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Autore: Jareth01    06/06/2016    1 recensioni
«Se solo… li avessi io, i tuoi dannati poteri! Vorrei controllare il tempo, vorrei mettere sottosopra il mondo intero! Così capir…» non fece in tempo a finire la frase, che la vista le si appannò; si sentì cadere, sprofondare sempre più in basso, finchè non perdette completamente i sensi.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jareth, Nuovo personaggio, Sarah, Toby
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAP. 6
 
 
 
L’orologio scoccò la sua undicesima ora: undici dannate ore dall’inizio di quella storia intrapresa per sbaglio. Sette ore passate ad affrontare le insidie del labirinto, un’ora in compagnia di una regina che non riusciva ad odiarlo, né tantomeno trovava il coraggio di amarlo; tre ore rubate al tempo, insensatamente, non per metterlo in difficoltà ma forse per aiutarlo – o, semplicemente, portarlo più velocemente alla sfida finale. Un atto di fiducia reciproca: io ti porto alla città di Goblin, tu mi porti a casa. Un patto sottinteso per non lasciare al labirinto un’altra preda, e per levare alla magia un altro carnefice.
L’aria era pesante e immobile lì, tra i vicoli di quell’agglomerato di minuscole case che Jareth stava attraversando: il silenzio irreale lo rendeva incredulo, facendogli riconoscere a stento la cittadina dove abitava il suo popolo. Dove erano finiti tutti i goblin che di solito riempivano quelle strade polverose?
Sembrava esser diventato un regno dominato da spettri, spettri che assumevano la forma delle storte e fragili costruzioni in pietra e legno, delle buffe e grigie fontane o degli orologi malfatti onnipresenti sulle colonne degli edifici. Lui, spettro tra gli spettri, continuava a camminare, sopraffatto dalla magia del luogo che, per la prima volta, vedeva con occhi umani. Lo sovrastava il cielo dell’Underground, sempre intenso e tenebroso, ricco di nubi che viravano dal blu all’arancio: un cielo che, nel sopramondo, sarebbe potuto essere ammirato solo in un dipinto di William Turner.
Proseguendo, si accorse che, in effetti, non era completamente solo: dei rumori sordi e cupi, più di una volta, avevano accompagnato i suoi passi. Erano rumori di porte che si chiudevano: evidentemente, dei goblin erano nascosti nelle proprie case, spaventati. Per lui? Non era logico. Ma allora per cosa? In ogni caso, non era un buon segno.
Un gatto nero, accovacciato sul comignolo di una casa, lo osservava, nobile e silenzioso.  Jareth non si accorse della sua presenza.
 
