La folla si stava accalcando intorno alla gabbia al centro
dell’arena, e quando alcuni uomini in armatura argentata si avvicinarono per
farla disperdere e allontanare, un brusio di dissenso provenne dagli spalti in
agitazione. Cori e grida, fischi misti ad applausi: la gente che si trovava a
osservare l’uomo all’interno della grata non sembrava aver esattamente preso
posizione, a lei bastava azione, movimento, sangue, non importava il vincitore
in quella circostanza. Con il passare dei secondi, la tensione divenne quasi
insostenibile e il desiderio dei presenti di assistere alla gara superò la
pazienza dei più tranquilli. D’un tratto giunse un uomo dai corti capelli scuri
con sulla testa una corona dorata, che sfoggiando la sua lunga tunica bianca
decorata con spille in puro oro, alzò un braccio per salutare il pubblico
numeroso. Un’esaltazione generale rispose al gesto del Re del regno e
finalmente, due cavalieri si diressero verso il grosso lucchetto della gabbia e
liberarono colui che vi era all’interno. Un improvviso silenzio avvolse
l’arena: il pubblico tratteneva il fiato, il Re attendeva in piedi e sorridente
e il vento soffiava soltanto per spostare la sabbia sul terreno e ricreare un
gioco di taciti ululati in quegli attimi glaciali. Il sole batteva forte sulla
schiena nuda dell’uomo che a piccoli passi provò a uscire dalla gabbia con un
braccio a protezione degli occhi. Lì dentro aveva vissuto diverse ore
completamente nell’oscurità a causa degli spessi teli che coprivano le grate,
dunque il calore di quei raggi gli si avventò sulla pelle come un
parassita, entrando in contrasto con
l’aria tetra e i brividi che lo assalirono. Era chiaramente ferito, gli ematomi
sui fianchi erano ancora visibili e le cicatrici di decine di frustate
descrivevano tutta la perversione di chi se la rideva all’interno del
sopraelevato palco regale. Dei suoi capelli una volta biondissimi non rimaneva
che una ribelle chioma sporca e macchiata di rosso, in tutta probabilità parte
di quel sangue ormai asciutto che gli aveva completamente ricoperto il corpo
durante le frustate. Eppure si trovava lì, in piedi e con il volto finalmente
libero di osservare la folla in tumulto per lo spettacolo di cui da lì a poco
avrebbe goduto. Golden strinse i denti e i pugni, chiudendo in seguito gli
occhi per dimenticare almeno per qualche secondo il supplizio che aveva passato,
e concentrarsi sulle abilità che fino a quel momento gli avevano consentito di
sopravvivere a scapito di chiunque avesse affrontato la sua arma. Non sapeva
nemmeno perché continuava a sperare di vedere la luce alla fine di quel
tormento, perché non la facesse semplicemente finita per non dover più
ascoltare le urla eccitate di quegli uomini che non meritavano altro che la
morte. La speranza era sparita da tempo e con lei anche la motivazione stessa
per continuare a sopravvivere . A ogni modo, voltò il capo e puntò lo sguardo
verso il Re e i tre uomini che sedevano di fianco a lui nella postazione regale
sugli spalti. Non disse nulla in modo esplicito, forse perché il dolore alla
mandibola, tra gli altri, non glielo permetteva, ma quel lungo discorso non
espresso dai suoi occhi dorati, avrebbe incrinato anche l’animo più ferreo.
Camminò verso un lato dell’arena e una delle guardie gli lanciò una spada
smussata e un piccolo scudo di legno dall’aria terribilmente fragile. Il
ragazzo afferrò l’arma ma colpì proprio lo scudo con un fendente talmente forte
e netto che ne decretò la fine in mille piccoli pezzi. La folla apprezzò e
cominciò a rumoreggiare più di quanto non stesse già facendo, e nell’aria poté
percepirsi la voglia e la tensione che l’intero popolo stava generando, pronto a deliziarsi del
sangue dei suoi campioni. Le grosse porte di ferro ai due estremi dell’arena si
aprirono, rivelando due guerrieri per parte, armati di mazza e scudo di ferro.
Golden roteò la spada pronto a dar battaglia ma prima che potesse abbattere
sugli avversari la sua rabbia, il Re alzò un braccio e prese la parola,
ottenendo nuovamente quel silenzio minacciato soltanto dall’inquietante
soffiare del vento:
«Tredicesimo giorno di giudizio. Il colpevole affronterà fino alla morte i suoi
stessi peccati per sconfiggerli e purificarsi. Quest’oggi però, la mano omicida
non impugnerà armi e resterà soltanto a guardare la gemella battersi per lei e
per la sua salvezza. Straniero senza nome, combatterai usando la tua mano
destra!» sancì il Re generando il tumulto tra i presenti.
