Il sapore del sangue marcio mi ottunde il
gusto.
Quella bestia mi schiaccia col suo peso,
impedendomi con i suoi artigli di sfuggire.
Cerco di urlare, invano.
In fondo, come potrei?
Non
riesco
nemmeno a respirare.
Non mi arrendo, tuttavia. So cosa vuole e
non lo avrà tanto facilmente.
Gli infliggo altro dolore e stavolta sono
libera.
Una libertà illusoria.
Non riesco ad assaporarla poiché la mia
bocca avverte un solo terrificante sapore.
Un solo veloce momento di lucidità,
prima
che la mente venga ottusa dal dolore.
Quando tocco il fondo dell’abisso, ormai
non
credo di essere nemmeno più viva.
Nel mio cuore spezzato, tuttavia, un
pensiero continua a ferirmi più della morte.
Il mio
bambino…
Non
smetto
di guardare il ritratto di Takara. Non so ben dire se stia
corrispondendo i
desideri di un padre costretto a veder crescere la propria figlia da
lontano,
ma fatto sta che continuo a chiedermi che aspetto possa avere.
Sephiroth mi sta
affollando la mente con stralci di ricordi riguardanti la sua bambina,
ma non
riesco ben mettere a fuoco il suo aspetto, dal momento che sono
più che altro i
sensi e le sensazioni a farla da padrone. Appare confuso. Combattuto.
Sembra
quasi che la sua natura bestiale si stia ribellando contro un
sentimento troppo
umano da sopportare, ma irreprimibile come tale. Inoltre, non avverto
altro che
colpa. Colpa per non essere stato il padre che lei meritava. Colpa per
averla
messa in pericolo con le sue azioni riprovevoli. Colpa per averla
dimenticata.
Senza
rendermi conto una lacrima abbandona il mio occhio sinistro: una
piccola
manifestazione dello sconfinato dolore che alberga in quel cuore colmo
di
rimpianto. Sospiro e mi adagio contro la parete, fissando il soffitto
bianco.
Improvvisamente, un pensiero spazza via ogni barlume di
pietà, lasciando spazio
solo al risentimento. Mi asciugo la lacrima con stizza e mi rivolgo
alla stanza
vuota.
- Why pretend
you sad? –
[Perché
fingi di essere triste?
Sephiroth, FFVII: ACC]
Mi
guardo
intorno, come se LUI fosse lì, appostato dietro alle ombre
della notte. Mi
alzo, spavaldo, pronto a combattere contro qualunque cosa possa uscire
da
quegli abissi multiforma. Mi avvio verso il centro della stanza,
guardingo.
L’attesa è lunga, ma so di non aver parlato al
vento.
-
Lo so che
ci sei. Sono parte di te, ricordi? –
La
temperatura sembra essere calata di colpo. Un brivido mi trapassa da
parte a
parte. Non saprei dire se di aspettativa o furore. Forse entrambe.
-
Non hai
pensato a ciò che la tua vendetta avrebbe portato a te
stesso? Non hai pensato
alla tua casa quando hai dato fuoco all’intero villaggio? O a
tua moglie quando
hai ucciso mia madre? –
Avverto
le
pareti crepitare, gemere, come se una forza invisibile scorra tra le
intercapedini, similmente a un corso di sangue ribollente
d’ira.
Inconsciamente, le mie labbra si piegano all’insù,
mostrando i denti,
delineando così un sorriso maligno.
-
Non hai
pensato a tua figlia mentre uccidevi tutti quei bambini? -
Le
ombre si
animano, prendono consistenza e si protendono nella mia direzione.
Assumono la
forma di lunghe e scheletriche dita artigliate. Fa dannatamente freddo.
Dalla
mia bocca escono nuvolette di condensa. Gli artigli mi toccano. Sono
mortalmente freddi, tanto ferirmi la pelle con il loro gelo. Tuttavia,
non ho
paura. Che faccia di me tutto quello che vuole, in fondo non
m’importa nulla.
Non ho niente da
perdere.
Appena
formulo quel pensiero, le ombre si ritirano come se scottate, lasciando
che
l’accomodante luce lunare rischiari l’interno della
stanza. Mi guardo attorno,
confuso, spiando all’interno delle ombre; ma tutto sembra
essere tornato alla
normalità. Poi, realizzo. Chiudo gli occhi e rilasso i
muscoli.
-
Non avevi
nulla da perdere… Credevi che tua figlia fosse morta, vero?
–
Nessuna
risposta, ma so che, da qualche parte nel mio inconscio, una testa ha
annuito
tristemente. Raggiungo il letto e riprendo in mano il diario, lasciato
aperto
sulla pagina del ritratto. Lo guardo con una consapevolezza
completamente
nuova.
-
Non le
avresti mai fatto del male… -
Le
mie dita
seguono le linee delicate che compongono il paffuto viso della piccola.
Mi
sembra di sentire la delicata morbidezza della sua pelle profumata
scorrere sui
miei polpastrelli. E di nuovo il dolore per poco mi soffoca. Mi rendo
conto che
questo è più reale che mai. Capisco anche
un’altra verità.
-
Tu sei
morto molto prima di dare fuoco a Nibelheim. Chi, allora, è
l’artefice di tutto
ciò? –
Alzo
la
testa di scatto e sgrano gli occhi.
Ma
certo…
Jenova.
All you are,
it’s an empy puppet.
[Tutto
ciò che sei, è una vuota
marionetta, Sephiroth FFVII:ACC]
-
Dove credi
di andare? –
La
voce
calma di Vincent rimbomba nell’oscuro corridoio, bloccandomi
sul posto, oltre
che a farmi prendere un colpo. Ma come fa ad essere così
silenzioso?
-
Devi
smetterla di apparirmi alle spalle quando meno me lo aspetto.
–
Mi
volto
truce, ma il mortale viso del pistolero rimane impassibile, come una
statua di
cera. Egli si avvia nella mia direzione, emettendo solo un flebilissimo
fruscio
di vesti.
-
Non hai
risposto alla mia domanda. –
Vincent
si
eleva di fronte a me, le braccia incrociate al petto. Il suo viso ha
assunto
un’espressione seria, ma non greve o minacciosa…
un’espressione strana, molto
simile a quella assunta da un padre che ha colto il figlio in fallo. E
mi rendo
conto solo ora della leggera sfumatura di preoccupazione nella sua
voce. Mi
sento piccolissimo in confronto a quella figura possente e autoritaria.
