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Autore: Elphie94    04/06/2016    2 recensioni
«Devo essere pazza per seguirti. Secondo te lo sono?» gli chiesi con voce appena udibile oltre il flusso inondante dei miei pensieri.
Si voltò verso di me – nel buio, i suoi occhi erano come stelle sulla distanza.
«Mia cara, tu sei sana di mente quanto me.»

Meg è la figlia di Madame Giry, la migliore amica di Christine Daaé, un'anonima ballerina di fila. Quando il giornalista Gaston Leroux la rintraccia trent'anni dopo gli strani accadimenti dell'Opera Garnier, lei - vedova di un barone, senza figli - gli racconta la sua versione, in cui è finalmente protagonista. Insieme a un uomo che era diverso da tutti gli altri...
[Correntemente in fase di revisione.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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xix.

il maestro e marguerite




Scoprii che il passaggio attraverso lo specchio non era molto differente da quello che io stessa avevo usato per la prima volta e che mi aveva condotto prima alla camera dei supplizi, secondo la trappola disegnata da Erik, poi al lago sotterraneo e all'appartamento lì accanto costruito. Era solo meno angusto, e portava a una scala di cui non conoscevo l'esistenza. I gradini erano tanto ripidi che la prima volta finii per aggrapparmi ad Erik nel tentativo di non incespicare nei miei passi, dopodiché, da brava ballerina, ci presi in fretta la mano.

Erik mi accompagnava lungo il tragitto con una torcia in mano, vogando poi nella piroga che aveva adibito a suo uso personale. Remava sempre lui – un gesto gentile come lui era di rado. Nel suo soggiorno si tenevano le nostre lezioni, in modo non molto differente dalle mie settimane di convalescenza lì dentro.

Erik mi aveva insegnato a solfeggiare – e avevamo avuto bisogno di tutta la nostra pazienza per questo – così da seguire il tempo della musica che mi accingevo a suonare. Pigiare i tasti del pianoforte era per me un'esperienza innominabile: era come dare vita dal nulla a dei suoni che dipingevo con i miei personalissimi colori. Era un parto, ma ne valeva la pena: alla fine di ogni lezione ero sudaticcia e dovevo trattenere il desiderio di colpire il mio maestro con il libretto degli spartiti su quella sua testa di morto, ma ero libera. Non mi sentivo così libera da anni. Attraverso le note vomitavo il mio rancore, la mia rabbia, tutto l'acido nel mio stomaco si trasformava in musica, e ad esso davo le ali. Erano ali ancora un po' imperfette, forse non pronte per spiccare il volo, ma quel momento non avrebbe tardato a lungo. Erik – dovevo ammetterlo con riluttanza – era un insegnante straordinario, sebbene fosse severo, e insieme a lui avevo fatto progressi incredibili, progressi che, in altre circostanze, avrebbero richiesto mesi e mesi di esercizi. Prediligevo Chopin, ma molti dei suoi brani erano ancora ben oltre la mia portata, quindi mi accontentavo dei valzer che Mozart aveva composto a sei anni. Trovare delle difficoltà in essi era per me alquanto umiliante, e i sospiri del mio maestro – sebbene mi rifiutassi di chiamarlo tale – si potevano udire in tutti i sotterranei. Ma io andavo avanti a testa china, come un toro alla carica, finché le dita delle mani non mi facevano male quanto quelle dei piedi che dovevano sopportare il mio peso nella danza da anni. Bastava una sonata, e il resto andava via: le mie remore sull'ambiguità morale del mio insegnante, di me stessa che gli davo corda, su ciò che avrebbero detto Christine e mia madre se avessero saputo di questo “scambio” – perché di questo si trattava: lui, attraverso lo studio del pianoforte, mi ridava la pace dei sensi; io gli ricordavo che era ancora umano – insomma, ero una donna libera che aveva preso coscientemente una decisione che secondo la logica era poco giudiziosa, ma che alla lunga stava portando dei vantaggi ad entrambe le parti. I miei incubi si erano attenuati, come la sabbia si surriscalda al sole, e l'influenza che detenevo su Erik cresceva sempre più. Per quanto assumesse quel tono di comando, io ero ben consapevole che con me ormai si trattava di una facciata. Non ero mai disposta a sottostare ai suoi cosiddetti ordini, e pensavo che le mie ramanzine gli facessero bene. Credetti di aver acquisito su di lui un'influenza tale da spingerlo nella direzione giusta riguardo la situazione “Christine”, e non mi vergogno a dire che quello era uno dei miei obiettivi principali: conoscere il nemico – se così ora potevo definirlo – per poi saggiarne non solo i punti deboli, ma sfruttare anche quelli di forza a mio vantaggio. Ora il genio della musica si dedicava a me.

Avevamo fondato le basi di una strana amicizia: entrambi guardinghi l'uno con l'altra, ci saremmo affidati reciprocamente le nostre vite se ne avessimo avuto la necessità. L'Erik spaventoso che avevo conosciuto la prima volta che ci eravamo incontrati – ahimè, un'occasione assai infelice – non riusciva a conciliarsi nella mia mente con quello che mi leggeva Il conte di Montecristo per farmi addormentare al suono della sua voce d'angelo, ammaliante e trasudante calore. Aveva preso questa abitudine quando aveva compreso i miei timori riguardo il sonno: avevo sempre combattuto i miei demoni da sola, ma ora avere una mano da intrecciare alla mia quando tremavo per lo sforzo a cui quell'eterna battaglia sottoponeva il mio corpo esile mi faceva sentire bene. Non letteralmente – era sempre restio al contatto umano, molto più di me, se possibile (e io che avevo sempre pensato di essere un po' misantropa!) – ma sapevo che capiva lo sguardo d'orrore nei miei occhi quando mi risvegliavo da un incubo. Non pensava che fossi pazza, o malata, per le mie paure, i miei sogni, il mio tentato suicidio di tanti anni prima, l'effetto che il sangue aveva su di me. Non pensava fossi perversamente contorta, o irrimediabilmente senza speranza.

