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Autore: Rei_    07/06/2016    4 recensioni
(!) Attenzione! Questa storia parla di bullismo, saranno presenti alcune scene di violenza! (!)
Michele, 27 anni, è appena entrato in un mondo a lui ancora sconosciuto: palazzo Montecitorio.
Lui, giovane insicuro, nasconde un lato fragile causato da un passato buio che vuole dimenticare. A differenza di Nicolò, che invece non ha mai perso nella sua vita e anche nel mondo politico a breve acquisterà una crescente leadership causata dal suo forte carisma naturale.
Due persone di partiti diversi, che inevitabilmente finiranno per scontrarsi, ma se è vero che l'odio è una forma d'amore allora il loro rapporto è destinato presto a cambiare...

Spalancò le braccia nella neve e allargò le gambe. Sarebbe dovuta uscire disegnata la figura di un angelo, ma mentre Michele chiudeva lentamente gli occhi, vinto da quell'insolita stanchezza, pensò che era impossibile che uno come lui potesse essere capace anche lontanamente di assomigliarci.
Perchè gli angeli non finiscono nudi nella neve.
Non vengono chiusi negli sgabuzzini.
Gli angeli sono luminosi, e lui invece era fatto di buio.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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Michele trascorse il martedì rimbalzando dal suo ufficio alla sala stampa. Dispensava dichiarazioni su dichiarazioni a giornali e TV, ripetendo il mantra che il team di Marchesi gli aveva scritto, e cioè: “gli-affari-di-mio-fratello-non-c’entrano-con-me”, e ribadendo che la busta di coca non aveva nulla a che fare con quella faccenda.
La strategia era quella di dare tutta la colpa al fratello, concentrandosi sui suoi reati che stavano emergendo dalle intercettazioni e non rispondendo alla domanda sulle preferenze comprate dal padre. Così, dicevano, l’opinione pubblica si sarebbe lentamente dimenticata della sua parte in tutta la faccenda, inquadrando il fratello come il vero “cattivo” dell’operazione. Intanto avrebbe dovuto lavorare sulla sua immagine, ricordando tutti gli emendamenti di Arturo che lui aveva controfirmato in quei mesi allo scopo di limitare il potere della criminalità organizzata, in tutte le sue forme.
Era un lavoro lungo e difficile. Michele avrebbe preferito mille volte dimettersi che dover cercare di giustificarsi con l’opinione pubblica, ma il sostegno da parte di Arturo, Thomas e dello staff lo aiutò a darsi forza.
A metà pomeriggio arrivò anche una dichiarazione stampa da parte di Pasqui, dove invitava a “non porre conclusioni affrettate” e a “lasciar lavorare la magistratura sul caso”, ma che comunque “se dovesse risultare qualcosa di illegale, il partito provvederà di conseguenza”.
«Non poteva dire altro, Michè» gli spiegò Thomas una volta vista la sua espressione delusa, «c’è un’indagine in corso, non si tratta di una busta di coca che ti sei ritrovato in tasca stavolta, c’è di mezzo la tua famiglia. È normale che vi sia la massima cautela da parte del partito, con tutto che tutti noi sappiamo che sei innocente!» concluse in fretta.
Michele non ne era così sicuro. Nonostante il vago appoggio di Marchesi e Pasqui, capitava che nei corridoi i deputati del suo gruppo gli rivolgessero sguardi di disapprovazione. I tre che erano saliti sul tetto a intimargli di scendere qualche tempo fa parlavano a voce alta davanti a tutti sulle sue palesi implicazioni con la mafia, e quello che gli aveva dato del frocio aveva preso l’abitudine di cambiare direzione ogni volta che lo incrociava nei corridoi.
Erano già passate le sei del pomeriggio quando nell’ufficio di Michele arrivò un’altra dichiarazione stampa. Questa volta era da parte del Fronte per l’Indipendenza.
 
Il nostro partito giudica intollerabile la posizione del deputato Martino nelle intercettazioni pubblicate ieri. Ci aspettiamo che si rechi al più presto a testimoniare e a denunciare tutti i nomi e i fatti legati alla sua famiglia, e che nel frattempo si dimetta immediatamente per i voti comprati tramite clientelismo.
 
I membri del team di Marchesi si guardarono, dubbiosi, iniziando a snocciolare qualche ragionamento su come rispondere, ma la testa di Michele era completamente concentrata sulle firme a qual comunicato. Mancava quella di Andreani.
Sentì improvvisamente il cuore farsi più leggero. Forse qualche speranza poteva ancora esserci.
«Per oggi basta» comunicò allo staff , «risponderò domani, sono molto stanco. Parlerò anche con il tribunale di Reggio Calabria, per ragionare di una mia testimonianza».
Tutti i membri dello staff andarono a stringergli la mano, congratulandosi personalmente prima di uscire dalla stanza.