Stranamente, non me la sento di mentire.
-
Me ne sto
andando. Rimanere qua non ci aiuta a trovare Takara, Vincent.
–
Il
pistolero
scioglie la morsa delle sue braccia e le lascia cadere lungo i fianchi,
senza
staccare lo sguardo dal mio. Non dice nulla, ma posso vedere
un’intricata e
complessa rete di ragionamenti nei suoi occhi. Ogni volta che menziono
la sua
nipotina, mi sembra quasi vedere il suo cuore di Protomateria
illuminarsi. Il
desiderio di conoscerla è così forte che posso
quasi avvertirlo esplodere
nell’aria. In questi momenti mi è permesso vedere
il vero Vincent Valentine, il
giovane Turk innamorato di una fragile e bellissima donna. Un uomo
immortale
che ha sofferto ogni pena infliggibile a un essere umano. Il passionale
ragazzo
trascinato da eventi più grandi di lui e affogato per via
della passione.
L’uomo celato dietro alla bestia in rosso. Tuttavia,
è un attimo, un assaggio
appena accennato, siccome la bestia, calcolatrice e fredda, non ama
essere
messa da parte.
-
Non sei
ancora abbastanza in forze per affrontare un viaggio così
lungo. E come pensi
di cavartela se dovessimo incontrare Genesis? Non sei nelle condizioni
di
combattere. –
Avverto
un
profondo senso di sconforto, ma se da parte mia o di Sephiroth non
saprei
dirlo, ciononostante non mi lascio abbattere e lascio che sia la calma
a
ribattere alle sensate opposizioni di Vincent.
-
E’ vero.
Sono distrutto, sia mentalmente che fisicamente. Non ho forze nemmeno
per stare
in piedi, come posso pretendere di combattere contro un ex-SOLDIER di
Prima
Classe? Eppure, sono l’unico che può portare a
termine questo compito. E’ per
questo che mi hanno scelto. Perché nonostante tutto il
dolore inflitto io
continuo ad andare avanti. -, mi appoggio alla parete con una mano,
mentre con
l’altra indico un immaginario punto lontano, -
Laggiù, da qualche parte, c’è la
promessa di un mondo migliore, un Dono divino che non può
andare sprecato. E io
non permetterò che lo sia, non finché
avrò fiato in corpo! –, il furore delle
mie parole sfuma pian piano, mentre le forze tornano a meno, ma non la
mia
determinazione, - Ti chiederai perché continuo imperterrito
a inseguire questa
missione, nonostante è palese che probabilmente non ne
vedrò l’epilogo.
Sinceramente, non lo so nemmeno io, però… -, tiro
fuori il diario e ne osservo
la copertina rovinata, - I peccati vanno espiati. Forse solo
così si può
ottenere la pace. –
Alzo
lo
sguardo verso Vincent e vedo i suoi occhi essersi fatti cupi, fissi sul
diario
del figlio. Quel figlio che avrebbe tanto voluto pretendere come suo.
Sospira.
Vedo la sua mano allungarsi verso la colonna del libro. Le dita
guantate
stirarsi timide verso la pelle nera, tremanti, spaventate. Il suo viso
è
l’espressione del puro tormento, di una colpa troppo grande
per essere espiata;
eppure solo quel minuscolo gesto d’amore represso potrebbe
alleviare. Teme il
confronto, tradito dal respiro pesante e affannoso. Davvero tuo figlio
vuole la
tua pietà? Tu, che non sei stato in grado di proteggerlo
quando più aveva
bisogno? La risposta, per Vincent, è palese. La sua mano
crolla accanto al
fianco, come se scottata, celandosi dietro alla sua prigione rossa.
-
Non è mai
troppo tardi per chiedere perdono, Vincent. –
Le
labbra
pallide si sollevano in un mesto sorriso.
-
Spero che
tu abbia ragione… -
Le
appuntite
cime degli abeti si elevano nel cielo bluastro come tante lance scure,
in
protezione dei segreti celati nel cuore della foresta. Il Lifestream
scorre
molto vicino alla superficie, tanto che, talvolta, è
possibile imbattersi in
sue emanazioni, le quali, come centinaia di lucciole verdi danzano
nell’aria
gelida e pesante dell’abetaia, dissipando le inquietanti
ombre della notte.
Esse rischiarano la nostra fuga, testimoni silenti e scintillanti della
disperata rincorsa al perdono. Fa freddo e il mio corpo debilitato
fatica ad
avanzare speditamente. Incespico nei miei stessi passi, ingarbugliati
dall’intricata rete di felci rappresentanti il sottobosco,
celati da un sottile
strato di neve. Il vento ulula tra gli enormi tronchi degli alberi,
rendendo
l’atmosfera più inquietante di quanto non lo sia
già. Non posso fare a meno di
notare luci allarmanti osservarci nell’ombra.
Mostri… o solo la mia
immaginazione? Un generale senso di nausea e spossatezza mi stronca,
costringendomi ad appoggiarmi contro un tronco, arrestando la mia
corsa. Le
gambe non reggono e finisco ginocchia a terra. Il cuore batte
forsennato nel
petto e l’aria gelida mi brucia nei polmoni, rendendo ogni
respiro
un’accoltellata lungo la faringe. Cerco di calmarmi e
stroncare il fiatone, ma
non faccio altro che ottenere l’effetto contrario. La carenza di ossigeno
inizia a dare i suoi
effetti.
Mi
gira la
testa.
Il
mondo si
fa confuso.
Forse
ho
preteso davvero troppo dal mio fisico…
La pioggia scroscia ininterrottamente da
stamattina, senza accennare di smettere. E’ straziante
rimanere chiusa in casa
in questa stanza vuota, maneggiando vestiti che dovrebbero essere
indossati.
Invece, sono qui, freddi e inermi nelle mie mani, in attesa di essere
riposti
ordinatamente nell’altrettanto triste e gelido ripostiglio.
Sospiro sconsolata,
mentre arrotolo un obi, stirandolo per bene in ogni sua parte. Non
posso fare a
meno di notare che è lo stesso obi che è stato
indossato per una cerimonia
molto importante. Senza nemmeno pensarci, la mia mano abbandona la
stoffa e va
sfiorare qualcosa più consistente appeso da una catena al
mio collo. Un anello.