«Il sangue mi calma» gli confessai una notte. Gli avevo chiesto di restare al mio capezzale, dopo aver preso le medicine (le sue orecchie si erano tinte di un rosso fiammante nel vedermi in veste da notte, ma non aveva commentato, per fortuna). «Un tempo non era così, ma ora è diverso. Quando a dodici anni presi a pugni Claire Lambert, fui deliziata dal sangue sul suo volto e sulle mie mani.» Mi fermai. «C'è qualcosa di sbagliato in me.»

Lui attese chissà cosa prima di rispondere. «Non hai nulla che non vada, Meg. Hai solo vissuto un'esperienza molto triste, hai visto cose che una bambina non dovrebbe mai vedere. Hai sofferto come alla tua età non si dovrebbe soffrire.»

Io avevo annuito lentamente, rasserenata, e avevo poggiato il capo sul cuscino. Lui sfogliava il libro che reggeva tra le mani.

«Leggo io. Tu chiudi gli occhi, Meg.»

«Faresti questo… per me?»

Lui annuì, a disagio. Anche nella penombra, notai che aveva il collo e le orecchie arrossate. Sogghignai tra me e me, fiera dell'influenza che stavo acquisendo su di lui. Il fantasma dell'Opera che arrossiva alle parole di Meg Giry… Non potei trattenere un sorrisetto malizioso.

E così erano cominciate le nostre letture. Di solito lasciavo leggere lui. Sapeva che la lettura mi annoiava (da bambina avevo addirittura avuto difficoltà ad imparare), mentre lui era un lettore avido e appassionato, e soprattutto veloce: poteva leggere un tomo intero in una notte e memorizzarlo perfettamente. Inoltre, gli piaceva adattare la sua voce a quella dei personaggi, e ne usciva fuori una farsa degna dell'imperatore in persona. Era bravissimo con gli accenti e si vedeva che recitare per quel pubblico privato lo metteva a suo agio. Io mi limitavo a farmi cullare dalla sua voce d'angelo quando volevo che il sonno mi trasportasse, o a commentare con battute sarcastiche gli eventi del libro. Battibeccavamo furiosamente, ma questo divertiva entrambi.

Non potevo dimenticare che sapeva essere crudele, molto crudele con chi credeva suo nemico, ma allo stesso tempo mi chiedevo se questa crudeltà fosse davvero tutta colpa sua. Potevo solo immaginare quali orribili esperienze avesse vissuto – l'esistenza che conduceva era di per sé un cancro – ma pensavo che se la società fosse stata pronta ad accoglierlo a dispetto della sua deformità… Avrebbe potuto essere uno dei più grandi geni conosciuti se gli altri suoi simili non fossero scappati davanti a lui – rovinandolo, isolandolo, schernendolo e probabilmente anche sottoponendolo a vere e proprie sevizie, fisiche e psicologiche… Sì, forse la colpa era anche un po' nostra. Ma questo, il suo odio per la razza umana che lo aveva espulso dalla sua cerchia come un corpo infetto, non giustificava la morte di Buquet, avvenuta per mano della camera dei supplizi da lui ideata appositamente, o il crollo del lampadario, o la sua furia manipolatrice nei riguardi di Christine. Era un enigma insormontabile: si doveva compiangerlo o maledirlo? Io mi limitavo a fare entrambe le cose, contenta che ora non fosse più mio nemico – beh, almeno non nel senso stretto della parola. Sulla questione “Christine”, una spada di Damocle pendeva sulle nostre teste. Sapevo che le stava permettendo di vedere il visconte – io stessa avevo avvistato lei e Raoul tra le passerelle nelle quinte del grande teatro, intenti a giocare come due bambini – perché questi sarebbe partito presto per il Polo. Ma dopo cosa avrebbe fatto? Era questo il grande interrogativo. Avrebbe costretto Christine a sposarlo con la forza? Sapeva bene che non avrebbe mai potuto averla da viva. Sarebbero morti entrambi, nell'ultima, disperata tragedia?

Non potevo immaginare che stesse architettando qualcosa di molto peggiore.



Mentre leggeva, a volte mi lasciava sfiorare le cicatrici sui suoi polsi – distrattamente, come il tocco di una piuma. Ero sicura che tutto il suo corpo portasse i vessilli della guerra che doveva essere stata la sua esistenza, ma ovviamente mi curavo bene dal dirgli qualcosa al riguardo.

«Ti consideri tanto estraneo alla razza umana da non sentirti obbligato a rispettare le sue regole, non è vero? Per questo uccidi, o perlomeno hai ucciso in passato. Non è così?» ebbi il coraggio di chiedergli una volta, consapevole di poter provocare la sua rabbia. Ma non mi importava. Lui non poteva più farmi paura, e io non mi sarei lasciata comandare a bacchetta.

Come è facile intuire, nei suoi occhi passò un lampo di furia inespressa.

«Sei curiosa e indisponente come al solito, Meg Giry. Eppure sei mia allieva, dovresti aver imparato…» cominciò lui con durezza.

«Non confondermi con Christine, adesso!» lo interruppi con sdegno. «Lei poteva essere sotto il giogo del tuo incantesimo, una volta, ma ora non più, e io non ci sono mai cascata. Non sono una tua allieva. Sto provando ad essere tua amica, perché mi hai salvato la vita due volte e non posso fare a meno di… di… interessarmi, ecco, alla tua vicenda. E sono preoccupata per Raoul e Christine. Sì, hai sentito bene, anche per il visconte. È un giovane innocente, che non merita le tue astruse minacce. E di certo non le merita Christine. Non hai il diritto di agire così solo perché…»

«Perché cosa, sentiamo!» allargò le braccia, invitandomi a proseguire con fare sardonico.

«Perché gli altri ti considerano un mostro.»

«Tu stessa una volta mi hai definito tale.»

