perplessità e, con grande fatica, Takara muove due piccoli, incerti passi; quel tanto che basta perché le nostre dita possano toccarsi. Io sorrido appena avverto la sua pelle delicata sulla mia e, automaticamente, le mie mani si vanno a chiudere sulle sue, accompagnando la sua caduta verso il mio corpo accogliente. L’abbraccio e la stringo forte a me.

- Bravissima, amore! –

La bacio e la sollevo fin sopra la mia testa, come piace a lei. Takara inizia a ridere, fiera di se stessa. I suoi occhietti di giada brillano di gioia per il grande traguardo appena raggiunto e so già che la sua scarmigliata testolina bruna sta lavorando a come potrà usare questa sua nuova abilità. La vedo guardarsi intorno, intenta a riedificare la sua concezione del mondo. Infine, i suoi occhi incrociano i miei.

- Sarà più facile raggiungere le mamma, eh, tesoro? –

Lei sembra capire e sfoggia un sdentato, buffo e dolcissimo sorriso. Io rispondo di rimando e appoggio la mia fronte alla sua. Sospiro. Mi sento improvvisamente triste. Sollevo lo sguardo e la osservo. E’ tanto bella, la mia principessa. Ripasso i suoi lineamenti armoniosi, immaturi, ma dolci; in contrapposizione con il taglio degli occhi deciso ed allungato, adornato da lunghe ciglia scure. Queste ultime proteggono iridi dalle mille sfumature del verde, dallo smeraldo all’acqua, troppo peculiari per appartenere a questo Pianeta. Al contrario, i capelli sono la reincarnazione di questo mondo, del brillare del sole sulle fronde degli alberi, o della resina che cola delicatamente dalla corteccia; in un fluente turbinio di sfumature brune e, talvolta, dorate.

Non potrei essere più fiera di me per aver dato vita a una creatura così perfetta.

Oh, Sephiroth, che meraviglioso spettacolo ti stai perdendo.

 

 

-Cloud! Alzati, forza! –

L’incoraggiamento risuona lontano, offuscato, ma ha forza sufficiente di risvegliare parte della coscienza. L’altra metà è persa nel sogno. E’ come camminare all’interno di un lungo corridoio, i cui due capi conducono verso due tempi differenti. Dinnanzi a me il futuro. Freddo, ostile, oscuro; come la foresta che mi circonda, avvolta nella stretta morsa della tormenta notturna. Vedo il viso affilato di Vincent, deformato dallo sforzo, parlarmi, incitarmi a ritornare in me. Osservo i fiocchi di neve depositarsi copiosi sulla sua folta chioma corvina, le cui ciocche frustano la pelle lattea dell’ovale. Mi sta trascinando, avverto a malapena il suo braccio attorno alla mia vita e l’artiglio stringermi la mano nella sua morsa gelida.

- Cloud! Avanti, collabora. –

Lo odo a malapena, ma ha ragione. Devo aiutarlo. Devo tornare in me, devo…

Faccio appena in tempo a muovere due passi in quella direzione che un’avvolgente calore mi solletica la schiena, emanato da un’appagante luce dorata. Incuriosito, mi volto. Dinnanzi a me, avvolte dalla loro solenne perfezione, loro… Evelyn e Takara. Sorridono e mi guardano, ridono tra di loro e si coccolano, abbracciate e felici. Bellissime. I loro colori sono sbiaditi, come quelli di una vecchia fotografia e lì mi rendo conto di ciò che sto guardando: il passato. Caldo, rassicurante, luminoso.

- Perfetto. –

Mi sale un brivido gelido lungo la schiena appena odo QUELLA voce. Non faccio in tempo a girarmi che lo vedo sfilare alla mia destra e, lento e solenne, sorpassarmi. Si ferma pochi passi di distanza dinnanzi a me. Non mi degna di uno sguardo, in quanto è del tutto concentrato sulle due figure sbiadite in fondo al corridoio. Contemplo la sua figura alta e possente, rinchiusa nella sua solita oscura divisa; i capelli argentati scorrere fluenti lungo la schiena; gli spallacci segnati di mille battaglie luccicare sinistramente sulle spalle larghe. Rimaniamo immobili e in silenzio per secondi che sembrano un’eternità. Vorrei ribattere qualcosa, però, quando apro la bocca, vedo la sua mano sinistra muoversi. Inconsciamente, tutti i miei nervi scattano e si mettono all’erta, pronti alla battaglia imminente; ma nulla di tutto ciò a cui penso accade. Lui nemmeno si è accorto della mia presenza, probabilmente. Allunga il braccio in direzione delle due donne, come se volesse afferrarle. Chiude il palmo e avvicina il pugno a sé, poi lo apre.