Golden sgranò gli occhi inizialmente confuso e sorpreso: a causa della sua
natura mancina, in quegli scontri, aveva sempre usato la mano sinistra per
combattere e a chi era stato incaricato di studiare ogni possibile situazione
che potesse metterlo in difficoltà, non era certo sfuggito un simile dettaglio.
Il giovane abbassò il capo osservando il terriccio, perso in quello sguardo vuoto
e senza più il minino desiderio di sopravvivere, almeno in apparenza.
D’altronde era ancora lì, pronto a combattere nonostante tutto. Spostò la spada
nell’altra mano e facendola roteare un paio di volte, si lanciò contro la prima
coppia di avversari colpendo i loro scudi. Uno di loro indietreggiò impaurito
dall’aggressività del giovane, mentre l’altro effettuò un abile movimento verso
destra indirizzando la sua mazza chiodata proprio sull’unico braccio concesso a
Golden. Quest’ultimo intuì però con un sorriso quell’ovvia e debole offensiva, muovendo
quindi abilmente la spada per parare il colpo e trafiggere il petto dell’uomo
sfruttando all’istante la minima apertura che si era creata nelle sue difese.
L’altro titubò un istante e prima che potesse prendere una decisione sulla
prossima mossa, si ritrovò la spada in mezzo agli occhi. Gli altri due si
guardarono scambiandosi un’intesa, e correndo su entrambi i lati del giovane,
sperarono di precludergli ogni possibilità di difesa, sfruttando il suo essere
al momento disarmato. Golden effettuò però una capriola all’indietro portandosi
proprio di fianco al cadavere con sulla testa infilzata la spada smussata e
quando giunsero gli avversari, aveva già recuperato l’arma, percorso altri due
metri verso di loro, parato il primo fendente e infilzato lo stomaco di quello
più robusto. Erano rimasti uno contro uno e lo spadaccino dai capelli biondi si
fermò a contemplare chi era stato gettato come lui nel macabro gioco perverso
del Re e del suo popolo: era un semplice soldato con un’armatura troppo pesante
per anche solo sperare di competere alla pari contro chi poteva quantomeno
godere della libertà di movimento. Il vento batteva forte nell’arena e
accompagnando la danza di chi volteggiava tra i suoi soffi, sembrava aver già
deciso anche per quel giorno, il vincitore della tenzone. Il giovane mosse la
mazza chiodata per intimorire l’avversario ma Golden gli girava intorno
godendosi il fiato corto del pubblico che attendeva l’affondo finale, che
continuava a essere rimandato. L’avversario tremava, senza più speranze, e dal
suo sguardo pietrificato si intuiva la flebile volontà di morire senza altre
attese per non dover più sopportare la terribile angoscia che lo stava
logorando. Golden volteggiò l’arma attaccandolo e riuscì facilmente a
disarmarlo e atterrarlo, puntandogli infine l’arma alla gola.
«In un’altra vita, mi ringrazierai» disse lo spadaccino a voce bassa prima di
affondare la spada nel cuore del giovane e allontanarsi a pugni stretti verso
la postazione regale.
Il Re si alzò applaudendo, sinceramente colpito dalla bravura in combattimento
dello spadaccino dai capelli biondi e prese la parola versandosi altro vino sul
suo grosso calice:
«È davvero impressionante, impressionante! Tanto che sono dispiaciuto
dell’ormai prossima fine del tuo percorso di purificazione. Hai conquistato il
mio cuore e quello dei tanti qui presenti… ma la legge è legge» - si fermò solo
un attimo per bere - «oggi però non hai ancora terminato la tua tappa,
Straniero senza nome. Affronterai un altro dei nostri valorosi arbitri… nelle
fiamme».
Il centro dell’arena fu invaso da una grossa e alta fiammata che costrinse
tutti i più vicini a coprirsi il volto, compreso Golden che serrò la mascella
in preda a una rabbia che dovette necessariamente sopprimere. Una delle porte
di ferro si aprì nuovamente ma stavolta ne uscirono due strane creature dal
manto dorato simili a uccelli, la cui natura ricordava chiaramente quella degli
Ebrion a causa delle gemme argentate sul capo. Trainavano una grossa gabbia su
ruote di legno e quando si fermarono a qualche metro dal fuoco, nell’esatta
posizione opposta rispetto a Golden, attesero che alcune guardie giungessero
per aprire anche quel lucchetto. Lo spadaccino sgranò gli occhi alla vista di
quegli animali e non riuscì a non pensare a quanto fossero simili ai grandi
sacri rapaci dai poteri divini che aveva imparato a conoscere e combattere.