Era la cosa giusta. Nonostante in quei ventisette anni non avesse mai capito cosa ci fosse realmente dietro, avrebbe potuto comunque riferire tutto ciò che ricordava. Le persone che erano venute a cena, brandelli di conversazione, anche dei nomi detti velocemente al telefono… tutto sarebbe potuto tornare utile, così non avrebbe lasciato questo alibi ai suoi avversari. Non gli importava granché che fosse la sua famiglia. Se davvero erano implicati con la ‘ndrangheta, avrebbero dovuto subirne le conseguenze, come tutti.
«Andrà tutto bene» sorrise l’ultimo uomo dello staff che stava uscendo, «penso che siamo riusciti a convincerne molti con le dichiarazioni di oggi».
Gli allungò la mano. Michele la strinse
«Giulio Romano. È un piacere lavorare per lei».
 
 
Era sera tardi e Michele era ancora nel suo ufficio, a lavorare da solo. Stava ripensando alla dichiarazione del Fronte davanti ad un caffè, quando Thomas bussò.
«Michele!» disse agitato, entrando «fuori… in piazza… una contestazione…»
Il giovane capì solo quando guardò dalla finestra, vedendo una discreta folla radunata in piazza Montecitorio. Tra tutti i cartelli, uno era il più visibile: “FUORI I MAFIOSI DAL PARLAMENTO”.
Michele sentì un nodo in gola. Tutte quelle persone erano lì a protestare contro di lui, definendolo un mafioso.
Non poteva accettarlo.
Scattò in piedi, superando Thomas a grandi passi. Scese i gradini a due a due dalla rabbia, mentre l’amico gli urlava inutilmente di fermarsi. Si ritrovò fuori in meno di un minuto, e poco a poco la folla concentrò gli sguardi su di lui, riconoscendo chi fosse.
Michele sentì il cuore nel petto minacciare di scoppiare e la paura iniziò a scorrergli nelle vene. Era davanti ad almeno un centinaio di persone che lo odiavano e lui non sapeva perché lo stava facendo. Sapeva solo che doveva fare qualcosa, qualsiasi cosa, perché lui era innocente e nessuno poteva dargli del mafioso.
«Non sono un mafioso» urlò, «io testimonierò in tribunale. Testimonierò contro la mia famiglia, perché io sono innocente».
Si accorse del grosso errore che aveva fatto solo quando si ritrovò accerchiato. Sembrava che nessuno avesse ascoltato davvero le sue parole. Si levarono voci diverse, prima sparse, poi sempre più frequenti. Michele riuscì ad afferrarle al volo, prima che fossero coperte da altre urla e fischi.
«Mafioso!»
«Dimettiti!»
«Criminale!»
Un uomo gli si avvicinò e gli sputò addosso. Michele sentì gli occhi bruciargli per l’umiliazione. Qualche cellulare stava riprendendo la scena. Cercò di indietreggiare e di tornare indietro, ma le persone sembravano sbarrargli ogni via di fuga.
L’istante dopo, un sampietrino gli arrivò dritto in faccia, colpendolo sulla fronte. La folla si voltò come un solo corpo, per cercare l’autore di quel gesto così estremo.
«Pezzo di merda!» gridava l’artefice, raccogliendo un altro sasso da terra, «devi dimetterti, mafioso!»
Michele nel frattempo si era accovacciato per terra, premendosi la fronte per fermare il sangue. Tutto si era fatto buio, e lui si sentì vagare dentro un sogno, uno dei suoi soliti sogni dai quali era difficile svegliarsi. Chiuse immediatamente gli occhi, dimenticando il mondo intorno a sé. Ora si sarebbe svegliato, si sarebbe svegliato nel suo letto, al sicuro…
«Ehi, tu! Vieni qui se hai il coraggio, così ti spacco quella faccia di merda!»
Qualcuno stava urlando, proprio davanti a lui. Michele riaprì gli occhi e notò che la folla si stava lentamente diradando, mentre
l’uomo con il sampietrino ancora in mano lo lasciava lentamente cadere e se ne andava. Ci fu qualche istante di silenzio assoluto, poi una mano lo costrinse a tirarsi su e lo guidò in mezzo alla folla, riportandolo dentro il palazzo, al sicuro.
Michele sentì diverse braccia toccarlo e aiutarlo a sedersi, mentre un panno umido gli veniva posato sulla fronte. Alzò lo sguardo,
incapace di dire una parola. L’uomo davanti a lui lo guardava, e il verde dei suoi occhi rifletteva una paura che poche volte gli aveva visto dipinta in faccia così chiaramente.
«Non fare mai più una sciocchezza del genere. Hai capito?»
Il piccolo gruppo di deputati accanto a lui faceva passare in silenzio lo sguardo da lui a Nicolò, chiedendosi cosa sarebbe successo.
«Nicolò… aspetta… io non…»
Il capogruppo del Fronte si guardò intorno, poi abbassò lo sguardo. Michele cercò di dire qualcosa, ma l’ansia di dire tutto ciò che stava pensando nello stesso momento gli produsse un suono indefinito.
