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Autore: BrokebackGotUsGood    06/06/2016    5 recensioni
Per Sherlock l'amore non è altro che uno svantaggio pericoloso. Riuscirà John a fargli ammettere di essersi...beh, sì, sbagliato?
«Credo di star attraversando una...u-una crisi d' identità, ecco».
[...]
«Di identità sessuale?»
«Per l'amor del cielo, non pronunci quella parola!!».

[Johnlock]
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ed eccomi qui! Ce l'ho fatta! :')
(Sì, credo che d'ora in poi scriverò le note a inizio capitolo).
Dunque, credo che questo capitolo sia venuto un po' più lungo del solito (ma non poteva essere altrimenti, dato che è il più importante della ff) e il prossimo dovrebbe essere l'ultimo.
Non ho niente di particolare da dirvi, se non le solite cose sullo sperare di non aver scritto uno schifo :3
Buona (spero) lettura!



 


Capitolo IV





 

Dio, era stata una sua decisione rivolgersi alla signora Thompson, ma quella seduta si stava rivelando dolorosamente interminabile. Il tempo non sarebbe dovuto già scadere da un pezzo?
Non era sicuro di riuscire a resistere ancora a lungo, non ora che erano arrivati ad un punto così...così delicato della conversazione e, soprattutto, non con quella fottuta consapevolezza che martellava sempre più prepotentemente nella sua testa; una consapevolezza che, in fondo, era sempre stata lì (una verità lapalissiana, l'elefante nella stanza), ma che aveva sempre cercato disperatamente di ignorare.
Ed era dannatamente difficile darle il benvenuto, ora che si era presentata in tutta la sua nitidezza, ridendo di lui e della sua cecità.
Strizzò le palpebre, serrò le labbra, strinse i pugni.
Scosse la testa.
«John».
La voce di Ella lo riportò improvvisamente al presente.
«Si rilassi. Mi stava raccontando cosa è successo dopo che il signor Holmes è stato dimesso, vada avanti».
Ma sì, in fondo era lì per quello, no? Per affrontare i suoi dubbi, le sue paure e le sue incertezze una volta per tutte.
Era certo che una volta raccontato tutto alla terapista avrebbe avuto le idee più chiare e si sarebbe sentito più leggero, libero da quell'opprimente masso di emozioni represse che gravava sul suo petto ormai da settimane.



 