Sapeva che non sarebbero stati quelli però i suoi avversari e che probabilmente
non possedevano neppure una traccia del potenziale dei loro simili se
accettavano di essere trattati come strumento da traino. Dunque spostò la sua
attenzione verso la gabbia, cercando di scorgere attraverso le lingue di fuoco,
colui che avrebbe versato altro sangue sulla sua spada. Il pubblico rumoreggiava
festoso, probabilmente non consapevole dell’identità del nuovo “campione” ma
poco gli importava, la speranza di uno spettacolo senza precedenti era viva e
quella fiamma che bruciava al centro dell’arena sembrava fosse alimentata
proprio dalla voglia di quella gente di vedere altro sangue e altre battaglie.
La porta della gabbia si aprì e dal telo scuro che ne teneva celato l’interno,
uscì un uomo che Golden riconobbe immediatamente, nonostante il fuoco lo
tenesse ancora distante. I suoi capelli argentati, gli occhi grigi e quel suo
modo fiero di presentarsi alla luce forte del sole, non potevano che rivelare
il nome che volava attraverso il vento tra le labbra dello spadaccino dai
capelli biondi:
«No, non può essere… Javia».
Il Re era sorridente e fiero, sicuro che tutti i presenti avrebbero apprezzato
lo spettacolo che aveva scelto per quel giorno.
«Lo Spettro grigio contro lo Straniero senza nome. Entrambi peccatori alla
ricerca della purificazione della propria anima. Quale modo migliore del liberare
il proprio nemico dal male, sacrificando se stessi all’atto impuro, per
ricevere la purificazione? Il sopravvissuto avrà l’onore di affrontare l’ultima
sfida, davanti i propri sbagli, il proprio dolore. E allora, peccatori, date
battaglia con il vostro oscuro trascorso!». Il Re terminò quel discorso godendo
dell’applauso dei presenti e degli sguardi confusi e sconcertati dei due
nell’arena, divisi dall’alta fiammata. Golden non riusciva a darsi una
spiegazione, così come Javia non sembrava avesse la forza di dire nemmeno una
parola. Entrambi si limitarono ad osservarsi camminando attorno al fuoco, che
con il passare dei secondi diventava sempre più alto e pericoloso. Il pubblico
rumoreggiava mentre i due continuavano a tardare l’inizio del combattimento.
Iniziarono ad arrivare anche i primi fischi e lo stesso Re cercò di capire
perché ci stessero mettendo tanto. Non poteva sapere la vera identità dei due
che si erano ritrovati faccia a faccia, non poteva sapere che proprio Javia,
uno dei cinque cacciatori della notti, fosse il padre dell’altro prigioniero.
Golden aveva sognato spesso il giorno in cui avrebbe potuto affondare la
propria spada nel petto di quell’uomo spregevole, che avrebbe venduto ogni
avere per mettere le mani sul potere che Carian aveva cominciato a sviluppare
fin da quando era ancora una fanciulla. Ma non riusciva a muoversi, bloccato da
dubbi e domande troppo importanti per rimanere irrisolti. Doveva parlare con
Javia, in un modo o nell’altro, ed era convinto che anche lui stava pensando la
stessa cosa, poteva leggerlo nel suo sguardo grigio, cupo, spento come non lo
era mai stato. La folla beccò nuovamente i contendenti con fischi di
disapprovazione, quella fase di studio era durata fin troppo e Golden percepì
il pericolo di mettersi contro anche il popolo che si era più volte schierato
dalla sua parte, dunque roteò la spada e fece cenno all’avversario di venire
avanti, attraverso le fiamme. A quel punto Javia si fermò, alzò il braccio
verso due cavalieri ai lati dell’arena e si fece lanciare un’arma, quella con
cui avrebbe combattuto il proprio figlio: un bastone con all’estremità una
lunga e affilata lama, che roteò più volte prima di infilzare al suolo e
inchinarsi verso Golden. Il pubblico apprezzò, lo spadaccino dai capelli biondi
pensò che potesse essere uno dei suoi metodi per accalappiarsi i favori di
quella “giuria” che dall’alto della sua postazione, non faceva altro che tifare
e giudicare.