Quel ricordo mi ferì, e ferì anche lui. Dietro la maschera potevo vedere i suoi occhi divenire lucidi. Hai tanta influenza su di lui da farlo anche piangere, adesso. Complimenti, Marguerite. Chissà perché, quelle parole beffarde suonavano nella mia mente con la voce mai dimenticata di mio padre.

«Lo so, e mi dispiace. Ma come ti dissi all'epoca, un viso non fa l'anima. Perché non provi ad essere diverso?»

«Nessuno ha mai apprezzato i miei sforzi.»

«Io li apprezzerei» dissi in un sussurro.

Lui scosse la testa furiosamente, prendendosela fra le mani. Lo stavo confondendo. Ora non sapeva più cosa fare. Stavo raggiungendo il mio obiettivo: cercare di fargli cambiare i suoi propositi riguardo la situazione con Christine, turbarlo, farlo pensare a mente lucida, col senno di poi. Questo però non mi rendeva meno triste.

Mi accostai a lui, sfiorandogli una spalla.

«Erik…» dissi flebilmente.

«Lasciami, Meg Giry. Adesso Erik deve stare da solo. Per pensare, sì… Ho bisogno di meditare. Da solo.» Sottolineò queste due ultime parole con un rantolo a metà tra il rabbioso e un singhiozzo.

Voglio aiutarti, pensai, ma non lo dissi. Me ne andai mestamente, ma quella sera fu puntuale come al solito e ci accingemmo a iniziare la nostra usuale lezione di pianoforte.

«Hai svolto quegli esercizi con il polso e la mano che ti avevo spiegato?»

Annuii.

«Bene.»

Il silenzio fra noi era gelido come l'acqua del lago, ma non mi sentivo in dovere di chiedergli scusa solo perché avevo detto la verità. Era lui quello che doveva scusarsi, non certo io. E non certo con me, anche se sarebbe stato un inizio.

Vedevo l'uomo oltre la bestia, ma non potevo dimenticare la bestia. Non era ancora del tutto umano. Per quello ci sarebbe voluto il bacio di un angelo fatto donna, le sue lacrime come un battesimo, ma non era ancora arrivato il momento.

Mi ero avvicinata a lui perché avevo anch'io il potenziale per diventare una bestia, e tra due simili ci si comprende. Ma ora ecco che volevo diventare per lui… cosa, una sorta di angelo guardiano, custode della sua (non esistente) coscienza? Cacciai uno sbuffo d'incredulità che attirò l'attenzione di Erik.

«Cos'hai?»

«Nulla, è che pensavo… Sto cercando di tirare fuori la coscienza nascosta dentro di te, perché so che da qualche parte c'è, pulsa ancora, come un cuore vivo stretto in un pugno. Lo so perché altrimenti non mi avresti salvato la vita. Perché altrimenti non sentiresti il desiderio di amare, pur avendo l'incapacità di farlo nel modo giusto – non interrompermi. È anche normale: al tuo posto, con un genio come il tuo (non montarti la testa, adesso!) sarei impazzita da tempo. Tuttavia, c'è una cosa che mi sfugge.» Gli afferrai la torcia dalla mano e presi a guidarlo io attraverso i sotterranei che ormai conoscevo tanto bene.

«Cosa, Meg, sfugge alla tua mente brillante?» disse lui, sarcastico.

«Perché li odi così tanto? Intendo, gli altri. La gente normale. Cosa mai ti hanno fatto? Insomma, posso immaginarlo, ma…»

Lui mi fermò, giocherellando con i polsini del frac, che indossava sotto il solito mantello nero. Ma non stava giocando: mi mostrò le cicatrici sui polsi che ormai conoscevo bene.

«Questo è solo l'inizio di ciò che mi hanno fatto.»

Era mostruoso quanto il mostro che lo aveva ispirato – e lui è diventato un mostro per reazione. Gli coprii un polso ossuto con una mano. La mia carnagione olivastra contrastava con quella cadaverica di lui.

«Ho capito» gli dissi, ed era vero. Solo adesso iniziavo a comprendere, ma il quesito rimaneva: dovevo compiangerlo od odiarlo?

Scoprii che mi infuriava fare entrambe le cose allo stesso tempo, così decisi che gli avrei offerto un'amicizia come si fa con un lupo feroce, o con un segreto nel buio. Non sapevo che avrei finito per amare quell'oscurità, per stringerla a me, carne contro carne, come si fa con il bene più prezioso.



«Prendi il la.»

Sbuffai. Avevo le maniche arrotolate fino ai gomiti, il sudore sulla fronte e una smorfia orribile sul viso. «Te l'ho detto, non so cantare.»

«É impossibile che tu abbia un così poco senso dell'intonazione, non esiste essere umano al mondo…»

«Vuoi prendermi in giro?» Mi voltai per guardarlo, la gola roca per lo sforzo. Ci stavamo esercitando su quegli insensati vocalizzi da mezz'ora, invano. Era molto meglio concentrarmi sul Für Elise di Beethoven, a questo punto.

«Stai perdendo il tuo tempo.»

«Ne sono perfettamente conscio. Hai la voce di una cornacchia raffreddata.»

«Ma grazie, eh. Non avevi detto che per me non c'erano in serbo lezioni di canto?»

«Sì, ma non ho mai detto che non posso pungolarti.»

«Ti stai solo divertendo a mie spese.»

Si mise solennemente una mano sul cuore. «Giuro che io mai…» Poi fissò il mio volto arrossato dalla rabbia, le gote gonfie per trattenere un sospiro d'esasperazione, e scoppiò a ridere con la sua risata deliziosa all'udito, ma anche terribilmente irritante.

«Idiota» borbottai tra me e me. Questo lo fece ridere ancora di più.

«Per cortesia, smettila di prenderti gioco di me così apertamente o giuro che scaravento via questo dannato coso.» Picchiai i tasti del pianoforte con furia cieca.

«Perdonami, Madamoiselle» fece lui, ancora ridendo, «ma dovresti vedere la tua faccia in questo momento.»