Fortunatamente Sherlock stava bene, più o meno: la signorina McLean gli aveva semplicemente fatto inalare una sostanza in grado di stordirlo e farlo cadere in un sonno profondo per parecchie ore, simile al potente sedativo usato da Irene Adler per costringerlo a restituirle il suo prezioso telefono.
A quanto pareva era l'unico metodo alternativo alla morte che permettesse di chiudere la bocca del mio irritante coinquilino...avrei dovuto tenerlo a mente anch'io, da allora in avanti.
Lo fecero rimanere in ospedale per una notte, giusto per tenerlo sotto controllo nel caso fosse sorta una qualunque complicazione, e io, nonostante le rassicurazioni dei medici sul fatto che non ci fosse niente da temere, non ne volli sapere di tornare a casa, così trascorsi una scomoda nottata dormendo (parola grossa) su una delle sedie nel corridoio accanto alla sala d'aspetto: probabilmente fu il senso di colpa che ancora mi attanagliava a farmi prendere quella decisione.
E ora eccomi lì, tredici ore dopo lo sfortunato episodio, appoggiato allo stipite della porta della cucina con le braccia conserte a farmi dare spiegazioni dal malcapitato, mentre quest'ultimo posizionava un vetrino sul tavolino traslatore del suo microscopio.
«...La sera in cui David è stato ucciso e a casa sua abbiamo trovato Rachel in lacrime, lei ha raccontato alla polizia di averlo trovato morto dopo essere rientrata da una festa alla tenuta dei coniugi Williams, ma dalle macchie sulla sua gonna era chiaro che stesse mentendo. Avrai notato la cura pressoché maniacale che dedica all'aspetto estetico, e questo comprende trucco, acconciatura e abbigliamento: non sarebbe mai andata ad una festa di tale galanteria con una gonna macchiata di ketchup, nonostante lo sporco non fosse particolarmente visibile. E no, no se l'è sporcata dai Williams, se è questo che ti stai chiedendo, poiché dubito fortemente che abbiano abbinato del ketchup alle raffinate pietanze che senza dubbio sono state servite»
«Quindi eri riuscito ad incastrarla»
«Non definitivamente, ma c'ero molto vicino e questo deve averla mandata nel panico. Non mi ero accorto che mi stesse seguendo fino a casa: non sarà furba nel pianificare omicidi, ma sa come passare inosservata»
«Dunque i tuoi sospetti su di lei hanno avuto una conferma decisiva solo quando ti ha aggredito»
«Come ho già detto, John, ero comunque molto vicino alla verità. Ci sarei arrivato in pochissimo tempo»
«Ma certo, non ne dubito. Non sia mai che il tuo orgoglio da "Mente Più Brillante di Londra" venga ferito».
Sollevai l'angolo della bocca in un mezzo sorriso divertito, ma lui restò in silenzio per i successivi istanti, concentrandosi sulla mucosa orale da esaminare.
Non mi mossi dallo stipite e non distolsi lo sguardo dal suo profilo, seguendone distrattamente i tratti e pensando (accidenti alla mia testa e alla sua predilezione per i pensieri indesiderati) a quante volte fossi stato veramente vicino alla possibilità di non rivederli mai più.
Nel corso di quei due anni ci eravamo ritrovati nelle situazioni più assurde e inimmaginabili e avevamo avuto a che fare con criminali di ogni genere, buttandoci a capofitto nel pericolo per il puro piacere di farlo: eravamo matti da legare, ma la cosa non era mai dispiaciuta a nessuno dei due ed erano stati pochi i momenti in cui mi ero soffernato a riflettere sul fatto che le nostre vite fossero costantemente appese a un filo (lui non ci pensava di certo, o almeno non gli importava poi molto).
Ciò che invece mi turbava in quel preciso momento, e che aveva continuato a turbarmi dal giorno prima, era che questa volta sarebbe potuto accadere il peggio per colpa mia, e in tal caso non sarei mai più riuscito a vivere in pace con me stesso.
«John, sono sicuro che tu conosca modi assai migliori di impiegare il tempo piuttosto che osservarmi durante un esperimento sulla mucosa orale» disse Sherlock con tono grave e pacato, rompendo il silenzio e facendomi sussultare lievemente.