 
Arthur riprese la sua forma umana, osservando da lassù la città di Goblin ancora per un momento, prima di ritornare, con uno schiocco di dita, alla sua dimora.
Era una villa dall’aria antica - e di sicuro lo era più di quanto si potesse immaginare - ai margini di uno dei regni più misteriosi dell’Underground, che per ora non occorre rivelare. La struttura era evidentemente stata abbandonata da secoli ma, nonostante ciò, resisteva piuttosto bene alla corrosione del tempo, aiutata dal clima pressoché privo di intemperie del sottomondo. Somigliava molto ad un’antica domus romana: era sorretta da numerose colonne, aveva un piccolo giardino interno e le pareti, non prive di arcate cieche, erano adornate da numerosi affreschi dai colori caldi e a sfondo rosso, con scene raffiguranti segreti e ancestrali riti misterici.
Arthur, scoperta quella villa durante uno dei suoi primissimi viaggi nell’Underground, aveva deciso di occuparla, facendone il suo rifugio: si sentiva a suo agio tra quelle misteriose mura, e ne aveva aumentato il fascino raccogliendo lì gli oggetti ed i manufatti più strani e caratteristici che avesse mai visto nei mondi a lui conosciuti. Tra le altre cose, non mancavano statue e stele risalenti ai tempi dei faraoni e raffiguranti la dea gatto Bastet: un particolare modo di celebrare un culto di se stesso e della magia, che gli aveva donato proprio quella forma.
Stanco, si sedette su un mobile che somigliava ad un divano, mormorando tra sé e sé: «Illuso, illuso e patetico». Si sciolse il fiocco nero che aveva al collo, per poi mettersi una mano tra i capelli. «Per non parlare della ragazza: le do tutto il potere del mondo e lei per cosa lo usa? Per aiutare quel fae a tornare al suo posto?» sospirò.
«Gli umani mi deludono sempre di più: fanno di tutto perché non cambi mai nulla». Era davvero innervosito: non riusciva a capire le scelte di Sarah. «Ma quei due si sbagliano, se credono che collaborare li aiuterà. Si sbagliano di grosso». Prese un grappolo d’uva da una coppa di frutta e si alzò: con calma, andò ad osservare il giardino della villa, appoggiando la schiena ad una colonna.
«Il re si era innamorato della ragazza e le aveva dato certi poteri… una bella storia» meditò. Poi scrollò la testa, con un sorrisetto nervoso.
«Povero Jareth. Sarà proprio la ragazza a rovinarlo».
Detto questo, strinse forte i pugni, strizzando contro il palmo gli acini d’uva che aveva in mano. Il succo rosso, simile a sangue, schizzò copiosamente sui vecchi scarponi e macchiò la sua mano, riempiendola di mille, minuscole vene di liquido rosso.
 
 
Il fae arrivò alle porte del castello oltre la città di Goblin: imponente, tetro e sinistro, era l’unico posto che sentiva di poter chiamare “casa”; ad accompagnarlo, un senso di apparente calma, come a volte si può provare prima di un’importante prova. Fece un gran respiro, per poi aprire la porta, priva di guardie, ed attraversare il lungo e buio corridoio che l’avrebbe portato dritto alla sala del trono.
Entrato nella sala, la trovò completamente vuota, come si aspettava. Dopotutto, Sarah sembrava apprezzare le tradizioni. Come per le vie della città, anche da quelle mura emergeva un grande senso di desolazione, misto ad una leggera malinconia e ad un sentimento di appartenenza nel ritornare a vedere il suo vecchio trono. Soffermandocisi, delicatamente lo accarezzò: chissà come se l’era cavata la ragazza, seduta al suo posto. Uscì di lì, proseguendo in quella parte del castello che, sapeva, sarebbe sboccata sulle scale di Escher.
Eccole: una vista che diede quasi le vertigini ai suoi nuovi occhi umani. In piena penombra, enormi e assolutamente prive di orientamento e di vie d’uscita visibili: una delle parti più meravigliose del suo labirinto. Il timore che incutevano,che finalmente poteva provare sulla propria pelle, diede un certo senso di soddisfazione al suo lato più oscuro e tenebroso. Lo distolse dai suoi pensieri il tintinnio di un cristallo: vide una sfera scagliarsi sulle scale, rimbalzando più volte sui gradini. Alzò quindi gli occhi, trovando Sarah.
«Ti aspettavo», disse la ragazza: fu solo un attimo, poi cominciò a scendere quel groviglio di scalini, a grandi passi; il fae, cercando di starle dietro, la seguì, velocizzando la sua andatura.
Era piuttosto complicato attraversare quelle scale anche quando, come nel suo caso, ne si conoscevano i segreti: si aveva sempre la tentazione di entrare nei numerosi portali che, però, avrebbero riportato lo sventurato all’inizio della sala.
Sarah, arrivata in una parte centrale della folle costruzione, si voltò, vedendo che Jareth l’aveva quasi raggiunta. Accennò un sorriso, poi saltò nel vuoto.
E’ il momento, pensò il fae. Si buttò anche lui, da un’altezza che sembrava infinita.
 