«Sì, me la immagino. Uno spettacolo, proprio.» Gli lanciai un'occhiata di sbieco. «Confessa che ti stai divertendo a mie spese da mezz'ora.»

«Ebbene sì, sono colpevole.»

«Sciagurato!»

Feci per colpirlo con il libretto degli spartiti. Alla fine mi aprii anch'io in un sorrisetto.

«Sono un caso tanto irrimediabile?»

«Sembrerebbe di sì. Ma tu sbagli la postura. Alzati.»

Sollevai un sopracciglio, obbedendogli una volta tanto. Anche lui, che era seduto di fianco a me al pianoforte, si alzò, aggirandomi.

«Che intenzioni hai?» chiesi, sospettosa.

«Tu sbagli a prendere fiato. Il diaframma deve prima tendersi, poi chiudersi. Su, forza, prova. Prendi un bel respiro, come ti ho detto di fare io.»

Feci quanto lui mi diceva e diedi in un laaaaa stonatissimo che gli fece rizzare i peli sulla nuca.

«No, no, non ci siamo.» Si avvicinò a me da dietro, circondandomi la vita con un braccio.

«Sei impazzito? Che diavolo stai facendo?» gli posai una mano sul braccio per fermare la sua presa solida su di me. Erik mi ignorò deliberatamente e tastò un punto sotto il mio petto, mostrandomi come si faceva ad aprire e chiudere il diaframma.

«Ecco, così. Adesso prendi il la

In preda alla foga della lezione, non si era accorto che eravamo troppo vicini. La mia schiena era poggiata al suo petto e le sue dita si contraevano appena sotto la mia cassa toracica, all'altezza delle costole. Fui presa da un calore che nulla aveva a che vedere con la frustrazione che quella pratica esercitava su di me.

Tossicchiai. «Sì, ma così non riesco a concentrarmi.» Posai delicatamente una mano sulla sua, scostando senza violenza le sue dita dal punto dove teoricamente doveva trovarsi il mio diaframma. Lo sentii ribollire in viso anche se aveva la maschera ed era voltato di spalle.

«Oh. Scusa.»

Si allontanò da me frettolosamente e io abbandonai le braccia lungo i fianchi, sentendo un vuoto improvviso tra le costole. Maledizione, Meg. Tu sei pazza da legare. Di nuovo, la voce che suonava terribilmente simile a quella di mio padre nella testa, a farmi da lume della ragione (la beffa dopo il danno). Lui è un mostro. Non puoi essere attratta da lui in quel… in quel senso.

Attratta? Io da lui? Assolutamente no, è ripugnante.

Eppure quel che hai provato non mentiva. Non nascondere le tue emozioni.

Emozioni? Io non provo nessuna emozione. L'unica cosa che testimonia la mia pazzia interiore è il fatto che sto argomentando mentalmente con me stessa su una questione così infima!

E poi è troppo vecchio per me.

Davvero, questo mi sembra il male minore.

«Meg.»

Tacqui.

«Meg Giry.»

Voltai il capo nella direzione da cui proveniva quella bella voce. «Sì?»

«Prendi il la, adesso. Come ti ho insegnato io.»

Sospirai e tornai con la mente alla mia lezione, che ancora doveva concludersi (come il battibecco nella mia testa). Feci quanto lui mi aveva detto e di nuovo, puntualmente, stonai.

Erik si coprì le orecchie con le mani.

«É inutile. Sono un caso disperato» dissi, non senza una punta di nervosismo. Io lo avevo avvertito.

«Su questo mi trovi concorde, Meg. Ricominciamo con Beethoven.»

Mi sedetti al pianoforte e cominciai a suonare, con Erik che scandiva il tempo. Quando inciampai su una nota, lo notammo entrambi e mi fermai. Imprecai a mezza voce.

«Il linguaggio.» Se fosse stato la mia maestra delle elementari, mi avrebbe rifilato una bacchettata sulle mani per quella parolaccia sussurrata.

«Da capo.»

«Erik, ci sto provando da tre ore e non riesco a superare questo passaggio!»

«E ti dai per vinta così facilmente? Non è da te, Meg Giry.»

Sapevo che stava pungolando il mio orgoglio, che non era poco, per tentare di arrivare alla mia ostinazione. Ci riuscì, come predetto. Ripetei il passaggio del brano, e puntualmente sbagliai ancora.

«Tendi bene le dita.» Mi strinse una mano tra le sue e divaricò le dita così che potessero toccare ogni tasto di cui avevo bisogno. «E ora suona.»

Suonai con le sue mani sulle mie. Questa volta, riuscii dove dapprima avevo fallito.

«Visto? Erik ti insegna bene» mi disse, e quasi potevo udire il sogghigno nella sua voce.

Sì, ma mi sto di nuovo deconcentrando, pensai mentre le mie mani erano ancora raccolte tra le sue. Diedi in un brivido. Lui si scostò subito.

«Scusa. Dimentico il freddo.»

«Non si tratta di questo.»

«E di cosa, allora?» chiese, sinceramente curioso. Non aveva capito.

Sbattei le palpebre, come se mi fossi appena ridestata da un sogno. «Nulla. Lascia perdere.» Mi alzai e gli tesi lo spartito.

«Domani suoneremo un po' di Brahms.»

«Che gioia.»

«Mostra un po' più di entusiasmo, piccola ballerina.»

Alzai i pugni in aria e applaudii come una scimmietta ammaestrata. Lui ridacchiò ancora, ed era un bene. Mi piaceva sentirlo ridere in quel modo sincero, genuino.

«Vieni. Ti accompagno nella tua stanza.»