Mi schiarii la voce e annuii. «Oh, ehm...certo, scusa».
Mi voltai, facendo per allontanarmi verso il bagno per farmi una doccia, ma mi bloccai dopo aver fatto solo un passo; esitai, spalle tese e pugni chiusi, non sapendo se dar voce ai miei pensieri o ingoiare le parole che da ore pregavano di uscire dalla mia bocca, stanche di rimanervi ostinatamente imprigionate.
Per fortuna il coraggio era una delle mie innate caratteristiche.
Mi girai nuovamente verso di lui e «Sherlock...», dissi titubante.
Sherlock dovette notare qualcosa di insolito nella mia voce, poiché, senza che me lo aspettassi, distolse l'attenzione dal microscopio per focalizzarla completamente su di me; rimase in paziente attesa, lo sguardo ghiacciato che non tradiva alcuna emozione particolare, mentre io sentivo lo stomaco chiudersi lentamente.
«Scusami» riuscii a sussurrare, serrando le labbra e guardandolo con la speranza di riuscire a trasmettergli tutto il mio sincero pentimento.
Lui capì subito a cosa mi stessi riferendo e aggrottò leggermente la fronte, su cui i riccioli neri ricadevano morbidi e ribelli.
«Non è colpa tua, John»
«Sì, invece sì. Se fossi venuto con te avrei potuto evitare ciò che è successo»
«Non è successo niente. Sono ancora qui, no? E sto bene, come puoi vedere. Mi sono ritrovato in situazioni assai più problematiche. E poi ci capita spesso di doverci separare durante le indagini, ed è pressoché inevitabile che ad uno di noi due accada qualcosa in assenza dell'altro»
«È diverso, Sherlock, questa volta non eravamo separati per il caso. Io non sono voluto venire»
«Lo hai detto anche tu che era solo un interrogatorio, non potevi certo prevedere che...»
«Non sono voluto venire perché avevo paura».
A quelle parole si zittì improvvisamente, rimanendo con le labbra socchiuse per essere stato interrotto a metà frase, e la confusione sul suo volto aumentò visibilmente.
«Paura di cosa?» chiese con incertezza, cosa che raramente avevo avuto occasione di vedere in lui.
Deglutii, respirando profondamente. «Di te».
Dio, lo avevo detto.
Quelle due semplici parole lo spiazzarono e il silenzio che seguì fu talmente carico di tensione da risultare assordante.
Rimase perfettamente immobile, se non per le palpebre che sbattevano a intervalli regolari; mi stava guardando come se gli avessi appena confessato di essere un collaboratore di Moriarty (santo cielo, come mi venivano in mente certi paragoni...?) e, come spesso accadeva, cominciò ad essere inquietante.
Poi socchiuse gli occhi e, sospettoso, voltò leggermente il viso di lato. «Paura di me in che senso?» chiese con voce bassa e baritonale.
A quel punto il mio cuore, mandandomi a quel paese per essermi così imprudentemente messo nei guai, accelerò in un modo che, in quanto medico, avrei dovuto ritenere preoccupante.
Salivazione azzerata.
"Fanculo, ormai non puoi troncare la conversazione e andartene come se niente fosse. Non hai più scampo, tanto vale rimanere fottuti fino in fondo".
Dovetti prendere un paio di profondi respiri prima di trovare la forza di dire ciò che un momento dopo uscì dalla mia maledettissima bocca.
«Senti, io...» esitai, aprendo e chiudendo in continuazione i pugni, come se le mie dita fossero intorpidite dal freddo. «Tu mi spaventi, Sherlock, perché quando ti sono accanto non riesco più a ragionare, e ho cominciato a rendermene conto soltanto adesso. Basta che tu mi venga vicino, che mi sfiori anche solo casualmente o...o peggio, che tu mi sorrida, e vengo sopraffatto da una miriade di quelle che tu chiami...com'è che hai definito le emozioni, una volta? Una serie di...»
«... Reazioni chimiche e neurali risultanti dall'individuazione da parte del cervello di uno stimolo adeguato*»