Come la cintura, esso non mi appartiene ed è freddo, anche
se non lo dovrebbe
essere. La faccio girare tra le mie dita. E’ così
grande… Come il suo palmo,
ampio abbastanza da chiudere entrambe le mie mani nella sua morsa. Una
morsa
gentile e delicata, invero. Come le carezze che è capace di
disseminare lungo
tutto il mio corpo. Mi sembra quasi di sentirle, cingermi al sicuro,
nella sua
rassicurante stretta. Sorrido, certa della loro reale esistenza;
finché un
boato mi risveglia. Apro gli occhi e mi accorgo che le mani che tanto
stavo
amando erano le mie. Sospiro e lascio cadere le braccia sul grembo.
Alzo lo
sguardo verso la finestra. Le gocce di pioggia collidono contro il
vetro e
scendono soavi lungo di esso. Le loro ombre si proiettano sulla mia
figura.
Distolgo lo sguardo. Il cielo piange per me… Ormai, non ho
più la forza di fare
nemmeno quello. Dico a me stessa che, in fondo, non
c’è motivo. Guardo la fede
nuziale, risplendere nella sua fulgida semplicità.
Ha
promesso
di tornare, mi dico.
Lui torna sempre, in modo o nell’altro.
Non
è capace di lasciarmi andare.
Fino
a che
morte non ci separi.
Un brivido mi scorre lungo la schiena e mi
costringe a distogliere lo sguardo dall’anello. Prendo un
profondo respiro ed
elimino quell’orrido pensiero così velocemente
come è venuto.
E’ una possibilità a cui non
devo nemmeno
ponderare.
Mi rimetto al lavoro per distrarmi, quando avverto
una presenza alle mie spalle. Mi volto. C’è Natsu
in piedi sull’uscio della
porta che mi osserva con un gran sorriso. Non ne comprendo il motivo,
finché
non abbasso lo sguardo verso il basso. Rimango a bocca aperta, appena
vedo mia
figlia… in piedi, senza aiuto. Avverto una profonda fierezza
nei confronti
della mia piccola principessa, la quale mi guarda tutta gongolante,
sfoggiando
il suo sorriso più bello. Incantata da quell’arco,
sulla mia bocca se ne forma
un altro altrettanto largo, mentre mi giro completamente e protendo le
braccia
nella sua direzione.
- Vieni, tesoro. Vieni dalla mamma. –
La piccola allunga le manine, cercando di afferrare
le mie dalla sua posizione precaria. La vedo assumere
un’espressione confusa e
un po’ spaventata all’idea di non riuscire a
raggiungermi.
- Su, Taky. Puoi farcela. –
Il tono rassicurante e il desiderio di
toccarmi sconfiggono la sua iniziale perplessità e, con
grande fatica, Takara
muove due piccoli, incerti passi; quel tanto che basta
perché le nostre dita
possano toccarsi. Io sorrido appena avverto la sua pelle delicata sulla
mia e,
automaticamente, le mie mani si vanno a chiudere sulle sue,
accompagnando la
sua caduta verso il mio corpo accogliente. L’abbraccio e la
stringo forte a me.
- Bravissima, amore! –
La bacio e la sollevo fin sopra la mia testa,
come piace a lei. Takara inizia a ridere, fiera di se stessa. I suoi
occhietti
di giada brillano di gioia per il grande traguardo appena raggiunto e
so già
che la sua scarmigliata testolina bruna sta lavorando a come
potrà usare questa
sua nuova abilità. La vedo guardarsi intorno, intenta a
riedificare la sua
concezione del mondo. Infine, i suoi occhi incrociano i miei.
- Sarà più facile raggiungere
le mamma, eh,
tesoro? –
Lei sembra capire e sfoggia un sdentato,
buffo e dolcissimo sorriso. Io rispondo di rimando e appoggio la mia
fronte
alla sua. Sospiro. Mi sento improvvisamente triste. Sollevo lo sguardo
e la
osservo. E’ tanto bella, la mia principessa. Ripasso i suoi
lineamenti
armoniosi, immaturi, ma dolci; in contrapposizione con il taglio degli
occhi
deciso ed allungato, adornato da lunghe ciglia scure. Queste ultime
proteggono
iridi dalle mille sfumature del verde, dallo smeraldo
all’acqua, troppo
peculiari per appartenere a questo Pianeta. Al contrario, i capelli
sono la
reincarnazione di questo mondo, del brillare del sole sulle fronde
degli
alberi, o della resina che cola delicatamente dalla corteccia; in un
fluente
turbinio di sfumature brune e, talvolta, dorate.
Non potrei essere più fiera di me per
aver
dato vita a una creatura così perfetta.
Oh,
Sephiroth, che meraviglioso spettacolo ti stai perdendo.
-Cloud! Alzati, forza! –
L’incoraggiamento
risuona lontano, offuscato, ma ha forza sufficiente di risvegliare
parte della
coscienza. L’altra metà è persa nel
sogno. E’ come camminare all’interno di un lungo
corridoio, i cui due capi conducono verso due tempi differenti.
Dinnanzi a me
il futuro. Freddo, ostile, oscuro; come la foresta che mi circonda,
avvolta
nella stretta morsa della tormenta notturna. Vedo il viso affilato di
Vincent,
deformato dallo sforzo, parlarmi, incitarmi a ritornare in me. Osservo
i
fiocchi di neve depositarsi copiosi sulla sua folta chioma corvina, le
cui
ciocche frustano la pelle lattea dell’ovale. Mi sta
trascinando, avverto a
malapena il suo braccio attorno alla mia vita e l’artiglio
stringermi la mano
nella sua morsa gelida.
- Cloud! Avanti, collabora. –
Lo
odo a
malapena, ma ha ragione. Devo aiutarlo. Devo tornare in me,
devo…
Faccio
appena in tempo a muovere due passi in quella direzione che
un’avvolgente
calore mi solletica la schiena, emanato da un’appagante luce
dorata.
Incuriosito, mi volto. Dinnanzi a me, avvolte dalla loro solenne
perfezione,
loro… Evelyn e Takara. Sorridono e mi guardano, ridono tra
di loro e si
coccolano, abbracciate e felici. Bellissime. I loro colori sono
sbiaditi, come
quelli di una vecchia fotografia e lì mi rendo conto di
ciò che sto guardando:
il passato. Caldo, rassicurante, luminoso.