Era passata la mezzanotte quando ritornai in camera mia, fremente di una voglia che non riuscivo a confessare. Mi maledissi in tutte le lingue che conoscevo (e non erano poche: se c'è una cosa che si impara vivendo in un teatro, sono le imprecazioni nelle lingue delle opere liriche) e mi infilai nel letto, rannicchiata come una tartaruga nel suo guscio. Quella volta avevo abbandonato la compagnia di Erik e del nostro conte di Montecristo, dicendogli che sarei crollata subito dal sonno e che non avevo bisogno del suo aiuto per dormire sonni tranquilli. Mentivo, ovviamente. Mi diedi della matta mille e mille volte, in modo alquanto masochista. Quel che avevo provato oggi a lezione era un brivido che avevo avvertito di rado nella mia vita: era difficile eccitarmi fino ad avere una mia risposta fisica a un semplice tocco, per di più innocente. Non ero timida: con Luc mi ero trovata in situazioni assai più… intime, e non ero arretrata né ero arrossita in quel modo puerile che mi faceva sentire nervosa come una vergine prima della sua notte di nozze. Era ridicolo. No, era malsano. Dovevo essere ammattita.

Forse è perché dopotutto è un uomo, mi dissi con convinzione. Non mi trovavo così vicina a un uomo da una vita. Lui era stato così concentrato sulla lezione che non si era accorto dell'effetto che la sua sola presenza fisica aveva avuto su di me. Mi chiesi quale sarebbe stata la sua reazione se mai avesse toccato Christine in quel modo – innocente, eppure tangibile. Di sicuro cadrebbe a terra svenuto. Ma per me non prova nulla, dunque…

E meno male, aggiungerei.

Mi rigirai tra le lenzuola, pensosa. Forse aveva già toccato Christine in quel modo. Cosa potevo saperne io? Di certo non andavo a chiedere ai due diretti interessati.

A lei aveva dato lezioni di canto. Ora si limitavano a riunirsi in consessi musicali che dovevano essere di straordinaria bellezza, ma che al resto del mondo erano preclusi. Non potevo sapere se Erik avesse mai toccato Christine nello stesso modo, come un maestro eppure così vicino… Sentii una fitta di rabbia al pensiero. Gelosia? Non lo credo possibile. Sarei stata comunque più contenta se si fosse tenuto lontano da Christine, e probabilmente così era. La venerava troppo per sfiorarla anche solo con il pensiero. Io, d'altro canto, ero per lui molto più terrena, una presenza viva e fisica al suo fianco. Ma per fortuna, lui non provava alcun interesse di quel tipo nei miei confronti. Non volevo essere io la vittima delle sue scenate e manipolazioni, grazie tante. Purtroppo a Christine, dolorosamente bella e gentile, era toccata quella parte.

Ripensai alle parole con cui Erik mi aveva ragguagliato sul suo concetto di musica. C'era una musica nella quale ci si abbandonava ad uno strano languore, un misto di dolore ed efferata passione, che lui chiamava la musica della notte. Immergiti in questa musica, cosicché nessuno potrà più farti del male. Usala come scudo, come un'arma, come un amnio protettivo. Abbandona i sensi…

Era difficile per me capire quel concetto. Non riuscivo a convergere le mie emozioni nella musica così come nella danza. Forse ero ancora troppo dilettante per trasferire le mie emozioni sul pianoforte, per imbeverne ogni nota come nel mio sangue. Eppure, a dire di Christine, Erik era riuscito a creare questa musica sublime, superiore, eccelsa, col suo Don Giovanni trionfante. Non avevo ancora osato parlargli del suo capolavoro, che lui intendeva portare con sé nella tomba. Viveva solo per completarlo. Ma ora che aveva trovato Christine, c'era un'altra ragione per lui di vivere. E con lui, prendeva vita il fantasma.


Quella notte non dormii che a tratti, e fui preda di sogni intoccabili alla luce dell'alba. Mi svegliai madida di sudore, senza ben sapere cosa avessi sognato, tra le cosce un calore innominabile. Deglutii e andai a rinfrescarmi, per poi indossare un semplice abito nero. Avevo acquistato dei fiori il giorno precedente, e speravo non fossero già appassiti. Quella mattina mi ero preposta una missione: avrei portato quei fiori sulla tomba di mio padre, dove non mi recavo da tanto tempo, per il giorno del suo compleanno. Scesi all'alba, i corridoi dell'Opera ancora deserti, e salutai mia madre con un bacio, dicendole che andavo a fare una visita in chiesa. Lei si accigliò subito, dal momento che sapeva che non ero religiosa. Ma io non volevo ancora dirle del percorso che stavo facendo per riconciliarmi con la memoria di mio padre – non a metà percorso, perlomeno. Magari glielo avrei detto quando sarei tornata dal cimitero. Infilai i fiori sotto la cappa di lana nera e uscii senza fare colazione. Presto mi trovai in place de l'Opéra, dove il palazzo Garnier si stagliava come una montagna d'oro e marmo su una valle invasa da una nebbia ingombrante. Feci per fermare la prima fiacre che passava di lì, quando udii il mio nome nella nebbia.

«Madamoiselle Giry!»

Mi voltai, e vidi con stupore che chi si stava avvicinando a me a grandi passi, un po' ansante, era il cosiddetto Persiano, che non incontravo a tu per tu da prima del ritorno di Christine. Ricordai quel giorno in cui, insieme al visconte di Chagny, avevo avvistato Christine in una fiacre, e dei miei tentativi per convincerlo che non si trattava della nostra amica in comune – che non poteva essere lei, dal momento che Christine era “ammalata”.

«Monsieur» lo salutai con un lieve inchino, sorpresa.

«Sono Nadir Khan. Rammentate, Madamoiselle?»

Annuii. Come potevo dimenticare? Lui mi strinse amichevolmente la mano.

«Dovete essere ben lieto che Christine Daaé si sia ripresa dal suo malore, Monsieur» dissi, ricordando che l'ultima volta mi aveva chiesto di lei, e di come era impallidito quando, con sarcasmo, avevo detto che era sparita così d'improvviso che a rapirla poteva essere stato solo un fantasma…

«Infatti» rispose lui, ma non pareva assai più sollevato di prima. Era, anzi, piuttosto terreo in volto.

«Vi confesso che non è per lei che mi rivolgo a voi oggi, Madamoiselle.»