Vuoto.

- Non puoi afferrarle. Sono solo ricordi… -

- Sono solo troppo lontano. –

Egli avanza ancora, si ferma dopo pochi passi e ripete le stesse azioni svolte in precedenza. Una, cinque, dieci volte, ma il palmo è sempre miseramente vuoto. Inoltre, più lui si avvicina, più quei ricordi sembrano precipitare ancora più in profondità, come se fosse lui stesso a spingerli nell’oblio. Appena capisco, corro nella sua direzione e lo afferro per le spalle.

- Fermo! Così le perderai per sempre! –

Rimane immobile, il braccio ancora disperatamente rivolto verso quella trappola dorata. Quando inizio a pensare che non mi abbia ascoltato, le sue dita lentamente si ritraggono nel pugno. Successivamente, il braccio inizia ad abbassarsi e, con mia grande sorpresa, tutto il corpo viene ricoperto di centinaia di crepe, come improvvisamente si fosse trasformato in vetro fragilissimo. Spaventato da quello spettacolo, abbandono la presa, ma appena lo faccio, il suo corpo esplode in migliaia di pezzi. Mi getto all’indietro, coprendomi il viso con le braccia, tuttavia i frammenti evaporano appena sfiorano la mia pelle.

- Ma che…? –

Alzo lo sguardo dove prima Evelyn e Takara giocavano insieme e vedo una città, o meglio, il dettaglio di una città. Un antico castello dell’epoca feudale wutaniana spicca su un fiume placido, largo, cavalcato da centinaia di ponti multicolori; i quali collegano l’alta costruzione al resto dell’agglomerato. E’ un dettaglio, tuttavia, che attira la mia attenzione, un cartello stradale, su cui sono scritte delle indicazioni. La prima riga è incomprensibile, poiché è scritto con gli ideogrammi, ma la seconda…

 

Castello di Yaido

 

Sorrido e mi alzo, correndo verso l’altro lato del corridoio. Prima di passare la soglia mi volto un’ultima volta. Il mio sguardo viene accolto da una coppia di smeraldi, in cui Lifestream e mako si mescolano in un vortice d’armonia perfetta. Rimango immobile ad osservare quegli occhi unici e una stilettata mi colpisce direttamente il cuore, appena la consapevolezza mi fa realizzare che la prossima volta che li vedrò saranno svuotati della loro bellezza.

 

Davvero avrò questo coraggio?

 

Con la pesantezza nell’animo attraverso la soglia e il freddo mi colpisce con la forza di un maglio. Tutti i miei sensi vengono violentati dalla dura realtà della bufera, tanto da soprassalire così rudemente da cogliere del tutto impreparato Vincent, il quale mi libera dalla sua stretta. Barcollo all’indietro, rischiando di cadere, ma il pistolero ha i riflessi pronti e mi afferra per la giacca, tirandomi a sé. Mi ancoro alle sue braccia e lo guardo negli occhi.

- So dove dobbiamo andare. –

Lui mi guarda preoccupato e capisco che devo avere un aspetto folle. In effetti, è così che mi sento. Avverto anche un’energia incredibile scorrere nelle mie membra, una forza che credevo di aver perduto da quando ho messo le mani su quel maledetto diario.

Vincent apre la bocca per ribattere, ma il rumore di un motore in lontananza attira la mia attenzione.

- Andiamo! –

Lo trascino per il braccio e gli faccio da guida attraverso la foresta con una sicurezza tale da sembrare che ci abbia sempre vissuto tra questi abeti. In realtà, l’udito, incredibilmente fine, mi sta portando verso la strada principale, dove troveremo il nostro passaggio, volente o dolente, verso la nostra prossima meta: Yaido, Wutai.

