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Autore: MadAka    31/05/2016    1 recensioni
Logan Jackson Miller – a tutti noto come Jack – è un personaggio tormentato. Dipendente da droghe, omosessuale, con una vita sentimentale complicata e con un progetto che desidera portare a termine fin troppo ardentemente. Un ragazzo destinato all’autodistruzione.
A impedire che ciò accada – facendolo a sua stessa insaputa – c’è Riley, la ragazza della porta accanto.
Un’amicizia forte la loro, un legame saldo, che in un momento di duplice debolezza si incrina profondamente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Quel 7 maggio profumava di nuovo per Jack. Nonostante avesse dormito poco più di sei ore – dato che la sera precedente aveva fatto tardi per accertarsi che tutto fosse perfetto per l’inaugurazione – quella mattina si svegliò presto e con una tale energia da risultare sorprendente.

Scese dal letto e si vestì in fretta, raggiungendo subito dopo la cucina così da poter fare una buona colazione. Sul tavolo del soggiorno aveva lasciato gli ultimi inviti per l’inaugurazione, ovvero quelli dedicati alla sua famiglia. Connor, Amber, Nicole, Penelope e addirittura sua padre Benjamin – con cui Jack non aveva avuto un rapporto semplice dal giorno del suo coming out da adolescente. Tutti i loro inviti erano posati su quel tavolo, in buste bianche con il loro nome scritto sopra.

Jack fece colazione con calma, ripercorrendo con la mente tutto ciò che avrebbe dovuto fare in preparazione della serata. Terminato di bere il caffè il ragazzo andò a farsi una doccia, passando accanto a cinque grossi secchi neri pieni di calle. Ne aveva ordinate trecento. Trecento calle bianche che, quella sera, avrebbe distribuito a ogni ragazza che fosse entrata dalla porta del suo nuovissimo night club. Sapendo di averne ordinate in abbondanza era intenzionato a usarne una parte anche per decorare l’interno del locale, come i tavoli, i banconi del bar e gli specchi.

Poco dopo che fu uscito dalla doccia – sentendosi ancora più sveglio e fresco di prima – qualcuno bussò alla porta. Stava aspettando Nathan, perciò andò ad aprire mentre ancora doveva infilarsi la t-shirt, i capelli scuri spettinati e bagnati sopra la testa.

Dietro la porta d’ingresso, quando aprì, non vi trovò Nathan, ma Riley. Jack notò che la ragazza sussultò appena quando lo vide, il suo sguardò sfrecciò rapido fino alla vita del ragazzo e tornò subito sui suoi occhi. Gli sorrise, sollevando davanti al naso una tazza, che Jack riconobbe come quella che le aveva lasciato tre giorni prima.

«Sono venuta a riportarti questa» esordì Riley, tendendo la tazza a Jack, che l’afferrò.

«Ti ringrazio» le rispose.

«Come vanno gli ultimi preparativi per la serata?» chiese poi la ragazza, rimanendo concentrata sugli occhi di Jack e decidendo di fare un po’ di conversazione prima di andare. Erano quasi le nove e aveva pensato di restituire la tazza poco prima di dover uscire per andare nel suo luogo di lavoro.

Il ragazzo si strinse nelle spalle, l’ennesimo sorriso perfetto e radioso che, nell’ultimo periodo, aveva spesso caratterizzato il suo viso. «Quasi ultimati. Manca davvero pochissimo e sono terribilmente eccitato» esclamò, non riuscendo a trattenere un gesto di esultanza.

Riley fu felice di vederlo così, ma non sorrise: c’era altro che doveva dirgli. Quando Jack si fu calmato tornò a puntare lo sguardo sull’amica, che prese una lunga boccata d’aria prima di aprire bocca: «A proposito di stasera» cominciò. Jack si rese conto che c’era qualcosa che, in qualche modo, la turbava e rimase in attesa, lievemente preoccupato. Riley fece vagare lo sguardo oltre il ragazzo mentre ricominciava a parlare: «Mi ero completamente dimenticata di aver già preso un impegno con Elizabeth. Quindi… beh, non so quando riuscirò a passare. Non so neanche se riuscirò a passare.»