-
Perfetto.
–
Mi
sale un
brivido gelido lungo la schiena appena odo QUELLA voce. Non faccio in
tempo a
girarmi che lo vedo sfilare alla mia destra e, lento e solenne,
sorpassarmi. Si
ferma pochi passi di distanza dinnanzi a me. Non mi degna di uno
sguardo, in
quanto è del tutto concentrato sulle due figure sbiadite in
fondo al corridoio.
Contemplo la sua figura alta e possente, rinchiusa nella sua solita
oscura
divisa; i capelli argentati scorrere fluenti lungo la schiena; gli
spallacci
segnati di mille battaglie luccicare sinistramente sulle spalle larghe.
Rimaniamo
immobili e in silenzio per secondi che sembrano
un’eternità. Vorrei ribattere
qualcosa, però, quando apro la bocca, vedo la sua mano
sinistra muoversi.
Inconsciamente, tutti i miei nervi scattano e si mettono
all’erta, pronti alla
battaglia imminente; ma nulla di tutto ciò a cui penso
accade. Lui nemmeno si è
accorto della mia presenza, probabilmente. Allunga il braccio in
direzione
delle due donne, come se volesse afferrarle. Chiude il palmo e avvicina
il
pugno a sé, poi lo apre.
Vuoto.
-
Non puoi
afferrarle. Sono solo ricordi… -
-
Sono solo
troppo lontano. –
Egli
avanza
ancora, si ferma dopo pochi passi e ripete le stesse azioni svolte in
precedenza. Una, cinque, dieci volte, ma il palmo è sempre
miseramente vuoto.
Inoltre, più lui si avvicina, più quei ricordi
sembrano precipitare ancora più
in profondità, come se fosse lui stesso a spingerli
nell’oblio. Appena capisco,
corro nella sua direzione e lo afferro per le spalle.
-
Fermo!
Così le perderai per sempre! –
Rimane
immobile, il braccio ancora disperatamente rivolto verso quella
trappola
dorata. Quando inizio a pensare che non mi abbia ascoltato, le sue dita
lentamente si ritraggono nel pugno. Successivamente, il braccio inizia
ad
abbassarsi e, con mia grande sorpresa, tutto il corpo viene ricoperto
di
centinaia di crepe, come improvvisamente si fosse trasformato in vetro
fragilissimo. Spaventato da quello spettacolo, abbandono la presa, ma
appena lo
faccio, il suo corpo esplode in migliaia di pezzi. Mi getto
all’indietro,
coprendomi il viso con le braccia, tuttavia i frammenti evaporano
appena
sfiorano la mia pelle.
-
Ma che…? –
Alzo
lo
sguardo dove prima Evelyn e Takara giocavano insieme e vedo una
città, o
meglio, il dettaglio di una città. Un antico castello
dell’epoca feudale
wutaniana spicca su un fiume placido, largo, cavalcato da centinaia di
ponti multicolori;
i quali collegano l’alta costruzione al resto
dell’agglomerato. E’ un
dettaglio, tuttavia, che attira la mia attenzione, un cartello
stradale, su cui
sono scritte delle indicazioni. La prima riga è
incomprensibile, poiché è
scritto con gli ideogrammi, ma la seconda…
Castello di Yaido
Sorrido
e mi
alzo, correndo verso l’altro lato del corridoio. Prima di
passare la soglia mi
volto un’ultima volta. Il mio sguardo viene accolto da una
coppia di smeraldi,
in cui Lifestream e mako si mescolano in un vortice d’armonia
perfetta. Rimango
immobile ad osservare quegli occhi unici e una stilettata mi colpisce
direttamente il cuore, appena la consapevolezza mi fa realizzare che la
prossima volta che li vedrò saranno svuotati della loro
bellezza.
Davvero
avrò questo
coraggio?
Con
la
pesantezza nell’animo attraverso la soglia e il freddo mi
colpisce con la forza
di un maglio. Tutti i miei sensi vengono violentati dalla dura
realtà della
bufera, tanto da soprassalire così rudemente da cogliere del
tutto impreparato
Vincent, il quale mi libera dalla sua stretta. Barcollo
all’indietro,
rischiando di cadere, ma il pistolero ha i riflessi pronti e mi afferra
per la
giacca, tirandomi a sé. Mi ancoro alle sue braccia e lo
guardo negli occhi.
-
So dove
dobbiamo andare. –
Lui
mi
guarda preoccupato e capisco che devo avere un aspetto folle. In
effetti, è
così che mi sento. Avverto anche un’energia
incredibile scorrere nelle mie
membra, una forza che credevo di aver perduto da quando ho messo le
mani su
quel maledetto diario.
Vincent
apre
la bocca per ribattere, ma il rumore di un motore in lontananza attira
la mia
attenzione.
-
Andiamo! –
Lo
trascino
per il braccio e gli faccio da guida attraverso la foresta con una
sicurezza
tale da sembrare che ci abbia sempre vissuto tra questi abeti. In
realtà,
l’udito, incredibilmente fine, mi sta portando verso la
strada principale, dove
troveremo il nostro passaggio, volente o dolente, verso la nostra
prossima
meta: Yaido, Wutai.
/////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////
10 Dicembre XXXX
La
guerra è finita
Quattro, semplici parole, capaci di
accendere l’ardore nel cuore di questo mondo deprivato della
speranza. La gente
si è riversata nelle strade, urlando e stridendo,
festeggiando in grande stile.
Le città vengono addobbate con festoni e manifesti; i cieli
abbagliati da
fuochi d’artificio e parate aeree; gli strilloni annunciano
la grande notizia a
gran voce, così che tutti, perfino la più bassa e
misera feccia di ignoranti
esiliati, possa essere messi al corrente dei fatti. I telegiornali
trasmettono
immagini delle principali città in festa, accompagnate da
litanie di inni
patriottici. Mogli, fidanzate, madri e figlie affollano le stazioni,
gli
aeroporti, le piazze per accogliere in prima linea il ritorno dei
propri
uomini. Tanti abbracci, tanti baci passionali, tante lacrime. Sia
felici che
tristi. Coloro le cui aspettative sono state infrante, danno vita a una
loro
celebrazione, accendendo dei ceri; riversandosi nei cimiteri militari;
o
ricercando l’ultima vana speranza presso le liste dei
dispersi. Famiglie
spezzate o, addirittura, estinte o sull’orlo di essa,
piangono nelle strade,
accanto a coloro che festeggiano. E’ un caleidoscopio di
emozioni, confuso,
catastroficamente pazzesco. Non c’è logica, non
c’è ordine, non c’è
disciplina.