 

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10 Dicembre XXXX

 

La guerra è finita

Quattro, semplici parole, capaci di accendere l’ardore nel cuore di questo mondo deprivato della speranza. La gente si è riversata nelle strade, urlando e stridendo, festeggiando in grande stile. Le città vengono addobbate con festoni e manifesti; i cieli abbagliati da fuochi d’artificio e parate aeree; gli strilloni annunciano la grande notizia a gran voce, così che tutti, perfino la più bassa e misera feccia di ignoranti esiliati, possa essere messi al corrente dei fatti. I telegiornali trasmettono immagini delle principali città in festa, accompagnate da litanie di inni patriottici. Mogli, fidanzate, madri e figlie affollano le stazioni, gli aeroporti, le piazze per accogliere in prima linea il ritorno dei propri uomini. Tanti abbracci, tanti baci passionali, tante lacrime. Sia felici che tristi. Coloro le cui aspettative sono state infrante, danno vita a una loro celebrazione, accendendo dei ceri; riversandosi nei cimiteri militari; o ricercando l’ultima vana speranza presso le liste dei dispersi. Famiglie spezzate o, addirittura, estinte o sull’orlo di essa, piangono nelle strade, accanto a coloro che festeggiano. E’ un caleidoscopio di emozioni, confuso, catastroficamente pazzesco. Non c’è logica, non c’è ordine, non c’è disciplina. E’ incredibile quanto la pace assomigli alla guerra. La sua folle frenesia, tuttavia, incontra in me solo gelida indifferenza, perché la guerra non è finita. Oh no. E’ appena iniziata.

Wutai non era altro che un riscaldamento, il cerino che ha dato inizio all’incendio. Qualcosa, dalle ceneri di quella guerra, è emerso: una verità scomoda e oscena si è rivelata in tutta la sua crudezza. Ed è la ricerca di questa verità che mi attanaglia le viscere, m’impedisce di dormire, di mangiare, di… vivere. Una parte di me darebbe di tutto per gioire della sua luce, ma dall’altra ne è terrorizzata; tanto che invidio e temo quei tanti che ne sono stati scottati. Osservo le loro piume nere e bianche scendere dal cielo plumbeo, orripilato e affascinato nello stesso tempo.

Quelle ali…

Saranno angeli o demoni coloro che solcano i cieli?

Il terrore da queste creature disseminato verrebbe da ricondurlo ai seguaci del Demonio, ma… non era usanza dei demoni di fingersi angeli prima di essere scacciati dal Paradiso? E se c’è un Paradiso su questa terra, allora dov’è questo luogo? E se è il contrario? Essi cercano di riportare questo mondo infernale ai fasti di un tempo, prima che il Lifestream venisse corrotto dalla mano dell’uomo e succhiato via dalle viscere del Pianeta?

E’ questo che state cercando di fare, Genesis, Angeal?

Amici miei… perché mi avete lasciato indietro? Perché non avete condiviso le vostre conoscenze con me? Perché non volete introdurmi al culto della vostra Dea?

Perché non posso avere delle ali come le vostre?

Perché non mi avete liberato?

Genesis è convinto che dei tre amici io sono colui che rimane e diviene Eroe. No, si sbaglia. Io sono colui che è intrappolato, colui che cerca risposte, ma non fa altro che scontrarsi contro il silenzio e l’ostinazione. Fin da quando ero bambino. Sono sempre stato in trappola. Rinchiuso in una prigione d’immeritata gloria. Perché un uccello libero dovrebbe invidiarne uno in gabbia?

E’ per questo che non voglio affrontarvi. Non per paura, ma per evitare di spezzarvi le ali. Almeno, fino a che non capirò finalmente come ottenere le mie.

Libero.

Libero di stare con la mia famiglia, di crescere mia figlia, di amare mia moglie, di vivere una vita normale.  Avrò tutto ciò che ho sempre desiderato se scoprirò ciò che Genesis ed Angeal mi nascondono. Per questo non mi do tregua, indagando sul Progetto G ogni volta che ne ho l’occasione. Sto scoprendo un sacco di orridi segreti. Esperimenti disumani su prigionieri di guerra; donne incinte costrette a farsi iniettare energia mako direttamente nel grembo; bambini deformi; mostri. Mi sembra quasi di sentire il dolore e la sofferenza di quella gente, immobilizzata sui lettini operatori da spesse cinghie, circondata da una risma di pazzi che si divertono a staccare lembi di carne direttamente dalle ossa. E assisti alla scena inerme, incapace di muoverti, di gridare, di piangere. Preghi solo che quell’orrore abbia fine il più presto possibile e di essere rispedito nelle tua misera cameretta a leccarti le ferite; in attesa della prossima sessione di torture.