«Esattamente. Penso cose che non avrei mai pensato fino a qualche settimana fa, provo sensazioni che non vorrei...non dovrei provare. Per questo volevo starti lontano almeno per qualche ora. Ecco, io...non so cosa voglia dire esattamente tutto questo, e non sono nemmeno sicuro di essere pronto a scoprirlo. So solo che ne sono spaventato a morte e non ho la minima idea di ciò che sarebbe giusto dire o fare. Tutto qui».
Sarebbe stato da imbecilli continuare a negarlo.
Ormai mi era chiaro (più o meno) che il mio coinquilino e migliore amico non era più tale ai miei occhi, che in qualche modo esercitava su di me un effetto che nulla aveva a che vedere con la pura e semplice ammirazione e che quegli occhi, diamine, dovevano smetterla di fissarmi in quel modo o non avrei più risposto delle mie azioni.
Mi era anche piuttosto chiaro che dovevo allontanarmi da lì il prima possibile, perché delle gocce di sudore avevano iniziato ad imperlarmi la fronte.
Con mia grande sorpresa mi ritrovai a continuare, nonostante una parte di me mi stesse implorando di tacere, correre via alla velocità della luce e nascondermi in un angolo remoto di Londra.
«Non so come sia cominciata, né quando o perché. Prima eri la persona che mi aveva regalato una nuova e meravigliosa vita, che mi aveva strappato alla solitudine e che, nonostante mi facesse arrabbiare ogni volta che ne coglieva l'occasione, consideravo l'uomo migliore che avessi mai conosciuto. Poi, improvvisamente, sei diventato di più. Sei...sei diventato il fulcro attorno a cui ruota la mia intera esistenza. Quando siamo io e te, qui al 221B, il resto del mondo perde importanza per me. Non...» cristo, stavo andando in iperventilazione.
Non credevo che il momento di affrontare Sherlock su questo argomento sarebbe arrivato così presto, a così poco tempo dal presentarsi dei primi segnali e dei primi sintomi anomali, ma soprattutto non avrei mai immaginato di arrivare a dirgli certe cose, troppo sdolcinate persino per un sentimentale come me.
E ora, improvvisamente interessato alle pieghe del tappeto sotto al tavolo, non avevo più il coraggio di alzare lo sguardo per incontrare il suo, forse per timore di non vedere nient'altro che un muro freddo e impassibile, indifferente a quella mia confessione (o qualunque cosa fosse) e, anzi, pronto a distruggerla con una semplice frase.
Quello ero io, John Hamish Watson: impavido davanti a un campo di battaglia o ad un serial killer, vulnerabile davanti a sentimenti che non sapevo padroneggiare.
Era così che Sherlock Holmes mi faceva sentire la maggior parte delle volte.
«...non so nemmeno perché ti stia dicendo queste cose. Perdonami» dissi con voce leggermente incrinata.«I-io lo so che mi trovi ridicolo, ma...»
«John».
E, diamine, quando pronunciava il mio nome in quel modo, con quella voce calda e suadente, per me era la fine.
Un brivido corse lungo la mia spina dorsale, mentre lui si alzò dalla sedia e mi si avvicinò lentamente, passo silenzioso, il tessuto della camicia nera teso sul torace.
«Sì, lo so, lo so quello che stai per dire...».
"Oh, per l'amor del cielo, vuoi chiudere la bocca una volta per tutte?!".
«No, non lo sai» rispose lui in un sussurro, arrivandomi a pochi centimetri di distanza. «Non giocare alle deduzioni con me».
A quel punto lo guardai.
Lo guardai e mi resi conto che lo spazio tra di noi era talmente ridotto da riuscire a specchiarmi nelle sue iridi, da poter studiare ogni singolo dettaglio di quella pelle diafana, da poter sentire il suo respiro fondersi col mio; una bolla di calore si espanse all'interno del mio ventre, per poi salire fino al petto e raggiungere come ultima tappa le mie guance.
«Ti conviene controllare il rilascio di adrenalina nel tuo corpo, capitano. Provoca una dilatazione dei vasi sanguigni» disse con un sorrisetto provocatorio, e speravo, speravo con tutto me stesso che si stesse riferendo ai vasi sanguigni a causa dei quali ero probabilmente arrossito come una ragazzina, e non a quelli situati in altre parti del mio corpo.
