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Autore: Melitot Proud Eye    14/04/2009    1 recensioni
Lei sorrise. E rimase a osservare la scena finché il piccolo, esausto, non si fu addormentato.
Raccolta di flashfics incentrate sulla vita familiare degli Himura e dei loro amici.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nota: finalmente torno su questa serie di flashfics e oneshots... di recente Kenshin ha ripreso punti, quindi aspettatevi dell'altro! ^^ Una precisazione: il legame con La via della spada è stretto; ciò che raccontano queste flash avviene prima, dopo e magari anche durante.

Buona lettura!
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E non manca nessuno




«Non è ancora finita! Non sono ancora caduto! Non sono ancora sconfitto!» Il giovane si reggeva caparbiamente alla spada tagliacavalli, deciso a non mollare battaglia né convinzioni. «In nome di Sagara e della squadra rossa, se anche dovessi morire, non potrei mai farmi sconfiggere da un samurai ambizioso!»
Era un ricordo familiare.
«Signor Himura?»
Sembravano passati più di cinque anni, benché fosse vivido rispetto ad altre esperienze, come l'apprendistato, la caduta dello shogunato...
«Signor Himura, vi sentite bene?»
...o la fine del primo matrimonio. Uh?
Kenshin uscì dal suo mondo interiore per trovare gli occhi dell'ispettore Urayama che lo scrutavano fisso fisso. Ops.
«Vi chiedo scusa» disse, imbarazzato. «Mi ero distratto.»
L'uomo sorrise. «No, non scusatevi, signor Himura. E' stata una lunga giornata. Sono sicuro che non vedete l'ora di tornare a casa...»
Uno sguardo alla finestra rivelò che il sole era già calato oltre i tetti; i rumori di carrozze e cavalli andavano scemando e presto in giro non ci sarebbe stata più anima viva.
«Ecco, se voleste solo ripetermi la parte decisiva, in modo da trascriverla nel rapporto...»
Trattenendo un sospiro, Kenshin rivisse l'ultimo atto della sua giornata al servizio della comunità. La banda di samurai l'aveva impegnato senza sosta prima di lasciarsi incastrare. I quattro s'eran nascosti in un vecchio quartiere, adibito a deposito di riso e altri generi di prima necessità, paghi del loro ultimo bottino. Urayama lo aveva contattato poiché uno di loro era abile con la spada e sei poliziotti erano stati feriti durante le operazioni di ricerca...
Un lavoretto delicato.
Kenshin non ne era risentito, naturalmente. Dalla nascita di Kenji l'ispettore diradava le richieste d'aiuto al punto da dar l'impressione che non ve ne fosse più bisogno; un segno di rispetto verso la sua famiglia.
Stavolta doveva aver avuto l'acqua alla gola.
Descrisse lo stile di combattimento del criminale – una scuola recente – rivedendolo portare il suo colpo più forte.
Era stato bravo. Non ingestibile, ma bravo. Per fortuna Kenshin aveva portato con sé una bokken robusta.
Terminò il racconto e guardò Urayama vergare gli ultimi, sintetici appunti sul foglio ruvido del registro, posare la penna e tergersi la fronte. Poi i loro occhi s'incontrarono e sorrisero.
L'ispettore s'alzò. S'affrettò a imitarlo.
«Vi ringrazio infinitamente, ancora una volta.»
Gli porse la mano. «Dovere.»
Quella parola sembrò strappare all'uomo un moto d'incredulità. Scosse il capo, accompagnandolo alla porta.
«Sia benedetto il giorno in cui siete arrivato in questa città, signor Himura. Mi spiace importunarvi sempre per cose spiacevoli, ma se non ci foste...»
«Oh no, non ditelo neanche per scherzo. Davvero.»
«Eppure la polizia dovrebbe camminare sulle proprie gambe, ormai, senza ricorrere all'aiuto dei civili.»
Kenshin si fermò un attimo nel corridoio, un sorriso serio sulle labbra.
«Ma io non sono un civile qualunque.»
E uscì con un rispettoso cenno del capo.