Nicolò scosse la testa, poi sorrise debolmente. I suoi occhi erano lucidi.
«Mi dispiace» disse solo, prima di allontanarsi del tutto, sparendo nel corridoio.
 

Faceva freddo. Michele cercò di stringersi nei vestiti più che poteva, ma non sarebbe stata la maglietta di cotone che aveva addosso a proteggerlo. Tremando, misurò con lo sguardo le pareti dell’aula.
Tutti i suoi compagni di classe lo stavano guardando.
«Mafioso» mormorò uno di loro.
«Vattene via» gridò un altro.
«Bambini, per favore!» la maestra sovrastò le voci, «state attenti!»
«Ma maestra!» piagnucolò in modo irritante uno degli alunni
«Michelino ha comprato i voti. Non può stare qui, lo mandi via!» La maestra si accigliò, e il suo sorriso paziente mutò improvvisamente in uno sguardo severo, rivolto proprio verso di lui.
«Hanno ragione. Esci subito, Michele!»
«Non ho comprato quei voti. Lo giuro, maestra!»
Qualcuno gli tirò un sasso. Qualcun altro gli sputò. Ma Michele restò immobile, mentre assisteva alle pareti che si rimpicciolivano sempre di più, sempre di più…
«Finirai nello sgabuzzino per punizione» sentenziò la maestra, ritornando poi a scrivere alla lavagna come se niente fosse, senza accorgersi che la stanza si stava rimpicciolendo e che la stessa luce del sole si stava spegnendo, lasciando solo un denso buio.
«No! NO!»
Gridò, ma non servì a niente. La luce svanì davanti ai suoi occhi, così come il resto della classe.
Restò da solo, circondato dal buio. Cercò una via di fuga in tutte le direzioni, ma con un solo passo toccò tutte e quattro le pareti che lo isolavano dall’esterno. Sentì forti risate e grida, e Michele non riuscì a smettere di sentirle, neanche tappandosi forte le orecchie con
entrambe le mani. Voleva solo che si fermassero, che lo lasciassero in pace. Voleva uscire di lì, ma l’aria sembrava fuggire dai suoi polmoni e lui non poteva scappare…
La porta si aprì con un tonfo secco, facendolo sussultare. Davanti a lui ricomparve la luce tiepida del suo ufficio spazioso, illuminato dalla lampada sulla scrivania. Alzò la testa cautamente, sentendo la schiena protestare per essersi addormentato in quella posizione scomoda. Davanti ai suoi occhi, comparve la causa del suo risveglio.
«Segretario…»
Marchesi gli sorrideva dall’ingresso. Sembrava inspiegabilmente sveglio e attivo, nonostante l’orologio appeso al muro segnava l’una e mezza di notte.
«Ciao Michele. Non volevo disturbarti, ma ho visto la luce accesa e ho pensato stessi lavorando».
Michele cercò di assumere una posizione decente. Sentiva il viso tirato per la stanchezza e le mani tremare ancora per l’incubo che
aveva appena vissuto. Cercò di ricordare perché si era addormentato nel suo ufficio, e gli avvenimenti della giornata gli tornarono in fretta alla memoria. Lo sputo, il sasso, la folla, Andreani. Lui che si faceva medicare il taglio alla tempia e scappava in ufficio per restare da solo. La folla che era rimasta sotto il palazzo, e lui che si chiudeva nel suo ufficio, perché per nessun motivo sarebbe uscito di lì, anche a costo di doverci passare la notte.
«Io…io resto qui» mormorò piano.
Marchesi lo fissò, interrogativo. Michele deglutì. Aveva ancora senso nascondere a quell’uomo la sua debolezza?
«Ho paura» aggiunse poi, abbassando definitivamente lo sguardo.
L’aveva detto. L’aveva detto a Marchesi, il segretario del suo partito. Perché non aveva più voglia di mentire, e non aveva più neanche la voglia di reggere quella maschera di freddezza che non gli apparteneva per niente.
«Lo so» commentò seriamente Marchesi, «è comprensibile, dopo quello che hai passato ieri pomeriggio. Ma non puoi restare chiuso qui dentro per sempre, no?»
Michele non rispose. Era ovvio che non poteva, ma non poteva neanche uscire, almeno non adesso. Aveva paura di essere preso di mira da qualcuno prima ancora di riuscire a salire su un taxi.
«Conosco posti più comodi per dormire» propose Marchesi, sorridendo come se nulla fosse «vieni con me».
Michele fissò i suoi occhi sorridenti, perplesso. Non aveva il coraggio di dirgli di no. Prese le sue cose, si infilò la giacca e lo seguì. Scesero le scale fino all’ingresso, ma Marchesi evitò la porta principale per prenderne una sul retro, dove a pochi metri di distanza era parcheggiata un auto blu.