Ma non lanciai un'occhiata in basso per verificare la situazione, perché se ne sarebbe sicuramente accorto e l'ultima cosa di cui avevo bisogno era ulteriore imbarazzo; inoltre, se prima non riuscivo a guardarlo in faccia, ora non avevo la forza di togliergli gli occhi di dosso.
Gli zigomi alti e pronunciati che proiettavano leggere ombre sulle gote magre, l'arco di cupido che conferiva un'irresistibile forma a cuore alle labbra rosee e piene, le linee armoniose di quel collo di porcellana...non c'era niente che all'occhio non risultasse altamente intrigante.
«Dio, sei perfetto...» mi uscì in un sospiro, prima di rendermi effettivamente conto di non averlo solo pensato.
A quelle parole, il suo volto inquisitore divenne pressoché indecifrabile: un mix di confusione, commozione, incredulità, gioia, incertezza, un'esplosione di emozioni in quello sguardo che tutti vedevano freddo e vuoto, ma che io avevo scoperto essere il più espressivo che potesse esistere.
«John...».
Non ce la feci a resistere un secondo di più.
Lo afferrai per la nuca e lo tirai verso di me, facendo scontrare bruscamente le nostre labbra e facendogli emettere un gemito di stupore.
"Cazzo, sta succedendo sul serio" fu l'unico pensiero razionale che la mia mente fu in grado di formulare.
Il contatto, seppure un po' impacciato, fu piacevole e in qualche modo intenso, caldo, umido, incredibilmente soffice, e prima di quel preciso istante non avevo mai capito che in fondo, anche se avevo sempre accantonato il pensiero, lo avevo desiderato da tempo immemorabile.
Quando anche Sherlock, dopo essersi sciolto dalla paralisi dovuta alla sorpresa, cominciò a ricambiare timidamente (già, timidamente) il bacio dischiudendo la bocca, qualcosa dentro di me esplose con la potenza di una supernova, un incendio che divampò dal petto allo stomaco, ardendo in ogni tessuto muscolare, mescolandosi al sangue nelle mie vene.
Non mi ero mai sentito così vivo, nemmeno in guerra: avrei potuto correre per prati sconfinati, scalare montagne impervie e nuotare attraverso infiniti oceani che non mi sarei mai stancato.
Una sensazione da dare alla testa.
Però, benché mi stesse piacendo a livelli spropositati, non ci volle molto affinché una serie di domande cominciassero a farmi riprendere gradualmente lucidità.
Che cosa stavo facendo?
Era così che sarebbe dovuta andare?
Avrei dovuto allontanarmi e dire che era stato un errore?
Quali erano i pensieri di Sherlock?
Avremmo dovuto parlarne?
Ma la domanda a cui avrei voluto trovare una risposta prima di tutte le altre era: perché doveva essere tutto così fottutamente complicato?!
O forse ero io che rendevo tutto complicato.
Forse sarebbe bastato superare l'imbarazzo, discutere della faccenda in maniera civile e arrivare ad una soluzione che andasse bene a entrambi: fare finta che non fosse mai successo niente e andare avanti come avevamo sempre fatto, oppure...
...oppure.
Forse era l'altra opzione a spaventarmi.
Interruppi il bacio, boccheggiando alla ricerca di ossigeno; Sherlock, i cui capelli erano ancora tra le mie dita, mi guardò con gli occhi sbarrati.
Silenzio.
Soltanto i nostri respiri accelerati, e il battito del mio cuore che mi rimbombava nelle orecchie.
Tensione.
Sostenni il suo sguardo, ma tolsi la mano dalla sua nuca e la rilasciai lungo il fianco, chiudendola a pugno e conficcando le unghie nel palmo, fino a far sbiancare le nocche.
Inspirai.
«Io devo...». Mi schiarii la voce, dal momento che ciò che emisero le mie corde vocali somigliava ad un pigolio. «I-io vado a farmi una doccia».
Già, tutto quello di cui avevo bisogno in quel momento era acqua gelida.
Mi diressi verso il bagno e chiusi la porta a chiave, lasciandomi alle spalle  la cucina (in cui ero sicuro non sarei più riuscito ad entrare fino al giorno dopo) e uno Sherlock confuso e attonito.