L'aria fresca della sera lo rinfrancò. Sistemò la sciarpa intorno al collo del gi e s'avviò, avvolto dalla luce delle lanterne.
Il passo energico regredì presto a uno pacato. Non stava più nella pelle al pensiero di un bel bagno caldo, una cena abbondante (anche cucinata da Kaoru) e magari un corroborante sorso di saké, ma doveva premurarsi anzitutto di arrivarci, a casa; con un ritmo troppo brioso avrebbe rischiato di stramazzare sull'uscio di qualche estraneo.
Eh, Kenshin... cominci a sentire l'età.
Oro. Sembrava un vecchietto acciaccato.
Proseguì fino a svoltare l'angolo, abbandonando la via principale del quartiere e addentrandosi nella zona residenziale.
Forse non era l'età. Forse era l'abitudine a non combattere solo.
Lo era sempre stato, sin dalla morte dei suoi genitori, ed era cresciuto così, tra una lettera nera e l'altra; non aveva mai capito il bisogno di compagnia provato dagli altri... finché non ne aveva avuta in prima persona. Non i samurai ambiziosi; in un certo senso neanche Tomoe – che pure era stata così cara – perché troppi silenzi avevano riempito quel conforto reciproco, acerbo e insicuro. Pensava invece a quant'era avvenuto quindici anni dopo, quando aveva messo piede in Tokyo.
«Fermo dove sei! Ti ho trovato, Battosai!»
La notte fortunata del loro incontro.
«Io sono un discendente di samurai!»
Il salvataggio rocambolesco di Yahiko.
E poi... poi tante altre persone, gentili od ostili o indifferenti ma presto mutate in amiche.
Kenshin non s'era reso conto della propria sfortuna finché qualcuno non l'aveva strappato alla solitudine, creandogli intorno una cerchia calorosa. Uno, in particolare, spiccava fra i responsabili...
La sua capigliatura era un pugno in un occhio. La sua voce, a dir poco molesta.
«Silenzio! Voi non potete dire questo! Mentre parlate di uguaglianza siete succubi della vostra avidità e vi credete di essere chissà chi!»
Sorrise, rivivendo quei momenti.
«Siete contenti d'aver creato una falsa nuova epoca!»
Sulle prime aveva ammirato la sua incredibile resistenza. Poi l'attaccabrighe l'aveva sfidato e la seccatura, mista a delusione, aveva quasi cancellato il giudizio positivo.
Per fortuna aveva avuto occasione di ricredersi.
Evitò una buca profonda e la sua mente offrì un'immagine del futae no kiwami. Si rese conto di una cosa.
Era tutto il giorno che pensava a Sano, per immagini, impressioni, frammenti di vecchie conversazioni. Si chiese distrattamente il motivo. Non capitava spesso, come per i sogni sul suo passato. Palestra, pargolo e giardino assorbivano con avidità le sue attenzioni.
Sospirò.
All'improvviso gli sembrava di non vedere l'amico da un secolo. Girovagava chissà dove, lontano migliaia di chilometri, inviando poche lettere scarabocchiate. Chissà se avrebbe mai imparato l'ortografia... Quella considerazione irriverente portò a un'altra: si erano conosciuti da vagabondi e, mentre il veterano alla fine s'era accasato, la nuova leva aveva proseguito in cerca di avventure. Se c'era qualcuno che ne aveva bisogno per vivere felice, quello era Sanosuke.
Solo che... fece una smorfia. Solo che, quando Kenshin era costretto a tornare in azione, la sua assenza non gli sembrava più tanto magnifica. Yahiko era necessario alla palestra e a Tae, gli Oniwabanshu vivevano a Kyoto, di Kaoru non se ne parlava e infine Saito, anche volendo (e no, grazie), azzannava criminali all'altro capo del Giappone; quindi doveva sbrigarsela da solo.
Di nuovo.
Erano considerazioni piuttosto egoistiche, ovviamente, e non ne andava fiero. Però il ricordo delle scorrerie spalleggiate da Sano sminuiva alquanto la sua assoluta padronanza degli eventi.
Gli mancava, ecco tutto.
Una sensazione nuova.
Trovò una pietra abbandonata e si concesse di calciarla.
I pregi e gli aspetti meno piacevoli dei loro caratteri si erano compensati fin dall'inizio, rendendoli un duo equilibrato. Per questo ne avevano passate tante insieme. E dopo quattro anni di lontananza, guardando indietro a tutti gli scontri, gli scherzi e i litigi che avevano condiviso, Kenshin si rendeva conto di esser stato fortunato a incontrarlo. Come altri sotto altri aspetti, quel ragazzo di un decennio più giovane era stato fondamentale nella sua maturazione.
Era l'amico di cui aveva bisogno per diventare uomo.