«Solito posto, Totò» ordinò Marchesi, salendo sul retro. L’auto partì velocemente nella notte, sfrecciando per le strade, superando le macchine con accelerate brusche, fino ad arrivare in una via di Trastevere. Erano alla sede c’entrale di Sinistra Democratica.
Michele l’aveva vista tante volte, ma non vi era mai entrato. Le bandiere del suo partito sventolavano leggermente dal balconcino. Marchesi estrasse le chiavi e lo condusse dentro. Si ritrovò in uno stanzone enorme, con diverse sedie e divanetti sparsi alla rinfusa. Il segretario prese subito ad affaccendarsi davanti ad una vecchia stufa in un angolo della sala e, pochi minuti dopo, l’ambiente fu reso più accogliente dal debole scoppiettio del fuoco.
«Mettiti pure dove vuoi. Prendo delle coperte».
Michele sedette su uno dei divani più vicini al camino. Non era comodo come il suo letto, ma certamente di più del legno della sua scrivania. Riccardo Marchesi gli lanciò due coperte, spingendo un altro divano vicino al camino.
Michele si tolse le scarpe e la giacca e si sdraiò, abbandonando la
testa su un cuscino. Quell’incubo era riuscito a fargli passare anche il sonno. Osservò a lungo i movimenti di Marchesi mentre si versava da bere, cercando di cancellare tutti i brutti pensieri del giorno appena trascorso.
«Sai, è successo anche a me di essere contestato» raccontò il segretario, «in università, ogni giorno c’era qualcuno contrario alla nostra lotta, che pensava che stavamo solo mettendo gli altri nei guai per il nostro idealismo. Ma io ero cosciente di ciò per cui combattevo, per questo non li ho mai ascoltati».
«Beh… e come si fa a sopportarlo?» mormorò appena Michele.
«Come qualsiasi cosa. Si stringe i denti e si prende la coltellata» rispose Marchesi.
Il giovane non rispose, pensieroso. L’aveva detto ad Arturo che non era pronto per la politica quando l’uomo gli aveva proposto di candidarsi. In quei mesi si era trovato ad affrontare più grane lui di qualunque altro nuovo arrivato, ma a quanto pareva affrontare e superare una sfida non serviva mai a prepararlo a superare meglio quella dopo.
Ci furono diversi minuti di silenzio prima che Marchesi parlò di nuovo.
«Io penso che Andreani ti creda, ma devi dargli tempo. È un po’ infantile, se mi permetti, ma ha anche lui una testa che ragiona».
«Immagino di sì» commentò il deputato più giovane, mettendosi di schiena per fissare il soffitto. Era surreale trovarsi lì, lui e il suo segretario, nella sede del suo partito a chiacchierare in quel modo. Un suono interruppe il silenzio. Riccardo aveva dato due strimpellate a casaccio a una chitarra che chissà da dove aveva tirato fuori, poi iniziò a battere regolarmente le corde seguendo il ritmo. Michele riconobbe vagamente la familiarità della melodia.
«E la locomotiva sembrava un mostro strano…»
Il segretario cantò tre strofe della canzone prima di fermarsi, osservando gli occhi sbigottiti di Michele, che mai si sarebbe aspettato di sentir cantare una canzone di quel genere proprio da lui.
«Sai, convivendo con Thomas in questa sede ho dovuto aggiornare il mio repertorio» si giustificò lui con un sorriso «ho pensato che non sarebbe stata male suonata come ninna-nanna».
Il giovane nascose un sorriso di gratitudine. Il suono di quella chitarra, il calore della stufa e le bandiere e i manifesti appesi su tutte le pareti gli stavano lentamente regalando un senso di rinnovata normalità.
«Abbiamo passato tante serate qui a cantare. Io prendevo sempre in mano la chitarra per primo, ma il primo a cantare era sempre Francesco».
Michele sussultò, realizzando che era la prima volta in assoluto che sentiva parlare il suo segretario di Venturi. Rimase in silenzio, aspettando che Marchesi continuasse.
«Iniziavamo cantando le nostre canzoni, sai… canzoni d’oratorio. Francesco le sapeva tutte, e io gli stavo dietro con gli accordi. Urlava sempre per dare fastidio ai comunisti, il gruppo di Thomas. Allora quelli si innervosivano e iniziavano a cantare bandiera rossa. A quel punto io smettevo di seguire Francesco e accompagnavo quell’orrenda canzone con la chitarra. Lui mi guardava schifato, come se lo stessi tradendo. Io ridevo, lui si sedeva accanto a me e insieme concludevamo la canzone con “evviva il comunismo e la libertà.” Solo che, al posto di comunismo, a sfregio urlavamo
‘capitalismo’. Finivamo per ridere come degli idioti, con Thomas e gli altri che ci insultavano, indignati per aver rovinato la canzone». Marchesi tacque, riempiendo il vuoto con degli arpeggi di chitarra. Michele, che aveva sorriso durante quel breve aneddoto, si rese conto che all’altro doveva essere costato parecchio raccontare una cosa così allegra riguardante un suo caro amico morto. Lo fissò di sottecchi, chiedendosi quanto dolore effettivamente c’era dietro quegli occhi che apparivano così spensierati in quel momento. Sentiva di dover dire qualcosa, anche se non sapeva bene cosa.