La voce le si era abbassata sul finire della frase. Jack rimase deluso dalle parole di Riley, non avrebbe certo potuto negarlo. Sapeva che alla ragazza luoghi come i night club non piacevano minimamente, ma dopo quello che lei gli aveva detto tre giorni prima si era illuso di poterla avere ad assistere all’inizio della sua nuova vita, anche se per una mezz’ora solamente.

Riley notò che le braccia del ragazzo abbandonarsi lungo i fianchi. Temeva quella reazione; temeva di ferire Jack ed era l’ultima cosa che voleva.

«Mi dispiace, davvero» si affrettò a dire. «Posso parlarne con Elizabeth e chiederle di salutarci un po’ prima, così posso passare al night.»

Jack non rispose subito. Rimase a guardare per un lungo momento Riley che teneva lo sguardo basso. Per quanto l’avrebbe voluta vicino quella sera, di certo non poteva costringerla. Sarebbe andato certamente tutto per il meglio anche senza di lei.

Le sorrise. La ragazza sollevò gli occhi e parve sorprendersi dalla reazione di Jack.

«Non preoccuparti. Non c’è problema se non riesci a venire» le disse, sincero.

«No, beh… io… io posso» riprese lei, ostinata, ma Jack la fermò con un gesto.

«Davvero, Riley, non preoccuparti. Potrai venire quando vuoi. Sarai sempre una di quelle sulla lista.»

Le sorrise ancora una volta. «Aspetta solo un momento.»

Entrò in casa, posò la tazza sul tavolo e ricomparve davanti a Riley, una calla bianca stretta in mano. «Questa è per te» disse porgendole il fiore. «So che sono i tuoi fiori preferiti.»

La ragazza si sentì lievemente arrossire. «Perché questo?» domandò titubante.

«Avevo in programma di darne uno a ogni ragazza presente stasera, inclusa tu. Ma se non riesci a passare allora ti do subito il tuo fiore.»

Riley guardò la calla, dolcemente sorpresa dall’aver constatato che Jack ricordasse quello che era il suo fiore preferito.

«Hai davvero pensato proprio a tutto» gli disse poi, indicando la calla.

Il ragazzo sorrise, annuendo. Riley rimase a guardarlo per un lungo momento, prima di ricordarsi che ore erano. Tornò in sé con un fremito e si sbrigò a dire: «Devo proprio andare, scusami.»

«Ok, allora, buona giornata» le rispose Jack.

Lei lo guardò nuovamente per un po’. «Farò il possibile per venire stasera» disse poi.

«Riley, non preoccuparti» tentò di tranquillizzarla lui.

«Sai come sono» tagliò corto lei e dopo un rapido gesto in segno di saluto si avviò lungo il corridoio.

 

*

 

Quando l’una del pomeriggio era da poco scoccata sugli orologi, Jack varcò la soglia della casa dei suoi genitori, al centro di Washington, in cui era cresciuto e dove aveva trascorso venticinque anni della propria vita. Il ragazzo salutò gli addetti alla sicurezza perennemente vigili alla porta d’ingresso, dopodiché si chiuse quest’ultima alle spalle e raggiunse a grandi passi la cucina. Come si aspettava vi trovò la famiglia riunita al completo; probabilmente si erano da poco alzati da tavola dato che Nicole aveva appena cominciato a lavare i piatti e il bicchiere del drink che Penelope era solita bere a fine pasti era ancora colmo. Connor e Amber erano seduti sugli alti sgabelli davanti alla penisola della cucina, intenti a portare avanti una fitta conversazione, mentre suo padre, Benjamin, misurava la stanza camminando avanti e indietro, il telefono premuto sull’orecchio.