Una persona di cui fidarsi sempre e comunque, pensò, passandosi una mano nella frangia. Anche se chi dava più affidamento ai dadi ero io...
La sua ultima missiva era datata tre mesi prima, rammentò (si trovava in Mongolia e annunciava un probabile ritorno, ma non si era più saputo niente; chissà, forse aveva cambiato idea, o era stato trattenuto).
In quella gli parve di udire un riso sguaiato. Alzò la testa.
Alla fine della strada si stagliavano il muro di recinzione e il tetto della palestra. Le luci sembravano spente.
Affrettò il passo; non ne poteva più di starsene in giro al freddo e tutte quelle considerazioni gli avevan fatto venir voglia di compagnia. Kaoru sarebbe stata ansiosa di parlare della giornata... l'avrebbe accolto con un sorriso e un abbraccio carico di sollievo.
La prospettiva era allettante.
Immaginate quindi la sua sorpresa allorché, giunto in cucina, trovò un festino smangiucchiato, bicchieri in torrette, Kenji eccitatissimo e Kaoru e la signorina Megumi un po' brille.
Megumi che, a rigor di logica, avrebbe dovuto trovarsi ad Aizu...
«Signorina Megumi» esclamò.
Gli occhi delle due donne s'illuminarono.
«Ken... hic... san!»
«Kenhin» aggiunse sua moglie, ondeggiando con un sorriso ebete.
Si alzarono e, tenendosi in piedi l'un l'altra, gli vennero incontro. Dire che il loro alito puzzava di saké era un eufemismo.
Le sostenne, cercando di trattenere il respiro.
«Finalm-finalmente scei tornhato» farfugliò Kaoru. «E' tutto il giorno che ti ashpettiamo...»
«Davvero?» fece, poco convinto.
Megumi annuì con foga e rischiarono tutti di cadere. «Signor Ken, Yahik... hic... hic...»
Kaoru dovette trovare l'allitterazione molto spassosa, perché cominciò a ridere istericamente.
Barcollavano come barche in tempesta e Kenshin pregò tutti gli dèi che si riprendessero in fretta, giacché le sue gambe non potevano resistere a lungo – per non parlare dell'umiliazione cui si stavano sottoponendo davanti a suo figlio.
«Yahiko cosa?» disse, chiudendo lentamente gli occhi. «E per quale motivo siete tornata da Aizu, signorina Megumi?»
La donna smise di sghignazzare e piegò le labbra all'ingiù, cingendogli il collo con un braccio.
«Ma come? Io v-vengo a trovarti da m... moolto lontano e queshto è il trattamento che ricevo?»
Non avrebbe mai creduto di vederla così.
«Hey» Kaoru si sporse, bellicosa. «Giù le mani dal mio uomo!»
Il suo impeto era tutto quello che ci voleva. Kenshin agitò invano le braccia per mantenere l'equilibrio.
Caddero vicino al tavolo, lui sul fondoschiena, con Megumi drappeggiata addosso, le risa divertite di Kenji alle spalle.
«Ugh.»
Attese che le stelle fossero scomparse. Ma che bel modo di concludere la giornata...
Che diavolo stava succedendo?
«Ohi ohi.»
«Hic, ti ho detto» insistette Kaoru, caparbia «di non toccare mio marito!»
«E tu» commentò una voce, afferrando Kenshin per la collottola «non dovresti toccare le donne d'altri.»
Stupefatto di non aver percepito un estraneo, il padrone di casa torse il collo all'indietro. E si vide sovrastare da una nota, gigantesca figura.
All'improvviso la ragione del festino e l'arrivo della signorina Megumi (o era una coincidenza?) furono chiari. Un grande, naturale sorriso gli distese il volto, riflettendosi su quello del nuovo venuto.
Non riusciva a crederci.
«Sano!»
Ora tutto era a posto. Non mancava più nessuno.

Mezz'ora dopo Yahiko e Tsubame erano stati chiamati, il festino consumato, la giornata di Kenshin narrata, e l'allegria era molta.
Mentre Sanosuke prometteva racconti di avventure a Kenji, che sedeva sul suo ginocchio con aria rapita, Kenshin s'alzò per andare a far l'agognato bagno. Nel chiasso generale se ne accorse solo Tsubame, ma non importava: sarebbe tornato presto (prestissimo) per riunirsi a loro. E, nell'osservare la gioiosa combriccola dallo stipite dello shoji, naturali, gli tornarono in mente alcune parole dell'ispettore Urayama.
«Benedetto il giorno in cui siete arrivato in questa città, signor Himura.»
Sì... sì... sì. Era stato un giorno benedetto.
Da quel momento aveva avuto tante cose buone. Il sole s'era posato sul suo cammino.
E la prova erano quelle persone, la sua famiglia, riunita nella sua casa, a condividere la vita con lui.

   
 
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