E’ incredibile quanto la pace assomigli alla guerra. La sua
folle frenesia,
tuttavia, incontra in me solo gelida indifferenza, perché la
guerra non è
finita. Oh no. E’ appena iniziata.
Wutai non era altro che un
riscaldamento, il cerino che ha dato inizio all’incendio.
Qualcosa, dalle
ceneri di quella guerra, è emerso: una verità
scomoda e oscena si è rivelata in
tutta la sua crudezza. Ed è la ricerca di questa
verità che mi attanaglia le
viscere, m’impedisce di dormire, di mangiare, di…
vivere. Una parte di me
darebbe di tutto per gioire della sua luce, ma dall’altra ne
è terrorizzata;
tanto che invidio e temo quei tanti che ne sono stati scottati. Osservo
le loro
piume nere e bianche scendere dal cielo plumbeo, orripilato e
affascinato nello
stesso tempo.
Quelle
ali…
Saranno angeli o demoni coloro che solcano i
cieli?
Il terrore da queste creature disseminato
verrebbe da ricondurlo ai seguaci del Demonio, ma… non era
usanza dei demoni di
fingersi angeli prima di essere scacciati dal Paradiso? E se
c’è un Paradiso su
questa terra, allora dov’è questo luogo? E se
è il contrario? Essi cercano di
riportare questo mondo infernale ai fasti di un tempo, prima che il
Lifestream
venisse corrotto dalla mano dell’uomo e succhiato via dalle
viscere del
Pianeta?
E’ questo che state cercando di fare,
Genesis, Angeal?
Amici miei… perché mi avete
lasciato
indietro? Perché non avete condiviso le vostre conoscenze
con me? Perché non
volete introdurmi al culto della vostra Dea?
Perché
non posso avere delle ali come le vostre?
Perché
non mi avete liberato?
Genesis è convinto che dei tre amici io
sono
colui che rimane e diviene Eroe. No, si sbaglia. Io sono colui che
è
intrappolato, colui che cerca risposte, ma non fa altro che scontrarsi
contro
il silenzio e l’ostinazione. Fin da quando ero bambino. Sono
sempre stato in
trappola. Rinchiuso in una prigione d’immeritata gloria.
Perché un uccello
libero dovrebbe invidiarne uno in gabbia?
E’ per questo che non voglio affrontarvi.
Non per paura, ma per evitare di spezzarvi le ali. Almeno, fino a che
non
capirò finalmente come ottenere le mie.
Libero.
Libero di stare con la mia famiglia, di
crescere mia figlia, di amare mia moglie, di vivere una vita normale. Avrò tutto
ciò che ho sempre desiderato se
scoprirò ciò che Genesis ed Angeal mi nascondono.
Per questo non mi do tregua,
indagando sul Progetto G ogni volta che ne ho l’occasione.
Sto scoprendo un
sacco di orridi segreti. Esperimenti disumani su prigionieri di guerra;
donne
incinte costrette a farsi iniettare energia mako direttamente nel
grembo;
bambini deformi; mostri. Mi sembra quasi di sentire il dolore e la
sofferenza
di quella gente, immobilizzata sui lettini operatori da spesse cinghie,
circondata da una risma di pazzi che si divertono a staccare lembi di
carne
direttamente dalle ossa. E assisti alla scena inerme, incapace di
muoverti, di
gridare, di piangere. Preghi solo che quell’orrore abbia fine
il più presto
possibile e di essere rispedito nelle tua misera cameretta a leccarti
le
ferite; in attesa della prossima sessione di torture.
Non mi libererò mai di quegli incubi.
Quanto
invidio quei mostri: la loro mente è così
frammentata da non ricordarsi nemmeno
come si sono tramutati in ciò che sono. Non ricordano il
dolore, la paura,
l’umiliazione. L’unica emozione a loro rimasta
è la rabbia. Una rabbia così
incontrollabile capace di offuscare ogni altro istinto che desume
dall’uccidere
qualunque cosa capiti tra le mani. Quella stessa rabbia che mi brucia
dentro da
quando ho memoria, che mi ha portato a compiere i più
orribili crimini, quella
che devasterebbe il mondo intero se la lasciassi andare. Mi viene da
assomigliarla a un oceano ribollente, come le viscere di un vulcano
pronto ad
esplodere da un momento all’altro. Da giovane quel vulcano
era in piena attività.
E con la pubertà le cose andarono anche peggio. Mi era
impossibile perfino
prevedere le avvisaglie di un’eruzione. Scattavo e basta,
ogni senso
annebbiato, ogni pietà zittita. Mi risvegliavo nella camera
d’isolamento,
manette attorno ai polsi e alle caviglie, nocche sbucciate, graffi da
difesa
sulle braccia e mani e divisa sporche di sangue non mio. Non ricordavo
nulla di
ciò che era accaduto, pregavo solo di non aver ucciso
nessuno. Rimanevo per ore
a fare mente locale, senza risultato, contorcendomi l’animo
con il dubbio e la
colpa. Ciò non faceva altro che aumentare la pressione
dentro alle viscere del
vulcano. Una volta, una guardia più audace del solito
iniziò a deridermi, a
scimmiottarmi. Non rimembro esattamente il motivo di tanto astio, ma
penso che
la ragione del suo sdegno fosse da ricollegarsi al fatto di aver
ridotto un suo
commilitone tra la vita e la morte. Ne aveva tutte le ragioni, ma, a
giudicare
dall’amico, probabilmente anch’io avevo avuto le
mie ottime motivazioni per averlo
ridotto nello stato in cui verteva. Un’idiota che non
meritava di vivere,
probabilmente pensai. Ricordo che spezzai le catene e mi gettai sulla
parete di
vetro anti sfondamento, menando pugni sulla superficie con tutta la
forza che
avevo. Le due guardie si allontanarono e rimasero a guardarmi stupite,
mentre
cercavo di sfondare quel vetro, in teoria, indissolubile. Ma fu quando
le prime
crepe iniziarono ad allargarsi sulla ialina superficie che il loro
stupore si
trasformò in puro terrore. L’audace mi
puntò il fucile contro, come
ammonimento; mentre l’altro scappò a gambe levate.