 

Non mi ero mai sentito a mio agio al Diogenes Club.
Beh, non che qualcuno avesse mai fatto qualcosa per renderlo confortevole: escludendo il fatto che non si potesse aprir bocca a meno che il mondo non stesse per finire, l'oscurità spezzata dalla sola luce che filtrava attraverso delle aperture situate al di sopra di alcuni scaffali pieni di libri e l'arredamento fin troppo sofisticato contribuivano a rendere quel posto alquanto tetro.
«Che ci faccio qui?» chiesi stancamente, sfregandomi gli occhi con il pollice e l'indice della mano destra.
Mycroft Holmes, dandomi le spalle, si versò una piccola quantità di brandy, per poi sedersi elegantemente sulla poltrona di fronte a me e guardarmi con un lieve accenno di sorriso beffardo.
«Credo che lei lo sappia perfettamente» rispose con la sua irritante pacatezza, assicurandosi di scandire bene ogni parola.
«Senta, se vuole parlare di Sherlock...»
«Oh no no no, dottor Watson, sfortunatamente so benissimo cosa passa per la testa di mio fratello. Ma non posso dire lo stesso di lei»
«Oh, quindi è di me che vuole parlare?»
«È evidente che sia successo qualcosa tra lei e Sherlock, di recente. Qualcosa che la tormenta».
Sbattei le palpebre un paio di volte, increspando le labbra e sollevando le sopracciglia.
Era mai possibile avere una diavolo di vita privata all'interno del 221B? Di certo non potevo aspettarmi diversamente, vivendo con il fratello di Mr. Governo Britannico, ma sarebbe stato decisamente di mio gradimento se quest'ultimo si fosse limitato ad occuparsi degli affari di Stato.
«Non voglio nemmeno sapere come ne è venuto a conoscenza»
«Immagino di no».
Non sapevo se fosse più conveniente intimargli di arrivare al punto o aspettare che lo facesse di sua spontanea volontà; fortunatamente risolse il problema scegliendo, da uomo saggio quale era, la seconda opzione, essendo probabilmente consapevole dei limiti della mia pazienza.
«John, lei ha senza dubbio portato dei cambiamenti radicali nella vita di Sherlock. E in Sherlock stesso». Prese un piccolo sorso di brandy, facendo poi roteare il liquido all'interno del bicchiere. «Nonostante lui si sia sempre tenuto a debita distanza dalle debolezze, dai...sentimenti, questa volta si è ritrovato a cedere sotto il loro peso prima di riuscire ad impedirlo. Si ricorda quando le ho chiesto cosa avremmo potuto dedurre riguardo al suo cuore? Bene, ora sappiamo per certo la risposta».
Aggrottai la fronte e mi sistemai meglio sulla potrona. «Che cosa sta cercando di dire?».
Roteò gli occhi. «Vedo che le sue capacità intellettive non sono migliorate molto durante questi due anni, il che mi risulta alquanto strano».
Fece una pausa quasi melodrammatica, e se all'inizio pensavo che a lui non piacesse essere teatrale tanto quanto a Sherlock, in quel momento dovetti ricredermi.
«È innamorato di lei, John» disse in tono grave.
Non ebbi una reazione immediata.
Sulle prime me ne stetti immobile, paralizzato da una sensazione di smarrimento (un po' come quando Irene Adler mi aveva contraddetto sul fatto che io e Sherlock non fossimo una coppia), mentre Mycroft mi fissava con una smorfia divisa tra un lieve disgusto, dovuto forse all'aver pronunciato la parola "innamorato", e il divertimento.
Poi emisi una risatina incredula e nervosa, scuotendo la testa.
«Non dice sul serio»
«Non credo di averle mai dato in qualche modo l'impressione di essere un tipo particolarmente giocoso».
Il sorriso svanì dalle mie labbra a mano a mano che il mio...appartamento?...mentale rielaborava le informazioni appena ricevute.
Tutto quello era assurdo, semplicemente assurdo.
«Ma non può dire sul serio!»
«Per l'amor del cielo, John, la prego di dimostrarmi di essere meno idiota di quello che potrebbe sembrare e di rimettere insieme i pezzi».
Rimettere...certo, rimettere insieme i pezzi.
Dunque.
La sua sospetta propensione per i complimenti la sera del compleanno di Greg.
La sua insolita gentilezza la sera in cui avevamo giocato a Cluedo.
Il suo inspiegabile nervosismo il giorno successivo (dovuto all'abbraccio? Non poteva essere...).
La ricerca "sintomi dell'innamoramento e rimedi".
Il modo in cui mi aveva gentilmente preso il viso tra le mani la mattina del giorno del suo ricovero in ospedale, chiedendomi scusa, cosa che non faceva quasi mai.
Ma andiamo, quelle non potevano essere ritenute prove inconfutabili a sostegno della tesi di Mycroft!
O sì...?
«John, conosco abbastanza mio fratello da poter dire che negli ultimi periodi la sua mente geniale non è affatto focalizzata al 100% sui casi. E, se mi permette, anche se non posso di certo ritenermi un esperto in materia, posso affermare che anche il modo in cui la guarda è inequivocabile».
Abbassai lo sguardo sul pavimento recentemente lucidato e deglutii.
Inspirai profondamente, rilasciando poi l'aria in un soffio tremante, e mi passai una mano sul viso.
«Dio, non avrei mai immaginato niente di simile»
«Lei vede, ma non osserva»
«Sì, mi è...già stato detto, una volta».
Era tutto così surreale che quasi mi aspettavo di svegliarmi improvvisamente e ritrovarmi nella mia camera da letto.
Sherlock Holmes innamorato di un uomo sentimentale, pateticamente ordinario e decisamente inferiore al suo livello di intelligenza? In quale universo?!
Ma il solo pensiero non poté fare a meno di scatenare uno sciame impazzito di farfalle all'interno del mio stomaco.
Senza accorgermene accennai un sorriso, sentendomi travolgere da un'ondata di emozioni così potenti da essere spaventose, ma bellissime al tempo stesso: sentii il cuore sciogliersi, la gola restringersi, la testa girare.
Qualcosa cominciò a pungere prepotentemente ai lati degli occhi.
«Tuttavia» continuò Mycroft, «la ragione per cui l'ho convocata è conoscere le sue intenzioni. Come lei sa, mi preoccupo per Sherlock continuamente».
Le mie intenzioni...oh, se solo le avessi sapute.
Certo, grazie al bacio del giorno prima avrebbe già dovuto essermi chiaro quello che volevo, ma avevo ancora bisogno di un po' di tempo.
«Cercherò di capire cosa fare».





*Manuel Castells, "Comunicazione e potere"
   
 
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