In effetti era strano. Cosa ci faceva all'Opera ad un'ora così inconsueta?

Glielo chiesi, e lui sorrise, incerto. «Vi cercavo, Madamoiselle Giry.»

«Cercavate me?» dissi io, stupita.

«Esatto» riprese lui. «So che può sembrarvi strano, ma è così, credetemi.»

«Vi credo. Quale ne è la ragione, se posso?» chiesi. Parlare in modo così formale mi dava una strana sensazione.

Lui si chinò su di me – notai che doveva essere poco meno alto di Erik, il che era comunque considerevole – e mormorò: «Conosco la vera identità del fantasma.»

A queste parole raggelai. Come poteva essere? Chi mai era quell'uomo, e cosa sapeva in verità?

«Non vi capisco, Monsieur» dissi, fingendomi indifferente. Forse, se fossi stata noncurante…

«Ahimè, penso che capiate troppo bene, invece» disse lui in tono mesto. Ad una folata di vento, si sistemò il cappello di astrakhan sul capo. «Conosco Erik, purtroppo. E so che lo conoscete anche voi, sebbene forse non bene come pensate.»

Arretrai d'un passo. Sa il suo nome!

«Chi siete voi, Monsieur?» Non potei fare a meno di mettermi una mano sul cuore.

«Nadir Khan, Madamoiselle. Una vecchia conoscenza di Erik.»

Rabbrividii e mi strinsi nella cappa di lana. «Come fate a conoscerlo?»

«Era quello che volevo chiedervi io stesso, oggi.» Il Persiano chinò lo sguardo perforante dei suoi occhi verdi su di me. Erik, che cosa hai fatto?, mi chiesi. Quell'uomo, quello straniero, non sembrava avere tuttavia un'aria ostile. Più che altro, mi apparve alquanto perplesso e preoccupato.

«Conobbi Erik nella mia madrepatria. Fui io stesso a portarlo a corte, per ordine dello Shah di Persia. Si era sparsa la fama che il più grande prestigiatore del mondo soggiornasse a quel tempo in Russia, e così era. Io ero un daroga – il capo della polizia, ossia – alla corte di Persia.»

Impallidii. Non pensavo di ritrovarmi dinanzi a un uomo tanto importante.

«So che Erik ha viaggiato molto» annuii, e sapevo che conosceva, tra le tante, anche la lingua persiana. Con quelle nozioni, era facile fare due più due.

«Madamoiselle – Marguerite, posso chiamarvi così?»

Annuii, mentre lui mi prendeva una mano tra le sue. Ora appariva sinceramente allarmato.

«Non sapete in cosa vi siete immischiata. Non so con quali lusinghe egli vi attiri nella sua tomba…»

«Nessuna lusinga, Monsieur, ve lo posso assicurare.»

«Ebbene, sono false. Erik commise molte atrocità in Persia, per ordine della piccola sultana. Io stesso ho visto con i miei occhi la camera dei supplizi che costruì per lei.»

«Di questo sono consapevole, Monsieur. Io stessa ho veduto quella che voi chiamate la camera dei supplizi. Ci sono entrata.»

Lui mi fissò sconvolto, lasciandomi la mano. «E siete l'unica ad esserne uscita viva, a mia memoria. Ma se sapete tutte queste cose, allora perché…» Deglutì, ancora stupefatto. «Vi ho vista attraversare con lui il lago. Io ero ben celato, poiché egli mi ha avvertito di non venir più a “ficcanasare” dalle sue parti, così lo tengo d'occhio di nascosto.»

«Diciamo che anch'io lo tengo d'occhio.»

Lui mi guardò con aria interrogativa.

«So che Erik è pericoloso. So che ha commesso molte azioni riprovevoli – io stessa l'ho richiamato su molte di queste, tra cui quelle commesse ai danni della mia amica Christine. Sapete certamente quel che è accaduto, e che accade tuttora, tra lei ed Erik.»

«Sì, so tutto. Anche se lui mi ha giurato che non le ha torto un capello, vedo che il cuore di lei appartiene a un altro.» Strabuzzò gli occhi. «Allah solo sa cosa Erik farebbe se condotto alla disperazione.»

«Vedo che siamo d'accordo, Monsieur Nadir.»

«E allora come…?»

«É una lunga storia.» Mi mossi, a disagio. Per capire il rapporto nato tra me ed Erik, avrebbe dovuto sapere di mio padre e del mio tentato suicidio. «Mi ha salvato la vita due volte, Monsieur. Prendo con lui lezioni di pianoforte, tutto qui. Voi certo sapete che è un prodigio musicale.»

«Un prodigio in molti campi» aggiunse lui, cupo.

«Ebbene, il mio povero padre defunto era un pianista, e sto tentando di riconciliarmi con la sua memoria. È un discorso difficile da comprendere se non sapete il principio di questa storia…»

Rabbrividii ancora.

«Ma voi tremate, Madamoiselle Marguerite. Vi prego, accettate il mio invito ed entriamo in quel caffè. Per non farvi gelare.»

Acconsentii di buon grado – la temperatura stava scendendo rapidamente – e mi accomodai nel locale insieme al Persiano. Chi avrebbe mai potuto prevedere un simile scenario, quella mattina?

Gli raccontai di come ero venuta a conoscenza dell'esistenza di Erik, e lui mi parlò invece di quando gli salvò la vita in Persia, tra tante cose.

«Lo Shah gli aveva comandato di architettare per lui una dimora ideale, colma di così tante botole e trabocchetti che il sultano poteva spiare chiunque e ovunque volesse. Non v'erano segreti in quel palazzo. Erik era un genio nel costruire certe bizzarrie architettoniche, tanto che da noi lo chiamavamo con un nome che significa “il signore delle botole”. Ma lo Shah non era soddisfatto: voleva far uccidere Erik perché i segreti del suo castello rimanessero sconosciuti a chiunque sulla terra, in particolare ai nemici di Persia, che avrebbero potuto impadronirsene per i loro scopi. Lo Shah era crudele e sua figlia, la piccola sultana, si era stancata di Erik, che era il suo “intrattenitore di corte”, promosso poi a sicario e maestro delle torture. Io gli salvai la vita, a patto che non commettesse più alcun delitto, facendo in modo che partisse per la sua madrepatria e che lasciasse dietro di sé un finto cadavere. Come potete immaginare, non mi è stato difficile trovarne uno rassomigliante.»