Potevo vedere l’arma tremare
nelle sue mani, mentre urlava minacce e insulti. Quando sfondai,
sparò,
centrandomi la spalla destra, ma non servì a molto.
Sparò altri colpi, ma il
panico ormai si era impossessato della sua mira e i proiettili andavano
ovunque, tranne che su di me. Lo avrei ucciso, probabilmente, se un
SOLDIER di
Prima Classe non intervenne per fermarmi. Lanciò tre
incantesimi Morfeo al
massimo livello prima di perdere il controllo del mio corpo. Nella
confusione
del dormiveglia, lo vidi torreggiare su di me. Ricordo distintamente il
suo
viso. I lineamenti erano decisi, rappresi in un’espressione
d’impassibile
severità. Gli donavano un’aria autoritaria;
inoltre i tratti palesemente
occidentali sprigionavano una straordinaria aura di rispetto, con il
quale si
era guadagnato la fiducia e la lealtà del popolo e dei
media. Quell’uomo era un
eroe, uno dei primi eroi che MIdgar aveva decretato da quando il
Reparto era nato.
Non l’avevo mai incontrato prima di quel momento, ma
all’epoca poco m’importava
del rispetto e della disciplina: avevo i miei demoni da combattere,
demoni che
nessuno riusciva a fronteggiare. Le punizioni corporali di Hojo non
facevano
altro che peggiorare la situazione. Egli non faceva altro che ripetermi
che se
non mi fossi deciso ad imparare a controllarmi, il Presidente avrebbe
preso
misure drastiche nei miei confronti. E tanti saluti ai sogni di gloria
del
vecchio. L’idea mi divertiva e mi diverte tutt’ora,
devo ammettere. In fondo, a
me importava ben poco del mio futuro: forse una morte prematura era la
più
rosea delle opzioni. Me lo meritavo, dopotutto. Ero un fallimento. Hojo
non
faceva altro che ripeterlo. Avevo capito che avevo perduto
l’amore di mio
padre, fermo restando che l’abbia mai avuto. Era questa
frustrazione, mista
alla paura di uscire perdente dalla battaglia contro la Bestia che mi
si agitava
dentro, la causa di quell’escalation sempre più
violenta di aggressioni e scatti
d’ira. I dottori lo avevano definito ‘ sistema di
difesa’, il mio modo di
reagire alle difficoltà. Era l’unica spiegazione
che erano riusciti a darmi.
Per il resto e per chiunque altro rimasi un enigma irrisolvibile. Poi,
arrivò
quel SOLDIER, il quale cambiò per sempre la mia vita,
definendo, nel bene e nel
male, l’uomo che sono ora. Egli fu uno dei pochi esseri umani
capaci di vedere
il tormento provocato da questa maledizione.
M’insegnò a controllarla, a
conviverci, ad accettarla. Per la prima volta in vita mia, mi sentii in
pace
con me stesso. E credetti di aver trovato un valido sostituto del
Professore.
Un ‘padre’ da rendere fiero. Fino a che non
rivelò per ciò che era in realtà:
una spia al soldo di Wutai. Non saprei dire se il suo coinvolgimento in
quella
storia fosse già in corso quando c’incontrammo,
ma, una cosa è certa: non c’era
rimpianto nei suoi occhi quando mi infilò la Masamune tra le
budella.
Non gli ho mai chiesto il motivo delle sue
azioni.
Non gli ho mai chiesto il motivo di tanto
odio nei miei confronti.
Non gli ho mai chiesto nemmeno se gli fosse
mai importato qualcosa di me.
Non gli chiesi nulla. E lui non mi disse
nulla. Combattemmo e basta.
Un combattimento da cui sapevo che non ne
sarei uscito vincitore. Mi aveva già sconfitto a Corel,
quando mi marchiò. Quel
giorno, mancò di uccidermi nel corpo, ma uccise la mia
mente. Tutto quello che
ero riuscito a raggiungere grazie ai suoi insegnamenti, si
spezzò in migliaia
di pezzi. La mia psiche non era mai stata così frammentaria
e imprevedibile;
tuttavia molto più viscida e strisciante che in passato,
poiché ben celata da
una spessa coltre di calma e disciplina. Forse non è
completamente colpa di
quell’uomo, perché, in fondo, io non sono mai
guarito dalla mia follia. Il controllo
è un illusione. E sono
certo che io non riuscirò mai ad assumerlo. La mia vita
è troppo instabile.
Troppi lutti, troppe perdite, troppi fallimenti
costellano la mia esistenza. La Shinra tanto mi ha dato… e
troppo mi sta
togliendo. Genesis ed Angeal, gli unici amici che abbia mai avuto, si
sono trasformati
nei miei peggiori nemici. La Compagnia vuole che li affronti e porti le
loro
teste su un piatto d’argento.
Non ne ho la forza.
Forse fino a qualche anno fa non ci avrei
pensato due volte ad eseguire questa sentenza spietata, ma
ora… La vita ha un
valore diverso ai miei occhi. Il tutto grazie a LEI. Il mio angelo
è un’isola
di calma nella mia mente tumultuosa. Se dovessi perderla…
credo che impazzirei.
Lei mi ha rapito il cuore, trafitto l’anima, riempito la
mente, posseduto il
corpo… perderei me stesso. A quel punto, non ci sarebbe
più nessuno a frapporsi
tra il mondo e la Bestia.
Spero che sia al sicuro laggiù tra le
montagne. Tseng dice che i mostri hanno invaso buona parte di Wutai, ma
si
concentrano soprattutto attorno alle grandi città o nelle
zone ad alta concentrazione
di mako, dove sono stati costruiti i reattori.
“Onijin
è un
villaggio sperduto, non c’è nulla che possa
interessare a Genesis o a chiunque
altro. Sono al sicuro, vedrai.”
Vorrei credergli, ma forse la mia
preoccupazione è solo il riflesso del desiderio di
riabbracciarle. Chissà
quanto è cresciuta Takara in questi due mesi. Desidero
così tanto vederla,
coccolarla, guardarla negli occhi, accarezzarle la pelle, avvertire le
sue
manine minuscole stringere il mio dito.
Mi manca il suo sorriso. Il LORO sorriso.