«Mi dispiace molto per quello che è successo».
Aveva detto la cosa più scontata che potesse dire, ma Marchesi gli rivolse ugualmente un sorriso sereno prima di riprendere a cantare.
«E sembra dire ai contadini curvi, col suo fischio che si spande in aria…»
Marchesi suonò la canzone fino all’ultima nota, e Michele la canticchiò per intero insieme a lui, sentendo la sua voce affievolirsi per la stanchezza mano a mano che procedeva. Aveva già chiuso gli occhi quando il suo segretario si alzò per rimettere lo strumento al suo posto.
 
 
*
 
Giorgio russava da due ore buone ormai e lui era ancora lì, a fissare il soffitto. Ogni volta che rimaneva sveglio per l’insonnia, gli piaceva vagare con la mente verso universi paralleli, immaginando tutte le cose che avrebbe voluto ancora fare nella sua vita. Quella notte, però, non sembrava esserne capace.
Era sempre stato abituato a cancellare le cose brutte dalla sua vita, e in effetti stava continuando a farlo, passando sopra ai brutti pensieri come se fossero stati tanti minuscoli scarafaggi da calpestare. Il problema era che, una volta ripulita la sua mente da quelli, rimaneva solo un immenso vuoto incolore. Avrebbe tanto voluto parlare con qualcuno, solo per confidare quella sensazione insolita. Desiderava essere capito, avere almeno la conferma di non essere impazzito, e magari sapere anche come fare ad uscire da quel turbine doloroso.
Non aveva mai avuto bisogno di nessuno nella sua vita, anzi, la maggior parte delle volte era lui ad aiutare chiunque fosse in difficoltà. Era sempre stato indipendente, e questo gli aveva permesso di viaggiare ovunque senza preoccuparsi di ciò che si lasciava alle spalle. Anche gli eventi più dolorosi li aveva sempre gestiti senza troppi drammi. Quella sensazione di stare vivendo qualcosa per lui incomprensibile era, quindi, del tutto nuova.
Si alzò dal letto, uscendo sul balcone per accendersi una sigaretta. Istintivamente sbloccò il cellulare. Non sapeva neanche lui cosa aspettarsi. Da un lato avrebbe voluto solo un segnale. Un semplice messaggio con scritto “ti stai sbagliando” o “dobbiamo parlare”.
Dall’altro, sapeva che qualsiasi suo messaggio gli sarebbe arrivato lo avrebbe semplicemente ignorato, giudicandolo solo l’ennesima menzogna di un uomo che si trovava nel punto più basso della sua carriera politica.
C’erano delle intercettazioni scritte, e nessuno poteva contraddirle. Era evidente il suo coinvolgimento, e ogni notizia che saltava fuori in quelle ore sul clan di cui la sua famiglia faceva parte serviva solo a farlo rabbrividire di più. Michele forse poteva anche saperne poco, ma era impossibile che non ne sapesse niente, che ignorasse completamente il ruolo di suo padre e di suo fratello e di come quelle migliaia di preferenze gli fossero piovute addosso. No, lui sapeva e aveva taciuto coscientemente. Forse solo per la sua famiglia o forse per starsene tranquillo, ma in ogni caso aveva mentito. A tutti i suoi elettori, e anche a lui.
Era stato lui a capire subito, fin dal primo giorno, che Michele Martino aveva il marchio della ‘ndrangheta. Aveva avuto ragione. E adesso, cosa se ne sarebbe dovuto fare di quella ragione?
 
 
I giorni seguenti passarono più lentamente di quanto avesse voluto. La mattina si svegliava carico di energia, con una voglia immensa di spaccare il mondo e di continuare a badare alle piccole cose della politica. Durante le sedute in aula cercava di intervenire come prima, mostrando irriverenza verso il deputato di turno della maggioranza che parlava prima di lui, con il risultato che veniva puntualmente ripreso. Era a quel punto che la sua carica di energia si trasformava solo in nervosismo e intrattabilità.
Usciva spesso a fumare, passando la giornata tra il suo ufficio, il bar e il cortile. Ovunque, in ogni momento, sentiva qualcuno parlare di Martino, delle nuove notizie sul giornale e dei suoi comunicati stampa in risposta. Ogni volta, puntualmente, si allontanava da chiunque ne parlasse, diventando ancora di più irascibile.
Gli capitò anche diverse volte di incrociare Michele in corridoio, e ogni volta aveva cambiato direzione. Se fosse stato Nicolò, il vero Nicolò, lo avrebbe affrontato senza problemi. Invece aveva paura, forse paura proprio di aver sempre avuto ragione.