 
L’accelerazione di gravità diminuiva man mano che  il fae si trovava più vicino alla piattaforma di arenaria; le scale, ridotte in pezzi, fluttuavano nel vuoto. Lì, in quel luogo che sembrava esser riuscito a scappare dalle leggi dello spazio-tempo, doveva svolgersi la battaglia finale.
Sarah non si fece attendere: apparve da dietro un portale, con incedere minaccioso ed uno sguardo davvero poco amichevole. Una regina del labirinto perfetta. Fece un debole cenno d’assenso con la testa, come per dire al suo avversario: “inizia pure”. Jareth cominciava a prenderci gusto. Beffardamente, rispose alla provocazione:
«Ridammi il mio trono».
«Sconfiggimi» rispose Sarah, più decisa che mai, senza smettere di fissarlo negli occhi. Sconfiggimi sul serio, fallo – sembravano dire, e anche presto. Era uno di quegli sguardi che non lasciava adito ad alternative e, benché avrebbe potuto pressoché terrorizzare molti, nascondevano anche un’implicita richiesta d’aiuto. Non potendo più sostenerli, Jareth distolse lo sguardo.
«Con rischi indicibili e traversie innumerevoli, ho superato la strada per questo castello oltre la città di Goblin. La mia volontà è forte come la tua, e il mio regno altrettanto grande…» si interruppe.
Tu non hai alcun potere su di me! Coraggio, dillo! Che aspetti? Sarah era terrorizzata.
Il fae le rivolse un grande, malizioso sorriso. Il suo viso era al massimo dell’ilarità.
«E se non volessi sconfiggerti?» fece, gironzolandole intorno. «Dopotutto, anch’io ti tratterrei con piacere da queste parti» continuò, mordendosi un labbro.
«C-come osi… non vorrai…» Sarah tremava: non avrebbe dovuto fidarsi di lui. Perché l’aveva fatto? Che stupida che era stata!
«Suvvia Sarah, non avrai davvero creduto che volessi riportarti a casa» alzò un sopracciglio. «Non hai nessuna offerta per me?» continuò, sempre più malizioso.
Sarah era ormai furiosa. «Attento Jareth, bada a ciò che fai! So essere crudele anch’io, molto più di te, se voglio. E non esiterò ad esserlo!» urlò, stringendo i pugni. A questo punto, però, vide il volto del fae quasi non riuscire più a trattenere le risate e rivolgerle una buffa smorfia di scherno.
…Stava scherzando. Proprio in quel momento, in mezzo al nulla, nel pieno di una formula… aveva deciso di prenderla in giro. Idiota. La ragazza tirò un lungo sospiro, calmandosi. Lui mostrò i suoi denti brillanti in un ultimo sorriso. Poi tornò serio, anche troppo serio, e Sarah continuò ad aspettare le parole che le avrebbero fatto abbandonare il labirinto, per sempre. Era il momento.
«Tu non hai nessun potere su di me.»
I due erano rigidi e immobili, aspettando che tutto, da un momento all’altro, scomparisse. Ma non succedeva nulla. Sarah era – a dir poco – allarmata, Jareth rimase pietrificato, in lieve stato di shock. Ripetè la formula.
«Tu non hai nessun potere su di me».
Nulla, non succedeva nulla. «Tu non hai alcun potere su di me… tu non hai alcun potere su di me!»
Avrebbe potuto continuare a ripeterla un’infinità di volte, ma non sarebbe successo nulla. Capì che Arthur, da abile giocatore, era riuscito con poche mosse a tender loro scacco matto, poiché la magia non si può ingannare, e la formula non sarebbe mai diventata vera: Sarah aveva sempre avuto fin troppo potere su di lui.

 
 
 
***
Nda: visitatori del Sopramondo, siete ancora qui? Beh, allora grazie per aver letto! Tutte le recensioni e/o interazioni varie sono graditissime. Spero davvero che la storia vi stia piacendo.
Alla prossima!
Giusi
   
 
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