Soprattutto
quello che nasceva sulle labbra di entrambe quando Evelyn allattava
Takara. Era
uno spettacolo meraviglioso, capace di annichilirmi con la sua
straordinaria
potenza. Mi pareva quasi di vedere l’energia fluire da un
corpo all’altro, come
se mia moglie stesse sacrificando parte della sua vita per darla a
nostra
figlia. E ciò la riempiva d’orgoglio, come se non
avesse desiderato altro che
quel gesto per tutta la sua esistenza.
La
Madre è vita.
Fu davanti a quello spettacolo che realizzai
il motivo delle mie tribolazioni. Mia madre è morta quando
sono venuto al
mondo. Le ho strappato l’energia vitale in un colpo solo,
senza darle nemmeno
il tempo di vedermi per la prima volta, senza darle il tempo di
ascoltare la
mia voce. Fin dal principio non sono stato altro che un egoista,
così attaccato
alla sopravvivenza e così difficile da abbattere. Eppure,
quante volte ho
cercato di bruciare quella vita immeritata, ingloriosa e vuota? E con
che
diritto? Questa vita non mi appartiene, perciò avrei dovuto
viverla come
avrebbe fatto lei, invece di sprecarla per accontentare le visioni di
un
vecchio pazzo.
L’unica azione buona che ho compiuto
è stata
crearmi una famiglia.
Creare…
E’ un termine così strano. La
mia sola
presenza è sempre stata sinonimo di distruzione e morte. Se
guardo indietro non
vedo altro che terre devastate, sommerse sotto metri di cenere su cui
cataste
insanguinate di corpi putrefatti si elevano verso un cielo nero come la
pece.
Non pensavo che da questo corpo corrotto dal peccato potesse nascere
qualcosa
di così puro e innocente come Takara. Forse, come spesso
Evelyn ribadisce, essa
potrebbe rappresentare il mio vero Io; chi sarei se non avessi
intrapreso la
carriera di SOLDIER. Se la mia vita fosse stata differente…
Quand’ero bambino immaginavo spesso a
un’alternativa all’oscura e terrificante
realtà in cui ero costretto a vivere
ogni giorno di quell’infanzia maledetta. Certe notti
sgusciavo fuori dalla mia
camera e mi dirigevo verso la soffitta, così da allontanarmi
il più possibile
dalle segrete di quella magione maledetta. Mi arrampicavo attraverso le
travi e
raggiungevo il lucernario, da lì uscivo sul tetto. Non ho
memoria di dove fosse
localizzata quella magione, ma ricordo che l’aria notturna
era sempre fredda e
frizzante, qualunque stagione fosse. Il cielo era così
limpido da poter
saggiare la meravigliosa striscia di stelle della nostra galassia. Uno
spettacolo che ho visto solo un’altra volta in vita mia.
Rimanevo ore sotto il
cielo stellato ad osservare il brillio latteo di soli lontani,
immaginandomi di
solcare quegli universi infiniti e visitare quei sistemi. Per un
meraviglioso attimo,
mi fondevo con l’eterno mare di stelle e lì
trovavo la mia pace, il mio posto.
Era tra quell’eterno brillio, fatto di spettacolari nascite e
catastrofiche
morti, che io mi sentivo appartenere. Alla fine, mi protendevo verso il
cielo,
allungando la mano, nella speranza che qualcuno potesse afferrarla e
portarmi
via da questo pianeta. Rimanevo fermo in quella posizione per minuti
interi,
fino a che le membra non divenivano terribilmente pesanti. Ricordo la
seconda
volta che vidi quello spettacolo, da ragazzo, decisi che sarei rimasto
immobile
fino a che la mia richiesta di aiuto non venisse accettata. Nella mia
mente non
riuscivo a concepire che tra miliardi di miliardi di stelle non ci
fosse
nessuno disposto a venirmi a salvare. Attesi con la mano protesa per
quasi
un’ora; fino che il custode del telescopio di Cosmo Canyon
non entrò nella
stanza, costringendomi a scappare. Già allora avevo una
reputazione da
difendere.
Purtroppo, con l’industrializzazione del
mondo, non esiste più un luogo abbastanza buio da saggiare
la bellezza celeste.
Non demordo, tuttavia. E’ un richiamo ancestrale, radicato in
ogni cellula di
me. Come se… come se io non appartenessi a questo Pianeta.
Come se il mio posto
fosse lassù, tra il buio infinito, a cavalcare le stelle e
visitare pianeti
alieni. A volte ho come la sensazione che questo Pianeta sia solo una
tappa,
una sorta di sosta momentanea al mio viaggio cosmico. So che
è può sembrare
assurdo, ma non credo si tratti solo di una sensazione.
C’è un sogno che mi
perseguita da quando ho memoria. Da bambino ero spaventato da quelle
immagini,
ma col tempo ho imparato a conviverci. E ora, con le nuove rivelazioni
provenienti dal Progetto G, mi sto convincendo sempre più
che non è un sogno.
Il tutto inizia con una larga panoramica di
Gaia, in tutto il suo splendore. Appare come un Pianeta sano, verde,
pulito. Il
Lifestream scorre possente e gentile, accarezzando dolcemente gli
strati più
alti dell’atmosfera. Poi, l’immagine ruota, il
pianeta si fa da parte,
oscurandosi. Dalla sua curvatura, come eruzioni violente, emergono i
raggi
solari. Il campo si allarga e un agglomerato di meteoriti e fiamme e
fulmini fa
capolino nella visuale. Prima lentamente, ma poi sempre più
rapido, quest’ammasso
roccioso si appropinqua al pianeta, fino a scontrarsi con
l’atmosfera. Il
Flusso Vitale crepita e s’inviluppa lungo il meteorite,
cercando di bloccarne
la devastante caduta. A quel punto, io volo sopra il Flusso Vitale,
ascoltando
l’agghiacciante urlo di migliaia di vittime di
quell’apocalittico disastro. Non
mi turba. Sono del tutto estraneo a ciò che accade sul suolo
di quel pianeta,
estraneo, alieno. Tutta la mia attenzione è rivolta verso la
figura incastonata
fino alla vita all’apice del meteorite. Non riesco a
distinguere nessuna
fattezza in particolare, ma so che si tratta di una creatura dalle
caratteristiche femminili. Una donna dai lunghi capelli di luce.