Non mi libererò mai di quegli incubi. Quanto invidio quei mostri: la loro mente è così frammentata da non ricordarsi nemmeno come si sono tramutati in ciò che sono. Non ricordano il dolore, la paura, l’umiliazione. L’unica emozione a loro rimasta è la rabbia. Una rabbia così incontrollabile capace di offuscare ogni altro istinto che desume dall’uccidere qualunque cosa capiti tra le mani. Quella stessa rabbia che mi brucia dentro da quando ho memoria, che mi ha portato a compiere i più orribili crimini, quella che devasterebbe il mondo intero se la lasciassi andare. Mi viene da assomigliarla a un oceano ribollente, come le viscere di un vulcano pronto ad esplodere da un momento all’altro. Da giovane quel vulcano era in piena attività. E con la pubertà le cose andarono anche peggio. Mi era impossibile perfino prevedere le avvisaglie di un’eruzione. Scattavo e basta, ogni senso annebbiato, ogni pietà zittita. Mi risvegliavo nella camera d’isolamento, manette attorno ai polsi e alle caviglie, nocche sbucciate, graffi da difesa sulle braccia e mani e divisa sporche di sangue non mio. Non ricordavo nulla di ciò che era accaduto, pregavo solo di non aver ucciso nessuno. Rimanevo per ore a fare mente locale, senza risultato, contorcendomi l’animo con il dubbio e la colpa. Ciò non faceva altro che aumentare la pressione dentro alle viscere del vulcano. Una volta, una guardia più audace del solito iniziò a deridermi, a scimmiottarmi. Non rimembro esattamente il motivo di tanto astio, ma penso che la ragione del suo sdegno fosse da ricollegarsi al fatto di aver ridotto un suo commilitone tra la vita e la morte. Ne aveva tutte le ragioni, ma, a giudicare dall’amico, probabilmente anch’io avevo avuto le mie ottime motivazioni per averlo ridotto nello stato in cui verteva. Un’idiota che non meritava di vivere, probabilmente pensai. Ricordo che spezzai le catene e mi gettai sulla parete di vetro anti sfondamento, menando pugni sulla superficie con tutta la forza che avevo. Le due guardie si allontanarono e rimasero a guardarmi stupite, mentre cercavo di sfondare quel vetro, in teoria, indissolubile. Ma fu quando le prime crepe iniziarono ad allargarsi sulla ialina superficie che il loro stupore si trasformò in puro terrore. L’audace mi puntò il fucile contro, come ammonimento; mentre l’altro scappò a gambe levate. Potevo vedere l’arma tremare nelle sue mani, mentre urlava minacce e insulti. Quando sfondai, sparò, centrandomi la spalla destra, ma non servì a molto. Sparò altri colpi, ma il panico ormai si era impossessato della sua mira e i proiettili andavano ovunque, tranne che su di me. Lo avrei ucciso, probabilmente, se un SOLDIER di Prima Classe non intervenne per fermarmi. Lanciò tre incantesimi Morfeo al massimo livello prima di perdere il controllo del mio corpo. Nella confusione del dormiveglia, lo vidi torreggiare su di me. Ricordo distintamente il suo viso. I lineamenti erano decisi, rappresi in un’espressione d’impassibile severità. Gli donavano un’aria autoritaria; inoltre i tratti palesemente occidentali sprigionavano una straordinaria aura di rispetto, con il quale si era guadagnato la fiducia e la lealtà del popolo e dei media. Quell’uomo era un eroe, uno dei primi eroi che MIdgar aveva decretato da quando il Reparto era nato. Non l’avevo mai incontrato prima di quel momento, ma all’epoca poco m’importava del rispetto e della disciplina: avevo i miei demoni da combattere, demoni che nessuno riusciva a fronteggiare. Le punizioni corporali di Hojo non facevano altro che peggiorare la situazione. Egli non faceva altro che ripetermi che se non mi fossi deciso ad imparare a controllarmi, il Presidente avrebbe preso misure drastiche nei miei confronti. E tanti saluti ai sogni di gloria del vecchio. L’idea mi divertiva e mi diverte tutt’ora, devo ammettere. In fondo, a me importava ben poco del mio futuro: forse una morte prematura era la più rosea delle opzioni. Me lo meritavo, dopotutto. Ero un fallimento. Hojo non faceva altro che ripeterlo. Avevo capito che avevo perduto l’amore di mio padre, fermo restando che l’abbia mai avuto. Era questa frustrazione, mista alla paura di uscire perdente dalla battaglia contro la Bestia che mi si agitava dentro, la causa di quell’escalation sempre più violenta di aggressioni e scatti d’ira. I dottori lo avevano definito ‘ sistema di difesa’, il mio modo di reagire alle difficoltà. Era l’unica spiegazione che erano riusciti a darmi. Per il resto e per chiunque altro rimasi un enigma irrisolvibile. Poi, arrivò quel SOLDIER, il quale cambiò per sempre la mia vita, definendo, nel bene e nel male, l’uomo che sono ora. Egli fu uno dei pochi esseri umani capaci di vedere il tormento provocato da questa maledizione. M’insegnò a controllarla, a conviverci, ad accettarla. Per la prima volta in vita mia, mi sentii in pace con me stesso. E credetti di aver trovato un valido sostituto del Professore. Un ‘padre’ da rendere fiero. Fino a che non rivelò per ciò che era in realtà: una spia al soldo di Wutai. Non saprei dire se il suo coinvolgimento in quella storia fosse già in corso quando c’incontrammo, ma, una cosa è certa: non c’era rimpianto nei suoi occhi quando mi infilò la Masamune tra le budella.