Appena Jack si fermò si voltarono tutti verso di lui. Sorrise, spalancò le braccia, gli inviti imbustati stretti in mano e disse: «Buongiorno a tutti.»

«Non ti sei fatto vedere a pranzo, oggi» gli fece notare Nicole.

«Vi avevo detto che non sarei venuto. Non avrete cucinato anche per me spero.»

La possibile risposta fu scavalcata da un’imprecazione di Benjamin, che chiuse la telefonata e raggiunse il resto della famiglia attorno al bancone della cucina.

«Quel figlio di…» borbottò fra sé, ma venne zittito da un’occhiata storta da parte della moglie.

Jack rimase a guardarlo un momento, un mezzo sorriso dipinto in volto, dopodiché prese una generosa boccata d’aria e fece in modo che tutti gli occhi si puntassero su di lui. Sollevò le buste per far sì che si vedessero perfettamente. «Vi ho portato i vostri inviti per stasera. Li lascio qui» disse, posandoli sulla penisola che aveva davanti, proprio fra suo padre e sua nonna. Benjamin osservò le buste dubbioso, il viso lievemente contratto.

«Inviti?» chiese infine.

«Sì, per l’inaugurazione del night. È oggi» rispose Jack. Notando l’incomprensibile espressione del padre si ritrovò a sorridere, non capendo esattamente perché. «Anche se si tratta di voi ho espressamente detto che chiunque sia senza invito non deve entrare» precisò, credendo che i dubbi del padre fossero legati a ciò.

Tuttavia l’espressione di Benjamin non mutò.

«Per quanto mi riguarda, il mio puoi anche tenerlo» disse poi.

Il sorriso di Jack si spense. Corrugò la fronte, schiudendo le labbra in silenzio per un momento prima di dire: «In che senso?»

«Nel senso, Jack, che non penso proprio passerò questa sera.»

Il tono asciutto con cui Benjamin gli aveva risposto lasciò Jack di stucco, che non capì il motivo della scelta del padre. Sapeva che non aveva nulla in programma per quella sera, lui stesso glielo aveva detto. Intorno a loro l’aria si fece tesa, gli sguardi allarmati di tutti si puntarono esclusivamente sui due.

«Ma… è l’inaugurazione. Ho lavorato duramente per arrivare a questo giorno, non puoi mancare.»

Benjamin sollevò le sopracciglia, come a dire che non era a conoscenza di quanto Jack gli aveva appena detto e, soprattutto, che non credeva a niente di tutto ciò. Un moto di sdegno pervase il ragazzo, che sentì i muscoli irrigidirsi.

«Pensi che non sia vero? Ho passato gli ultimi cinque mesi su questo progetto. Sono andato in ogni ufficio possibile per ricevere i permessi. Ho contattato non so quante persone fra operai, arredatori, designer, fornitori, personale e barman» esplose.

La replica del padre non si fece attendere: «Sì, ma non lo hai fatto con i tuoi soldi.»

Jack si bloccò a quelle parole, gli occhi saettarono veloci sul fratello, che distolse lo sguardo.

«Credi che non sappia che hai ricevuto il finanziamento da Connor?» domandò retoricamente Benjamin.

A quelle parole Nicole si avvicinò ai due uomini. Intuendo la lite imminente sperò di riuscire a interrompere la cosa sul nascere, ma venne ignorata da entrambi.

«Lo ha fatto per aiutarmi a portare a termine ciò su cui avevo speso tanto tempo» replicò Jack, il tono sempre più nervoso.

«No. Lo ha fatto solo perché gli facevi pena. Perché sapeva che se non ti avesse aiutato lui non lo avrebbe fatto nessuno.»