Ogni tanto, però, aveva controllato che non ci fosse nessuno a manifestare di nuovo contro Michele. Perché quella volta, quando aveva visto un uomo tirargli un sasso addosso, aveva perso completamente la testa e aveva deciso di aiutarlo, sapendo benissimo dentro di sé che se in quel momento non fosse stato lì in Parlamento sarebbe stato anche lui tra la folla di manifestanti a dargli del mafioso.
Alla fine di quella settimana, Nicolò era diventato completamente spento. Quel palazzo iniziava a fargli schifo. Anche volendo, lì dentro il Fronte non concludeva mai nulla. Certo, portavano avanti dei progetti, ma erano pur sempre all’opposizione. Era la maggioranza a fare le leggi, loro le contrastavano, e alla fine però quelle leggi passavano. Che senso aveva tutto questo?
«Nicolò, non hai ancora finito la tua parte di emendamenti?» gli chiese gentilmente Chiarelli in ufficio.
Il suo vice, ultimamente, cercava di mostrarsi un po’ più comprensivo, probabilmente per evitare le sue ormai classiche sfuriate. Nicolò, però, non aveva neanche più la forza di arrabbiarsi.
«No, adesso ci penso… nel pomeriggio» borbottò pigramente. Chiarelli gli fece un mezzo sorriso.
«Hai sentito? Domani Martino andrà a testimoniare…»
Il solo sentire il nome gli provocò un fremito di tutto il corpo.
«Non voglio saperne niente» rispose freddamente in automatico, prima ancora di comprendere la frase che gli era stata appena detta. Cosa doveva testimoniare? Non aveva detto di non saperne niente? Sentì la rabbia salirgli dall’interno. Se testimoniava, significava che qualcosa sapeva e non gliene aveva mai parlato.
Uscì dall’ufficio, senza sapere dove andare. Tirò fuori una sigaretta per fumare, poi ne fumò un’altra e poi un’altra ancora. Finì tutto il pacchetto senza neanche accorgersene e stava per dare fuoco anche a quello con l’accendino, ma la suoneria del suo telefono gli bloccò la mano proprio in quel momento.
Era un suo amico, uno conosciuto in un viaggio a Berlino. Faceva parte di un gruppo di italiani con cui aveva legato molto.
Spense momentaneamente il cervello mentre rispose.
«Ehi, Fabio!»
«Ehilà, Nico! Da quanto non ci si sente! Come te la passi? Non mi hai più fatto sapere niente! Parlamentare, eh? Cazzo, bello, hai sfondato alla grande!»
Nicolò impiegò un buon quarto d’ora a raccontare tutto ciò che si era lasciato indietro dall’ultima volta che si erano sentiti, informandosi anche sulla situazione dell’amico e su tutto il resto della compagnia.
«Cazzo, ma vieni a trovarci qualche volta, no? Ti ricordi quando tornavamo a casa la mattina, ubriachi fradici? Non mi dire che ora che stai in Parlamento sei diventato un tipo noioso in giacca e cravatta!» gli disse lui.
«Io? Ma ti pare?» rise Nicolò, mentre i pensieri andavano e venivano nella sua testa. Un viaggio sarebbe stato l’ideale, in quel momento.
Lo avrebbe aiutato a scappare via, via da tutto quello schifo. Forse lo avrebbe aiutato a ritrovarsi. Alla fine, era per questo che viaggiava. Perché poteva tornare a essere solo Nicolò, quello più puro e autentico, quello che non aveva bisogno di nessuno.
Quello libero.
Una folle idea lo percorse da capo a piedi, dandogli i brividi. Chi era lui per contrastare il suo istinto? No, lui era sempre stato quello delle scelte impulsive. Quello che agiva prima di pensare, perché sapeva che il suo cuore lo avrebbe guidato sempre nella direzione giusta.
«Sai che c’è, Fabio? Mi sa che faccio la mattata e domani sono da te!»
«Fai sul serio?»
«Ti sembra che stia scherzando?»
«Cazzo, Nico, ora ti riconosco!»
Bastarono cinque minuti al telefono per mettersi d’accordo sulla logistica. Il tempo di salutarsi, e Nicolò sentiva già le ali ai piedi. Tornò dentro al suo ufficio, libero e raggiante come non mai.
«Chiarè, da domani mi prendo una vacanza!»
 
 
*
 
 
Quella settimana aveva provato, duramente, a rialzarsi. Trascorreva l’intera giornata nel suo ufficio con il suo team, preparando interviste, comunicati stampa e studiando bene tutti gli attacchi a cui rispondere. Il focus principale delle sue risposte era diventata la sua futura testimonianza, e la botta lasciata sulla sua testa da quel sampietrino era diventata una vera e propria benedizione da sbandierare sui giornali, come prova della violenza dei suoi oppositori. Ogni giorno, poi, uno del team si incaricava di studiare la sua popolarità sui social, e Michele notava ogni volta con estremo piacere che era in costante ricrescita.