Non gli ho mai chiesto il motivo delle sue azioni.

Non gli ho mai chiesto il motivo di tanto odio nei miei confronti.

Non gli ho mai chiesto nemmeno se gli fosse mai importato qualcosa di me.

Non gli chiesi nulla. E lui non mi disse nulla. Combattemmo e basta.

Un combattimento da cui sapevo che non ne sarei uscito vincitore. Mi aveva già sconfitto a Corel, quando mi marchiò. Quel giorno, mancò di uccidermi nel corpo, ma uccise la mia mente. Tutto quello che ero riuscito a raggiungere grazie ai suoi insegnamenti, si spezzò in migliaia di pezzi. La mia psiche non era mai stata così frammentaria e imprevedibile; tuttavia molto più viscida e strisciante che in passato, poiché ben celata da una spessa coltre di calma e disciplina. Forse non è completamente colpa di quell’uomo, perché, in fondo, io non sono mai guarito dalla mia follia. Il controllo è un illusione. E sono certo che io non riuscirò mai ad assumerlo. La mia vita è troppo instabile.

Troppi lutti, troppe perdite, troppi fallimenti costellano la mia esistenza. La Shinra tanto mi ha dato… e troppo mi sta togliendo. Genesis ed Angeal, gli unici amici che abbia mai avuto, si sono trasformati nei miei peggiori nemici. La Compagnia vuole che li affronti e porti le loro teste su un piatto d’argento.

Non ne ho la forza.

Forse fino a qualche anno fa non ci avrei pensato due volte ad eseguire questa sentenza spietata, ma ora… La vita ha un valore diverso ai miei occhi. Il tutto grazie a LEI. Il mio angelo è un’isola di calma nella mia mente tumultuosa. Se dovessi perderla… credo che impazzirei. Lei mi ha rapito il cuore, trafitto l’anima, riempito la mente, posseduto il corpo… perderei me stesso. A quel punto, non ci sarebbe più nessuno a frapporsi tra il mondo e la Bestia.

Spero che sia al sicuro laggiù tra le montagne. Tseng dice che i mostri hanno invaso buona parte di Wutai, ma si concentrano soprattutto attorno alle grandi città o nelle zone ad alta concentrazione di mako, dove sono stati costruiti i reattori.

“Onijin è un villaggio sperduto, non c’è nulla che possa interessare a Genesis o a chiunque altro. Sono al sicuro, vedrai.”