Bevvi un sorso di tè e annuii.

«Se conoscete la verità su Erik, sul mostro ch'egli è, allora perché continuate a… a frequentarlo?»

«Per la stessa ragione per cui voi gli avete salvato la vita, immagino.»

Lui ammutolì, sorbendo a sua volta il suo tè.

«Non voglio essere indiscreto…» disse lui, esitante, e da quel momento seppi che lo sarebbe stato suo malgrado, «… ma riguarda in qualche modo ciò che è accaduto a vostro padre? So che era un pianista rinomato all'Opera Le Péletiér.»

«Sì» dissi io, chinando il capo. «Ma voi come sapete…?»

«Quando vi ho vista attraversare per la prima volta il lago sotterraneo con lui, ho collegato il tutto alla vostra amicizia con Madamoiselle Daaé. Doveva pur c’entrarvi qualcosa. Ho fatto qualche ricerca su di voi.»

«Sì, ma quel che io ed Erik condividiamo è estraneo a quanto tuttora accade con Christine.» Lo guardai fisso nei suoi begli occhi. «Erik mi ha salvato la vita due volte. Non posso spiegare molto, se non questo. Non mi farebbe mai del male, neanche se oltrepassassi i limiti. Già l'ho fatto, e sono ancora qui per testimoniarlo. E rammentate» soggiunsi, seria, «io sono sempre dalla parte di Christine. Quel che faccio è anche per lei.»

Ci lasciammo sulla soglia del caffè. Erano le undici inoltrate, avevamo parlato a lungo, ma non importava. Ora sapevo che avevo un alleato nella lotta contro Erik.

Il Persiano, Nadir Khan, mi accompagnò fino alla fiacre, offrendosi di pagare – malgrado le mie proteste – il viaggio d'andata.

Poggiai la testa sul finestrino, sussultando ad ogni minima scossa. Ero una triste figura, nel cimitero, con indosso la mia cappa nera. Attraversai quel mausoleo di statue monumentali, la nebbia che saliva in spirali sempre più fitte di serpenti aggrovigliati. Finalmente mi fermai alla tomba di Claude Giry. Non era in territorio consacrato, come si conviene a un suicida. Vicino alla lapide c'erano ancora i fiori che mia madre gli aveva portato la settimana prima – lei si recava a salutare la tomba di mio padre molto più spesso di me. Ecco con cosa ci aveva lasciato: ricordi di polvere e una tomba sconsacrata e fiori appassiti, ma non gliene facevo una colpa. Più che altro, me la prendevo con chi avrebbe dovuto guarire il suo male, ma non ci era riuscito. Quel cancro aveva finito per consumarlo come la tubercolosi avrebbe fatto con qualsiasi altro malato. Nessuno era stato in grado di curarlo.

E chi saprà curare te quando…?

Distolsi con disperazione quei pensieri dalla mente. Non adesso, non adesso. Li odiavo: pensieri come spilli, ferivano con meticolosità omicida.

Posai i fiori sulla lapide di mio padre, e sul suo marmo vuoto potevo quasi leggere a chiare lettere: suicida. Vergogna su di lui e su tutta la sua famiglia.

Il giorno del funerale, mentre mi stringevo a mia madre nel mio abito nero come il mio sguardo, avevano gettato la sua bara appena fuori dal cimitero, nella terra dei suicidi. I suoi fratelli lo stavano aspettando con ansia. Rammentavo i sussurri delle altre allieve ballerine, quando si chiedevano se la figlia del suicida avesse anche lei qualcosa che non andava. Il ricordo di come le avevo fatte tacere – pugni e parole di veleno – mi raschiava la pelle dell'anima. Il colore del sangue andava a tingere, come sempre, quei macabri ricordi.

Ricordai invece quando avevo suonato con Erik le medesime melodie che suonavo con mio padre, e il risultato era impressionante per qualcuno che aveva ripreso le sue lezioni solo da poche settimane, questo dovevo ammetterlo. Quel pensiero mi diede conforto: esattamente il motivo per cui avevo cominciato quelle lezioni di pianoforte, perché mi rassicurassero.

«Sei in ritardo. Perdi molto tempo nel tuo lutto.»

Sospirai e mi voltai, trovandomi faccia a faccia con un'ombra familiare. Era vestito di nero come la sottoscritta, imbacuccato in una sciarpa e in un largo cappello di feltro. Il suo volto non era visibile se non ad una stretta vicinanza.

«Erik.»

Ci eravamo dati appuntamento proprio al cimitero, ma quasi sobbalzai quando me lo ritrovai davanti. Il giorno prima, senza molti preamboli, mi aveva detto che avrebbe voluto mostrarmi “una cosa”, ovviamente senza spiegarmi di cosa si trattasse, ma io gli avevo riferito la mia volontà di andare a far visita alla tomba di mio padre. Se fosse stato ancora vivo, avrebbe compiuto cinquantadue anni.

«Ci hai impiegato molto per arrivare qui. Ho atteso a lungo il tuo arrivo. Eri esitante?»

«No, ho solo trascorso qualche piacevole ora in compagnia di una tua vecchia conoscenza.»

Lui non ci mise molto per capire di chi si trattasse.

«Nadir. Il daroga» disse, rabbuiato. «Ti ha raccontato delle cosiddette “ore rosa di Mazenderan”? Di come ho fatto ridere la piccola sultana, o qualche altra storia dell'orrore sul mio conto?»

«Mi ha raccontato abbastanza, ma io non mi faccio impaurire così facilmente.»