Flessuosa e
morbida, quella figura brilla di una scintillante luce argentata, come
l’infinita
bellezza delle stelle da cui ella proviene. Il Lifestream inizia a
scorrere
lungo il suo corpo, intrappolandola in una morsa soffocante. Prima di
venire
completamente inglobata, la creatura allarga le braccia e due enormi
ali si
dispiegano in tutta la loro maestosità. Ma è un
attimo appena, dal momento che
la sua luce diviene insopportabilmente luminosa. L’unica cosa
che rimane è un
urlo disperato di dolore. Poi, mi sveglio.
Non sono in grado di distinguere se si
tratta di una premonizione o di una memoria, ma quella sagoma
è così
famigliare. Esattamente come la voce. Entrambe mi appartengono,
insediate nelle
profondità della mia memoria. Forse colei che vedo
è mia madre. Un angelo di
luce inglobato dalle crudeli spire di questo Pianeta. Forse davvero una
parte
di me non appartiene a questo mondo. Ciò spiegherebbe il
motivo della mia
unicità, del fatto che io sia così definitamente
diverso da qualunque abitante
di questo mondo. Forse quelle pulsioni di distruzione non sono
risultato di una
latente follia ereditata da mio padre, ma un eco primordiale della mia
missione.
Distruggere il mondo…
No.
Ferirlo, affinché il Lifestream possa
guarirlo dalla piaga che lo sta uccidendo.
Ma è davvero possibile?
Una leggenda Cetra ne conferma la
possibilità, ma racconta anche che ciò
provocherà una devastazione senza pari.
A quel punto, si aprirebbero le porte per la Terra Promessa. Ed
è ciò che la
Shinra vuole. Ravanando nel marcio lurido archivio di questa
società ho appreso
che gli interessi della Compagnia ricadono su antiche leggende, su cui
sperano
di trovare fondi di verità. Motivo per il quale hanno
eseguito esperimenti su
Ifalna e tengono Aerith sotto sorveglianza. I Cetra sono in possesso di
conoscenze che agli umani non è possibile accedere e la mia
giovane amica ne è
la sola detentrice, ma, sfortunatamente, ella stessa non ne
è al corrente,
poiché sua madre è morta prima di istruirla.
Ciò che la piccola Aerith sa è
grazie al suo innato istinto. Le ricerche del Professore vertevano su
questo
argomento, tuttavia ogni loro traccia è andata perduta con
la sua morte. A
quanto pare è riuscito a distruggere i risultati prima che
cadessero in mani
sbagliate. Mi scappa un sorriso al pensiero che Hojo è
rimasto gabbato ancora
una volta dalla scaltrezza del Professore. Se solo avesse combattuto
così
caparbiamente anche per me…
Per quanto mi volesse bene, nessun uomo
vorrebbe un figlio così... mostruoso. A parte il vecchio
rachitico, ma solo
perché lui è il più bestiale di tutti
i padri.
Salve!!! Finalmente sono tornata! Anche se
sono già ripartita XD. Eh sì, dopo
l’intensa esperienza alle Falkland, la quale
non solo mi ha impedito di anche solo PENSARE alla fiction, ha anche
affossato
un po’ la mia voglia/fantasia, sono partita alla volta del
Wales, New Quay per
la precisione. Motivo sempre lo stesso: delfini <3 <3
<3. Ora ho
mooooooooolto più tempo libero, è praticamente
una vacanza, solo 5 ore al
giorno, al caldo, un tetto sopra la testa, capi molto più
comprensivi e
gentili. Anche se devo essere sincera: l’adrenalina scatenata
dal fatto di
rischiare la mia vita ogni giorno per sei mesi un po’ mi
manca. Un po’, eh… Ma
se questo vuol dire lavorare dalle 13
alle 14 ore al giorno, con mezza giornata di riposo a settimana ed
essere
tratta a pesci in faccia per ogni minima cosa, anche no, grazie. Cmq,
ritorniamo a noi. Actually, all’inferno di ghiaccio
effettivamente ho avuto
tempo di buttare giù due righe, ma sono scritte in un modo
che dovrei
rielaborare, però diciamo che mi hanno permesso di definire
meglio la linea
temporale e gli eventi futuri. Il vero problema di questo capitolo
è che è un
dannato, ma necessario filler. E sappiamo tutti che effetto hanno
questi filler
sulla voglia di scrivere. Avrei voluto pubblicare qualcosa appena
tornata, ma
sfortunatamente tutti i miei amici/parenti/fidanzato volevano vedermi
e, voilà,
Marzo era già finito. Poi ad Aprile ho iniziato a scrivere
qualcosina, ma poi è
arrivato il Galles e ho dovuto posticipare ancora. Ma ora finalmente ce
l’ho
fatta!
Con questo ho cambiato un po’
l’ordine di
apparizione dei personaggi, a parte il nostro Sephiruccio,
perché il meglio va
tenuto sempre per ultimo XD. Su Cloud non ho voluto troppo soffermarmi
sul lato
psicologico, perché, per quanto pazzo, la sua follia
è ormai una costante. Però
questo capitolo è importante perché ci dice dove
Takara dovrebbe trovarsi e
come è fatta (per questo ho messo la parte principale di
Evelyn a metà).
Scommetto che non vi aspettavate i capelli bruni, ma farli argentati
sarebbe
stato 1 troppo scontato e io odio essere mainstream e 2 è
più facile per me
legittimare il fatto che nessuno l’abbia mai trovata finora.
Inoltre, vediamo
se qualcuno indovina in anticipo a chi penso di farla assomigliare la
piccola
XD. Magari no spoiler e mandatemelo via MP, please.
Con Sephiroth, invece, non ho voluto troppo
soffermarmi sulla storia, ma sui suoi ricordi, emozioni e illazioni.
Siamo in
pieno CC, sappiamo che Seph ed Angeal avevano litigato (motivo per cui,
secondo
me, Angeal guarda malissimo l’ologramma di Sephiroth
all’inizio del CC) e che
la guerra in Wutai è finita. Diciamo che è
così che intendo raccontare quella
storia: qualche riferimento giusto per capire a che punto si
è nel gioco, ma
per il resto tutta farina del mio sacco. In fondo, non sono qua per
raccontare
una cronaca del CC. Per quello c’è Youtube XD.
Bon, i commenti sono quasi più lunghi
del
cap stesso (lunghezza standard, tra l’altro), quindi finisco
il mio sproloquio!
Alla prossima!
Besos