Vorrei credergli, ma forse la mia preoccupazione è solo il riflesso del desiderio di riabbracciarle. Chissà quanto è cresciuta Takara in questi due mesi. Desidero così tanto vederla, coccolarla, guardarla negli occhi, accarezzarle la pelle, avvertire le sue manine minuscole stringere il mio dito.

Mi manca il suo sorriso. Il LORO sorriso. Soprattutto quello che nasceva sulle labbra di entrambe quando Evelyn allattava Takara. Era uno spettacolo meraviglioso, capace di annichilirmi con la sua straordinaria potenza. Mi pareva quasi di vedere l’energia fluire da un corpo all’altro, come se mia moglie stesse sacrificando parte della sua vita per darla a nostra figlia. E ciò la riempiva d’orgoglio, come se non avesse desiderato altro che quel gesto per tutta la sua esistenza. 

La Madre è vita.

Fu davanti a quello spettacolo che realizzai il motivo delle mie tribolazioni. Mia madre è morta quando sono venuto al mondo. Le ho strappato l’energia vitale in un colpo solo, senza darle nemmeno il tempo di vedermi per la prima volta, senza darle il tempo di ascoltare la mia voce. Fin dal principio non sono stato altro che un egoista, così attaccato alla sopravvivenza e così difficile da abbattere. Eppure, quante volte ho cercato di bruciare quella vita immeritata, ingloriosa e vuota? E con che diritto? Questa vita non mi appartiene, perciò avrei dovuto viverla come avrebbe fatto lei, invece di sprecarla per accontentare le visioni di un vecchio pazzo.

L’unica azione buona che ho compiuto è stata crearmi una famiglia.

Creare…

E’ un termine così strano. La mia sola presenza è sempre stata sinonimo di distruzione e morte. Se guardo indietro non vedo altro che terre devastate, sommerse sotto metri di cenere su cui cataste insanguinate di corpi putrefatti si elevano verso un cielo nero come la pece. Non pensavo che da questo corpo corrotto dal peccato potesse nascere qualcosa di così puro e innocente come Takara. Forse, come spesso Evelyn ribadisce, essa potrebbe rappresentare il mio vero Io; chi sarei se non avessi intrapreso la carriera di SOLDIER. Se la mia vita fosse stata differente…

Quand’ero bambino immaginavo spesso a un’alternativa all’oscura e terrificante realtà in cui ero costretto a vivere ogni giorno di quell’infanzia maledetta. Certe notti sgusciavo fuori dalla mia camera e mi dirigevo verso la soffitta, così da allontanarmi il più possibile dalle segrete di quella magione maledetta. Mi arrampicavo attraverso le travi e raggiungevo il lucernario, da lì uscivo sul tetto. Non ho memoria di dove fosse localizzata quella magione, ma ricordo che l’aria notturna era sempre fredda e frizzante, qualunque stagione fosse. Il cielo era così limpido da poter saggiare la meravigliosa striscia di stelle della nostra galassia. Uno spettacolo che ho visto solo un’altra volta in vita mia. Rimanevo ore sotto il cielo stellato ad osservare il brillio latteo di soli lontani, immaginandomi di solcare quegli universi infiniti e visitare quei sistemi. Per un meraviglioso attimo, mi fondevo con l’eterno mare di stelle e lì trovavo la mia pace, il mio posto. Era tra quell’eterno brillio, fatto di spettacolari nascite e catastrofiche morti, che io mi sentivo appartenere. Alla fine, mi protendevo verso il cielo, allungando la mano, nella speranza che qualcuno potesse afferrarla e portarmi via da questo pianeta. Rimanevo fermo in quella posizione per minuti interi, fino a che le membra non divenivano terribilmente pesanti. Ricordo la seconda volta che vidi quello spettacolo, da ragazzo, decisi che sarei rimasto immobile fino a che la mia richiesta di aiuto non venisse accettata. Nella mia mente non riuscivo a concepire che tra miliardi di miliardi di stelle non ci fosse nessuno disposto a venirmi a salvare. Attesi con la mano protesa per quasi un’ora; fino che il custode del telescopio di Cosmo Canyon non entrò nella stanza, costringendomi a scappare. Già allora avevo una reputazione da difendere.