Durante le pause si vedeva con Arturo, Thomas e Gianmaria, raccontandogli di come portava avanti la sua battaglia contro
l’opinione pubblica. Loro erano sempre comprensivi verso di lui, e riempivano di occhiatacce qualunque deputato del loro partito che non salutava Michele quando lo incrociava in corridoio.
Spesso, poi, il giovane calabrese faceva visita a Marchesi, quando ormai era già tarda notte. Dopo la sera passata con lui alla sede centrale, si era reso conto che il suo segretario si era trasformato in un’ottima compagnia. Era capace di rincuorarlo e di raccontargli mille aneddoti che lo aiutavano a distrarsi un po’ dalla sua vita.
Dentro il suo ufficio, tutto riacquistava senso e ordine.
Quel venerdì mattina, però, tutta quell’ondata di positività venne distrutta con una sola, semplice telefonata, a cui Michele aveva schiacciato il tasto di risposta prima di notare che il numero era coperto.
«Parlo con Michele Martino?»
«Sì…» rispose lui, accorgendosi di sentire una voce distorta.
«Abbiamo saputo che domani dovrai andare a testimoniare in tribunale. Ti conviene non farlo, o ne pagherai le conseguenze». Michele iniziò a tremare e sentì il sudore bagnargli la fronte mentre si guardava attorno, sperando che qualcuno dei presenti si accorgesse che era stato appena ricattato al telefono e corresse ad aiutarlo, o almeno a suggerirgli come doveva comportarsi in quella situazione.
«Ma chi siete? Cosa volete?»
La conversazione si chiuse bruscamente. Michele restò diversi minuti con il cellulare in mano, non sapendo cosa fare. Le opzioni gli galleggiavano lì davanti, ma lui non riusciva ad afferrarle, mentre immaginava con un brivido quali potessero essere le “conseguenze”. Corse in bagno, sciacquandosi diverse volte il viso con l’acqua fredda. Cercò di frenare le lacrime mentre la sua mente ragionava velocemente. Doveva andare dalla polizia. Anzi, doveva testimoniare e dire che lo avevano minacciato. Già ma, le prove? Come avrebbe fatto? Doveva far controllare il cellulare?
L’altra opzione era quella di trovare una scusa per non testimoniare, ma avrebbe subito gli attacchi da parte di tutti i media, a cui da giorni ripeteva che lo avrebbe fatto. No, quell’opzione era fuori discussione. Qualcuno uscì da uno dei bagni, e Michele sobbalzò non appena la sua immagine comparve allo specchio.
Nicolò aveva il solito viso spensierato di sempre e i capelli sciolti che gli circondavano il viso abbronzato. I suoi occhi verdi erano un po’ cerchiati di rosso, ma non aveva la stessa aria sbattuta che gli aveva visto addosso spesso nei corridoi durante quei giorni, giorni in cui avrebbe solo voluto fermarlo e gridargli ciò che pensava, mentre invece si era sempre trattenuto pensando, anche grazie alle parole di Marchesi, che con il tempo avrebbe risolto anche quella situazione.
Nicolò gli rivolse un’occhiata fugace e inespressiva. Si sciacquò velocemente le mani e fece per uscire dal bagno, ma Michele lo afferrò per un braccio, istintivamente.
Il capogruppo del Fronte sembrò combattuto se strapparglielo via o se girarsi verso di lui. Rimase fermo e zitto, attendendo.
Michele ingoiò della saliva.
«Io non ne so niente, Nico. Non c’entro niente con questa storia. Non avrei mai comprato dei voti, e tu lo sai».
«Se non sai niente, esattamente cosa andrai a testimoniare domani?» domandò freddamente Nicolò, evidentemente curioso di sapere la risposta, mentre fissava ostinatamente un angolo della porta.
Michele fece un respiro profondo. Sapeva bene che era una domanda più che legittima.
«Ricordo molti brandelli di conversazioni, ricordo alcune facce che abbiamo avuto a cena, alcuni nomi… Ho delle foto con la mia famiglia insieme a delle persone che magari sono coinvolte. So delle cose sull’azienda di mio fratello, so con chi ha parlato per farla nascere. Non ho mai collegato, ma ora posso aiutare le indagini».
Respirò forte, sperando di essere riuscito a farsi capire. Nicolò gli rivolse uno sguardo carico di ironia.
«Non hai mai collegato, eh? Dì un po’, ti sembra normale avere la mafia in casa per ventisette anni e non accorgersi di nulla?» Michele scosse la testa, colpito nel profondo.
«No, probabilmente non è normale» mormorò piano, «ma è così. Poco fa mi ha chiamato un numero sconosciuto, e mi ha minacciato. Non vogliono che vada a testimoniare. Ma io andrò comunque».