«Temevo che…» si morse un labbro, che sulla sua pelle era come una cicatrice. I suoi denti, che attraverso la maschera si scorgevano a malapena, erano di un inquietante giallastro. Probabilmente non importava quanto lui se li lavasse, rimanevano sempre di quel colore.

«Che avrei dato di matto alla rivelazione delle tue disavventure in Persia? Niente che già non immaginassi, non temere.»

«Quindi continueremo le nostre lezioni.» Appariva vagamente speranzoso.

«Certo. Non ho intenzione di perderti d'occhio.»

«É solo una scusa per controllarmi?»

«No, ma in tal proposito è un ottimo diversivo.»

Ci avviammo tra i viali alberati del cimitero. La nebbia copriva le foglie di un mantello argentato, fumoso alla luce rivelatrice dei raggi del sole mattutino, tiepido come solo il sole di Aprile sa essere.

«Monsieur Nadir mi ha detto che in Persia hai commesso svariate atrocità. Te ne penti mai?»

Mi basterebbe solo questo. Dimostrami che in fondo sei umano; che non mi sono sbagliata sul tuo conto. Che la bestia nel tuo cuore non ha ancora preso del tutto il controllo.

«Sì, molte volte» disse lui, con la voce venata di tristezza.

La fiacre ci attendeva appena fuori dal cimitero. Erik mi aiutò a salire e poi saltò su egli stesso, rifilando un comando veloce al cocchiere.

«Dove vuoi portarmi?» chiesi, curiosa e guardinga.

«Voglio mostrarti una cosa.»

«Questo lo so. Potresti essere più dettagliato?»

«Attendi solo qualche altro minuto.»



Arrivammo in place de l'Opéra che era quasi mezzogiorno: avevo perso metà giornata per colpa sua.

«Andiamo. Cos'hai di tanto mirabolante da mostrarmi?»

Lui mi prese gentilmente per un braccio e scendemmo dalla fiacre. Erik pagò il cocchiere (con i soldi confiscati ai direttori col ricatto, probabilmente), mentre quest'ultimo si limitava a guardare stranito il gentiluomo ammantato di nero e la donzella che gli stava alle calcagna, poi mi trascinò con sé verso Rue Scribe. Svoltò in un vicolo deserto, fermandosi dinanzi a un'imponente grata. Il lucchetto che la serrava era chiuso con molteplici catene, ma Erik sembrava avere tra le mani la chiave giusta. Lo aprì, e con esso la grata.

«Eccoci arrivati.»

«Un'altra strada per il tuo sotterraneo, immagino.»

Lui annuì.

«Quindi è da qui che passa Figaro quando viene dalle tue parti.»

«Esattamente.»

Ci inoltrammo attraverso le tenebre, ma lui tirò fuori prontamente una miccia dal mantello e con essa accendemmo una torcia che trovammo lì sul selciato, non certo per caso. Scendemmo sempre più in basso, dove la gettata del lumicino non arrivava. Il pavimento si faceva sdrucciolevole ai lati, dove scorreva un rivolo proveniente dal grande lago sotterraneo. Tutto il passaggio somigliava a quello che si può trovare in una fogna, solo con meno lezzo e pochi topi e ragnatele.

«Perché mi stai mostrando questo passaggio, Erik?» chiesi, sinceramente stupita.

«Secondo te, qual è la ragione?»

Si fida di me, e vuole dimostrarmelo.

«Devo essere pazza per seguirti. Secondo te lo sono?» gli chiesi con voce appena udibile oltre il flusso inondante dei miei pensieri.

Si voltò verso di me – nel buio, i suoi occhi erano come stelle sulla distanza.

«Mia cara, tu sei sana di mente quanto me» disse, stringendomi la mano che gli tendevo per superare un passo invaso dall'acqua lacustre.

Chissà perché, questa risposta non mi rassicurava affatto.



Note dell'autrice:

* Il titolo di questo capitolo è un chiaro riferimento al romanzo russo Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov.


Alloooora, rieccomi dopo le solite due settimane di attesa. Questo capitolo è molto… particolare, perché per la prima volta Meg si rende conto di essere – in qualche modo assai contorto – attratta *rullo di tamburi* da Erik. Ma cosa l'affascina, con esattezza, della sua persona? Non certo l'aspetto! Voi che dite? :D

Malinconica: Non preoccuparti se non hai recensito un capitolo, per me è già meraviglioso che tu ne recensisca soltanto uno! XD Nel senso che mi fa tanto piacere che poi rischio di montarmi la testa, capisci. XD Eh sì, è sicuramente dolce il gesto di Erik di salvare la ragazza che poi, tra amore e odio, prenderà sotto la sua ala protettiva. Spero che non sia troppo OOC, considerato che è qualcosa che fa perché si identifica nel dolore di Meg – lo ha ammesso lui stesso – e perché poi si tratta della figlia di Madame Giry. Di certo non è diventato un "eroe" o "buono" da un momento all'altro – ricordiamo che è sempre quello che in inglese si definirebbe un "anti-villain", ed è anche per questo che ci piace tanto. ^^ Grazie per il tuo in bocca al lupo (crepi! ^^): ormai la scuola è agli sgoccioli e gli esami sono alle porte, ma confido di superare questa prova. Un bacio, e al prossimo capitolo. **



bibliofila_mascherata:
Che bello sapere che questa storia ti appassiona tanto! Eh sì, Meg ed Erik sono una coppia di pazzi. XD Si esasperano l'un l'altro, ma in fondo sono legati. Che ne dici di questo capitolo, dove il loro rapporto finalmente prende una piega più… romantica (almeno da parte di Meg; Erik è ancora – e lo sarà per un bel po' – occupato a perseguitare la povera Christine)? Non temere, questa storia non diventerà mai uno sdolcinato raccontino d'innamorati… Almeno non subito. E sappiamo già (dal prologo, se ricordi) che finisce male. Okay, taccio. Non voglio spoilerare nulla. Sappiate solo che vi farò soffrire tutti, e molto – MUHAHAHAHA! XD Al prossimo capitolo. **
   
 
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