Purtroppo, con l’industrializzazione del mondo, non esiste più un luogo abbastanza buio da saggiare la bellezza celeste. Non demordo, tuttavia. E’ un richiamo ancestrale, radicato in ogni cellula di me. Come se… come se io non appartenessi a questo Pianeta. Come se il mio posto fosse lassù, tra il buio infinito, a cavalcare le stelle e visitare pianeti alieni. A volte ho come la sensazione che questo Pianeta sia solo una tappa, una sorta di sosta momentanea al mio viaggio cosmico. So che è può sembrare assurdo, ma non credo si tratti solo di una sensazione. C’è un sogno che mi perseguita da quando ho memoria. Da bambino ero spaventato da quelle immagini, ma col tempo ho imparato a conviverci. E ora, con le nuove rivelazioni provenienti dal Progetto G, mi sto convincendo sempre più che non è un sogno.

Il tutto inizia con una larga panoramica di Gaia, in tutto il suo splendore. Appare come un Pianeta sano, verde, pulito. Il Lifestream scorre possente e gentile, accarezzando dolcemente gli strati più alti dell’atmosfera. Poi, l’immagine ruota, il pianeta si fa da parte, oscurandosi. Dalla sua curvatura, come eruzioni violente, emergono i raggi solari. Il campo si allarga e un agglomerato di meteoriti e fiamme e fulmini fa capolino nella visuale. Prima lentamente, ma poi sempre più rapido, quest’ammasso roccioso si appropinqua al pianeta, fino a scontrarsi con l’atmosfera. Il Flusso Vitale crepita e s’inviluppa lungo il meteorite, cercando di bloccarne la devastante caduta. A quel punto, io volo sopra il Flusso Vitale, ascoltando l’agghiacciante urlo di migliaia di vittime di quell’apocalittico disastro. Non mi turba. Sono del tutto estraneo a ciò che accade sul suolo di quel pianeta, estraneo, alieno. Tutta la mia attenzione è rivolta verso la figura incastonata fino alla vita all’apice del meteorite. Non riesco a distinguere nessuna fattezza in particolare, ma so che si tratta di una creatura dalle caratteristiche femminili. Una donna dai lunghi capelli di luce. Flessuosa e morbida, quella figura brilla di una scintillante luce argentata, come l’infinita bellezza delle stelle da cui ella proviene. Il Lifestream inizia a scorrere lungo il suo corpo, intrappolandola in una morsa soffocante. Prima di venire completamente inglobata, la creatura allarga le braccia e due enormi ali si dispiegano in tutta la loro maestosità. Ma è un attimo appena, dal momento che la sua luce diviene insopportabilmente luminosa. L’unica cosa che rimane è un urlo disperato di dolore. Poi, mi sveglio.

Non sono in grado di distinguere se si tratta di una premonizione o di una memoria, ma quella sagoma è così famigliare. Esattamente come la voce. Entrambe mi appartengono, insediate nelle profondità della mia memoria. Forse colei che vedo è mia madre. Un angelo di luce inglobato dalle crudeli spire di questo Pianeta. Forse davvero una parte di me non appartiene a questo mondo. Ciò spiegherebbe il motivo della mia unicità, del fatto che io sia così definitamente diverso da qualunque abitante di questo mondo. Forse quelle pulsioni di distruzione non sono risultato di una latente follia ereditata da mio padre, ma un eco primordiale della mia missione.

Distruggere il mondo…

No.

Ferirlo, affinché il Lifestream possa guarirlo dalla piaga che lo sta uccidendo.

Ma è davvero possibile?