Cercò di sembrare deciso. Nicolò esitò, fissandolo a lungo, poi lo toccò piano sulla spalla.
«Vorrei davvero crederti, te lo assicuro. Ma ogni volta che leggo di quelle preferenze comprate non posso fare a meno di chiedermi quanto tu davvero ne fossi all’oscuro».
«Devi credermi!» Michele si accorse che la sua voce tremava «ti dimostrerò che non centro niente. Ma ho bisogno anche del tuo sostegno, per me è importante».
Era la prima volta che parlava in quei termini e in un attimo avvampò per l’imbarazzo di aver detto veramente ciò che pensava. Nicolò abbassò lo sguardo.
«Ho bisogno di stare da solo. Devo allontanarmi da tutto per un po’ di tempo. Tu cerca di stare attento, abbi cura di te».
Mormorò quelle poche parole a bassa voce prima di voltare lo sguardo e uscire dalla porta del bagno.
 
 
Quella stessa notte, prese un taxi diretto alla sede dei carabinieri più vicina. Avrebbe denunciato il ricatto telefonico, così l’indomani per la testimonianza avrebbe avuto anche la prova della denuncia, nero su bianco.
Quando scese dal taxi, per diversi minuti non riuscì a capire ciò che stava succedendo. Forse, quell’auto con i vetri oscurati parcheggiata proprio davanti all’entrata dell’Arma dei Carabinieri avrebbe dovuto suggerirglielo. E i tre uomini che ne uscirono poco dopo, tutti con gli occhiali scuri diretti verso di lui, sarebbe dovuto essere un segnale abbastanza forte per fargli capire che stava per avere guai.
Solo all’ultimo momento, solo quando non c’era più possibilità di sbagliarsi su ciò che gli stava per succedere, Michele si guardò in giro alla disperata ricerca di aiuto, ma il taxi era già ripartito quando i tre lo afferrarono e lo trascinarono sulla macchina, coperti dal buio della notte.
«Ti avevamo avvisato». Non fece in tempo ad urlare.
Ci furono calci e pugni. Il suo sangue rotolò caldo lungo i vestiti, bagnando il sedile. La sua camicia venne strappata senza riguardo, e altri colpi abbastanza forti gli impedirono di respirare. Michele avrebbe voluto urlare, ma il fiato gli bastava a malapena per respirare. Tremò spaventato quando la macchina si fermò in un vicolo isolato.
Lo avrebbero ucciso, pensò subito. Sì, lo avrebbero ucciso e avrebbero fatto sparire il suo cadavere, come avevano già fatto per i tanti che si erano opposti alla mafia. Non riuscì a fare a meno di pensare a loro, in quel momento. Quegli uomini, quelle donne, quei ragazzi, avrebbero compiuto le stesse scelte sapendo in anticipo la fine che avrebbero fatto?
Si augurò che la risposta fosse di no. Perché in quel momento lui desiderava solo tornare indietro e restare a casa sua, e mai avrebbe voluto rendersi conto di essere meno coraggioso di quanto pensasse di essere.
«No…no…» balbettò terrorizzato, mentre veniva buttato in malo modo sull’asfalto.
Una scarpa lo calpestò all’altezza dello stomaco, spingendolo verso terra con tutto il peso. Qualcuno ridacchiò, e Michele riuscì a pensare solo a quanto tutto quello gli risultava inquietantemente familiare, come se fosse solo un’altra parte di quelle cicatrici invisibili che gli avevano sempre impedito di sorridere, di entrare in un ascensore, di rispondere a tono, di reggere lo sguardo di un’altra persona.
Sentì altri calci colpire il suo corpo, steso a terra. Chiuse gli occhi. Non sarebbe stato quello a fermare il dolore, lo sapeva bene. Ma non avrebbe mostrato il suo sguardo a quelle persone.
Doveva essere forte.
Il sangue gli usciva dal naso, schizzando sulla sua faccia ad ogni colpo.
Doveva essere forte.
Un osso che si incrinava. Conosceva il suono e a il particolare tipo di dolore che ne seguiva.
Doveva essere forte.
Il cemento era gelido, ma dopo un po’ di tempo non sentiva più neanche quel freddo. Sapeva che non era un buon segno, che sarebbe stato molto meglio sentirlo, perché sentirlo voleva dire essere ancora in questo mondo.
Gli uomini gli dissero qualcosa. Non li sentì, aveva l’impressione di non sentire più del tutto.
«Mi dispiace…» boccheggiò, conscio di non stare emettendo alcun suono comprensibile, «mi dispiace».
Rimase da solo. Sdraiato sull’asfalto, con la coscienza che piano piano scivolava via e sembrava volerlo convincere a lasciarla andare lontano dal suo corpo, dove non avrebbe più sentito dolore.
Di solito, a quel punto si svegliava.
Ma quella notte no.
   
 
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