L’affermazione del padre ferì nel profondo Jack. Cominciò a sentirsi irritato come non gli capitava da tempo e riuscì a stento a mantenere lo sguardo saldo su Benjamin quando quest’ultimo riprese a parlare, dando un nuovo affondo: «E forse aveva anche ragione. Quando mai hai portato a termine qualcosa di buono tu?»

«Forse ci sarei anche riuscito se tu avessi creduto in me» rispose Jack, la voce gli tremò leggermente.

Benjamin gonfiò il petto, come offeso dall’affermazione del figlio.

«Oh ma io l’ho fatto. E più di una volta. Io e tua madre ti abbiamo sempre dato tutto ciò di cui avevi bisogno ma non ne hai mai fatto buon uso.

«Ogni volta che sparivi dovevamo venire a recuperarti in qualche sobborgo squallido e ti trovavamo completamente distrutto dalla droga. E come se non bastasse dovevamo anche fare del nostro meglio perché la tua ennesima permanenza in comunità di recupero passasse sotto silenzio» disse con il tono di chi conviveva con tutto ciò da una vita e che provava più fastidio che compassione per la cosa.

Il silenzio intorno a loro si fece gelido. Tutti i presenti avevano tolto gli occhi da loro, eccetto Nicole, il cui sguardo era profondamente rammaricato e si alternava confuso fra il figlio e il marito.

Jack deglutì la poca saliva che gli era rimasta in bocca, avvertendola improvvisamente asciutta. Si sentì terribilmente teso per colpa della rabbia che era montata in fretta mentre le parole del padre si erano fatte via via più pesanti e insopportabili, per quanto vere.

«Nessuno ve lo ha mai chiesto» disse infine.

«Beh allora devi esserci grato che lo abbiamo fatto ugualmente. Altrimenti stasera non inaugureresti un bel niente e con molta probabilità non saresti neanche qui.»

Le ultime parole pronunciate dal padre furono in grado di far scomparire completamente ogni sensazione positiva dal corpo di Jack. Ogni minimo residuo di soddisfazione e felicità scivolò via dal giovane che venne totalmente sovrastato dalla rabbia. Teneva lo sguardo fisso su Benjamin, la mascella contratta. Le sue mani erano chiuse a pugno mentre con tono tremante per l’irritazione ormai al culmine dava voce a qualcosa che non avrebbe mai pensato di poter dire: «Io credo di odiarti.»

Il silenzio già calato nella stanza e fattosi gelido divenne ancora più tetro e serrato. Jack sentiva l’aria riempirsi del suo respiro pesante e gli occhi di tutti, sconvolti, puntati improvvisamente su di lui. Senza aggiungere altro si voltò e si avviò verso l’ingresso, il passo affrettato.

Benjamin non distolse lo sguardo dal punto in cui prima si trovava suo figlio e dove ora non vi era più niente. Le parole che gli aveva appena pronunciato iniziarono a rimbalzargli nella testa, presentandosi come l’inizio di un doloroso tormento, a meno che non vi avesse posto subito rimedio. Fu per tale motivo che lo sguardò dell’uomo si abbassò sulla penisola, su cui gli inviti per l’inaugurazione erano fermi immobili, in attesa.

 

*

 

Che l’inaugurazione del night club sarebbe stata un successo Jack lo capì appena mise piede giù dall’auto in compagnia di Nathan quella stessa sera. L’autista fermò la berlina nera proprio in corrispondenza del tappeto rosso che era stato srotolato dal marciapiede all’ingresso, permettendo ai due giovani di scendere. Come Jack posò piede in terra uno scroscio di applausi si sollevò fra le persone presenti, in attesa in fila dietro a transenne e i fotografi presero a scattare foto di colui che era il protagonista di quella serata.

«È pazzesco!» esclamò Nathan appena si rese conto di quello che stava succedendo, voltandosi verso Jack.

«Sì, lo è» rispose l’altro, con tono disinvolto. «Ora, tu entra e, per favore, dai poco nell’occhio. Io sistemo un paio di cose e ti raggiungo.»