Una leggenda Cetra ne conferma la possibilità, ma racconta anche che ciò provocherà una devastazione senza pari. A quel punto, si aprirebbero le porte per la Terra Promessa. Ed è ciò che la Shinra vuole. Ravanando nel marcio lurido archivio di questa società ho appreso che gli interessi della Compagnia ricadono su antiche leggende, su cui sperano di trovare fondi di verità. Motivo per il quale hanno eseguito esperimenti su Ifalna e tengono Aerith sotto sorveglianza. I Cetra sono in possesso di conoscenze che agli umani non è possibile accedere e la mia giovane amica ne è la sola detentrice, ma, sfortunatamente, ella stessa non ne è al corrente, poiché sua madre è morta prima di istruirla. Ciò che la piccola Aerith sa è grazie al suo innato istinto. Le ricerche del Professore vertevano su questo argomento, tuttavia ogni loro traccia è andata perduta con la sua morte. A quanto pare è riuscito a distruggere i risultati prima che cadessero in mani sbagliate. Mi scappa un sorriso al pensiero che Hojo è rimasto gabbato ancora una volta dalla scaltrezza del Professore. Se solo avesse combattuto così caparbiamente anche per me…

Per quanto mi volesse bene, nessun uomo vorrebbe un figlio così... mostruoso. A parte il vecchio rachitico, ma solo perché lui è il più bestiale di tutti i padri.

 

Salve!!! Finalmente sono tornata! Anche se sono già ripartita XD. Eh sì, dopo l’intensa esperienza alle Falkland, la quale non solo mi ha impedito di anche solo PENSARE alla fiction, ha anche affossato un po’ la mia voglia/fantasia, sono partita alla volta del Wales, New Quay per la precisione. Motivo sempre lo stesso: delfini <3 <3 <3. Ora ho mooooooooolto più tempo libero, è praticamente una vacanza, solo 5 ore al giorno, al caldo, un tetto sopra la testa, capi molto più comprensivi e gentili. Anche se devo essere sincera: l’adrenalina scatenata dal fatto di rischiare la mia vita ogni giorno per sei mesi un po’ mi manca. Un po’, eh… Ma se questo vuol dire lavorare dalle  13 alle 14 ore al giorno, con mezza giornata di riposo a settimana ed essere tratta a pesci in faccia per ogni minima cosa, anche no, grazie. Cmq, ritorniamo a noi. Actually, all’inferno di ghiaccio effettivamente ho avuto tempo di buttare giù due righe, ma sono scritte in un modo che dovrei rielaborare, però diciamo che mi hanno permesso di definire meglio la linea temporale e gli eventi futuri. Il vero problema di questo capitolo è che è un dannato, ma necessario filler. E sappiamo tutti che effetto hanno questi filler sulla voglia di scrivere. Avrei voluto pubblicare qualcosa appena tornata, ma sfortunatamente tutti i miei amici/parenti/fidanzato volevano vedermi e, voilà, Marzo era già finito. Poi ad Aprile ho iniziato a scrivere qualcosina, ma poi è arrivato il Galles e ho dovuto posticipare ancora. Ma ora finalmente ce l’ho fatta!

Con questo ho cambiato un po’ l’ordine di apparizione dei personaggi, a parte il nostro Sephiruccio, perché il meglio va tenuto sempre per ultimo XD. Su Cloud non ho voluto troppo soffermarmi sul lato psicologico, perché, per quanto pazzo, la sua follia è ormai una costante. Però questo capitolo è importante perché ci dice dove Takara dovrebbe trovarsi e come è fatta (per questo ho messo la parte principale di Evelyn a metà). Scommetto che non vi aspettavate i capelli bruni, ma farli argentati sarebbe stato 1 troppo scontato e io odio essere mainstream e 2 è più facile per me legittimare il fatto che nessuno l’abbia mai trovata finora. Inoltre, vediamo se qualcuno indovina in anticipo a chi penso di farla assomigliare la piccola XD. Magari no spoiler e mandatemelo via MP, please.

Con Sephiroth, invece, non ho voluto troppo soffermarmi sulla storia, ma sui suoi ricordi, emozioni e illazioni. Siamo in pieno CC, sappiamo che Seph ed Angeal avevano litigato (motivo per cui, secondo me, Angeal guarda malissimo l’ologramma di Sephiroth all’inizio del CC) e che la guerra in Wutai è finita. Diciamo che è così che intendo raccontare quella storia: qualche riferimento giusto per capire a che punto si è nel gioco, ma per il resto tutta farina del mio sacco. In fondo, non sono qua per raccontare una cronaca del CC. Per quello c’è Youtube XD.

Bon, i commenti sono quasi più lunghi del cap stesso (lunghezza standard, tra l’altro), quindi finisco il mio sproloquio!

 

Alla prossima!

 

Besos

   
 
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