«Fatti sotto, Straniero» disse sorridendo Javia, riafferrando il bastone e
spostandosi attorno al fuoco per avvicinarsi quanto più possibile
all’avversario. Golden non seppe dire se fu un’abilità magica delle sue o
semplicemente una fisicità tale che gli permise di muoversi a quella velocità,
ma di fatto si ritrovò lo sfidante a un palmo dal naso prima che potesse
battere due volte gli occhi. Alzò la spada smussata parando un paio di colpi
ben assestati ma il terzo riuscì a deviarlo, lasciando il fianco di Javia
scoperto. Non affondò, non voleva ucciderlo prima di avergli parlato, per
quanto per uscire da lì avrebbe necessariamente dovuto farlo.
«Tu sai dove diamine siamo?» si limitò a dire il ragazzo a bassa voce.
«E tu?» rispose lo stregone, mentre con una capriola tornava in una posizione
di vantaggio alle spalle di Golden. Quindi roteò l’arma e con la lama provò a
colpire la sua gamba sinistra. Lo spadaccino frappose fra sé e il colpo
nuovamente la spada, e parò anche quel fendente, indietreggiando incolume.
Rimasero in quella posizione un paio di secondi, poi Golden scattò provando un
affondo ma Javia saltò di lato agilmente schivando, e riuscì anche a colpire al
braccio il figlio con un veloce movimento del bastone dalla parte della lama. Il
giovane si portò una mano sul taglio e sentì il calore del sangue bagnargli le
dita. Sorrise, quasi contento di quella svolta imprevista e improvvisa.
«Vuoi davvero combattermi in duello?» chiese Golden, come volesse sottolineare
il fatto che senza strane magie e stregonerie, quello scontro era già deciso.
Javia rispose con un singolo sorriso e balzando nuovamente verso l’avversario,
effettuò due giravolte con il bastone, costringendo Golden a chinarsi celere
prima, e saltare all’indietro dopo, mentre la lama gli passava esattamente
sotto la testa. Stavolta non avrebbe però aspettato un’altra offensiva e scattò
spada alla mano: provò un affondo prontamente schivato ma quando Javia si portò
verso destra, Golden si chinò su se stesso allungando la gamba per colpire con
forza la caviglia d’appoggio dell’avversario, che finì rovinosamente al suolo.
«Lento» disse Golden mentre saltava e con la punta della spada trafiggeva la
sabbia dell’arena: Javia era riuscito a rotolare schivando all’ultimo istante.
Il giovane dai capelli biondi continuò però a essere aggressivo, sfilando la
lama ed effettuando un’altra serie di fendenti, che stavolta ruppero in due il
bastone e ferirono all’addome lo sfidante. Javia cadde in ginocchio nel sangue,
mentre la follia era nel delirio più assoluto.
«Bene… s-sei ancora abbastanza forte per questo» bisbigliò lo stregone mentre
cercava di mantenere lucidità. Golden si avvicinò credendo di non aver sentito
bene, ma quando protese verso lo sfidante il volto, il pezzo di bastone rimasto
tra le mani di quest’ultimo colpì con un botta terribile lo stomaco del ragazzo
che si piegò in due tossendo sangue.
«Maledett…» riuscì a dire Golden, poi vide Javia avvicinarsi zoppicante verso di
lui: era circondato da una lievissima energia violetta, quella che
caratterizzava la stregoneria, e in quel modo partì all’ennesimo assalto
colpendo con un singolo e violento pugno il volto dello spadaccino che non
riuscì a difendersi a causa di una strana forza spirituale. Golden imprecò nel
sangue ma quei secondi di paralisi e paura terminarono in breve, e quando
riuscì a rialzarsi e ad afferrare la propria spada caduta lì vicino, balzò
furioso sull’avversario e infilzò con tutta la rabbia repressa l’uomo di cui
condivideva il sangue e nient’altro. Riuscì a vedere il suo volto spegnersi
lentamente e un sorriso formarsi nelle sue labbra.
Lacrime calde inondarono gli occhi dorati di Golden e una gli rigò il volto
inespressivo. Poi si rialzò stringendo i pugni, ignorando le urla soddisfatte
dei presenti e lo sconforto che lo colse. Lo aveva ucciso, voleva farlo da
troppo tempo, eppure erano rimaste in sospeso troppe domande.
Intanto il Re si alzò e con tono solenne richiamò all’attenzione il pubblico
impazzito di gioia:
«La giustizia ha parlato: lo Straniero senza nome affronterà domani l’ultima
tappa della sua purificazione!».