Superarono insieme l’ingresso principale, scomparendo alla vista dei fotografi e delle centinaia di persone in attesa. Fatta eccezione per il limitato numero di individui a cui Jack aveva dedicato un VIP pass – differente e più importante rispetto al normale invito – il club non aveva ancora effettivamente aperto. Dentro ci saranno state si e no settanta persone, distribuite su diversi tavoli e intente a consumare la cena inaugurale del nuovo night – e ristorante – di Jack. Il ragazzo si fermò al bancone della reception, proprio accanto all’ingresso, mentre Nathan scostava la tenda di velluto blu ed entrava nella sala principale.

Sul bancone i VIP pass erano tutti finiti, fatta eccezione per due. Il primo di quelli rimasti era di Riley, ma Jack non fu sorpreso di vederlo lì, nonostante ne fosse dispiaciuto. Si ritrovò a sperare che la ragazza cambiasse idea o programmi e che facesse la sua apparizione al night club, anche se per soli cinque minuti. La sua mattina era iniziata bene e il pomeriggio aveva, invece, stravolto tutto quanto. Per quanto fosse soddisfatto della quantità di presenti all’inaugurazione non poté fare a meno di sentire nuovamente la rabbia montare al pensiero della lite con suo padre e avrebbe voluto potersi sfogare parlandone con qualcuno, magari proprio con Riley. Tuttavia lei non c’era.

Fece scorrere gli occhi sul nome scritto in bianco sul secondo dei pass non ritirati e lesse quello di Louis Walker. Un sapore amaro gli invase la bocca immediatamente. Si sentì improvvisamente uno stupido. Stupido per aver creduto che Louis sarebbe veramente venuto dopo tutto quello che era accaduto e stupido perché si era illuso che tutto ciò che di spiacevole era avvenuto fra loro si potesse rimediare con un invito a cena a seguito di una conversazione nata per caso e chiaramente imbarazzata.

Un senso di inadeguatezza cominciò a pervaderlo. La rabbia e la frustrazione sopraggiunsero più vivide che mai. Due sensazioni che non provava da settimane si ripresentarono roventi e corrosive dentro di lui, chiudendogli lo stomaco e serrandogli la gola. Doveva sovrastarle subito prima che potessero rovinargli la sua serata.

Sentì qualcuno arrivare verso di lui. Sollevò gli occhi dal nome di Louis e vide Tony sbucare da dietro la tenda di velluto, sorridendo nella sua direzione. Tony era un uomo con cui conveniva non scherzare; grande e grosso, l’espressione benevola dei suoi occhi scuri poteva diventare la più spaventosa che si potesse incrociare se qualcuno gli faceva un torto. Un tranquillo impiegato di giorno, il più efficace pusher che Jack avesse mai incontrato di notte.

«Come va, amico?» chiese Jack, cercando di ricomporsi il più in fretta possibile.

«Benone. Si preannuncia una gran serata» rispose Tony. «Grazie per i VIP pass. Io e i ragazzi li abbiamo molto apprezzati.»

Un sorriso incurvò un angolo della bocca di Jack. «Figurati. Ve li siete meritati.»

Ai due bastò uno scambio di sguardi. Tony capì subito cosa il più giovane stava cercando da lui e non gli servì fare altre domande o cercare altri cenni. Con una disinvoltura che aveva dell’incredibile perfino per Jack si avvicinò e diede la mano al ragazzo, trasformando il gesto in un abbraccio piuttosto sbrigativo.

«Sei rimasto fuori dal giro per un po’, vacci piano» disse infine con una strizzata d’occhio.

Jack gli sorrise e lo guardò rientrare nella sala. Infine abbassò distrattamente lo sguardo sulla mano, una smorfia incomprensibile a increspargli il viso. Fra le dita stringeva un piccolo sacchetto trasparente appallottolato stretto e pieno di una finissima polvere bianca.

 

  
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