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Autore: Annabel_Lee    07/06/2016    1 recensioni
Federico è sempre stato più assorbito dal suo dolore, dalla sua rabbia, per prestare attenzione a quella altrui: ma qualche volta succede, e ti ritrovi uno sguardo intrappolato in testa e non sai più che fartene, perché sembra che niente te lo possa strappare di dosso.
Lo sguardo, neanche a farlo apposta, è quello di Michael.
[Midez]
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Fedez, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
- Cesare Pavese

VII
Exit Music
 

Federico non dorme.
Sotto le palpebre gli occhi tremano stanchi, nelle tempie il martellare sordo della sbornia è un fastidio ovattato, e in gola sente ancora il sapore acido dell'alcol, perché due ore di sonno non sono niente dopo una notte persa che vibra ancora addosso, ma per una volta Federico resta ad occhi chiusi e sente e basta. Ha la testa piena di qualcosa che non si spiega ed è tutta lì, nel respiro lieve e caldo appena sopra la clavicola, nel frusciare di lenzuola stropicciate, intrecciate alle gambe e strette tra corpo e corpo.
Non dorme, Federico, e per una volta va bene così.
Respira piano, ed è assordante il battito calmo del proprio cuore nelle orecchie. Le sensazioni gli scivolano addosso così lievi, che non riesce neanche più a capire se è sveglio davvero o se addosso ha soltanto i rimasugli di un sogno perso nell'eco di un mattino come gli altri. Forse è la stanchezza, forse qualcos'altro, ma il tempo passa e lui neanche se ne accorge in tutte quel sentire disordinato che lo inghiotte, che lo avvolge con una violenza e una delicatezza disarmanti.
Erano settimane che non riposava così.
Si muove appena. Uno dei respiri caldi che sente contro la pelle si fa un po' più profondo, la mano che gli sfiora il fianco si stringe un po' nel tessuto sgualcito della maglietta che indossa. Federico sente la stoffa accartocciarsi sulla pelle e il calore di quella mano un po' più intenso quando le dita sfiorano la pelle nuda.
È bollente, il corpo premuto contro il suo. Così caldo che gli sembra quasi di soffocare, ma non si scosta, non ci riesce. Qualcosa di morbido gli solletica le labbra, l'odore famigliare di profumo svanito e pelle, che ogni volta che inspira gli riempie la testa, e forse trema un po' quando Michael si muove, affonda ancora di più la testa nell'incavo del suo collo. La barba dell'altro gratta un po' contro la pelle, e la voce arrochita dal sonno vibra contro la gola.
“It's early, just sleep.”
Federico non capisce, perché è poco più di un sussurro nel calore intrappolato tra loro. Socchiude le palpebre e si aspetta la penombra di una stanza buia, e invece gli occhi gli si riempiono di riccioli scuri contro il cuscino bianco e di una camera che ha le stesse sfumature grigie del cielo, tutta riflessi azzurri e pioggia che non cade.
Le tende scostate, le tapparelle aperte. Hanno dimenticato di chiudere la finestra, la sera prima.
La presa di Michael sul suo fianco si allenta un po', diventa una carezza lieve sotto la stoffa. Federico abbassa gli occhi e affonda la testa nei ricci dell'altro, le dita che corrono a stringere i capelli più corti alla base nuca e sospira, Michael, sospira come se il sonno gli fosse fuggito dalle labbra. Stringe la presa fino quasi a far male, Federico, e forse sul collo sente il fantasma di un bacio lasciato troppo in fretta, e resta immobile.
Solo un istante.
“Che ore sono?”
La voce contro la sua gola trema appena, la mano posata sul suo fianco comincia a tracciare i contorni immaginari di un disegno inventato sul momento, così leggera che quasi non si sente. Michael però si stringe di più a lui, gli occhi chiusi e le gambe che si intrecciano tra le lenzuola.
Lo tocca come se avesse paura, Michael. Lo sfiora piano come non ha mai fatto, lui che quando ama lo fa con le unghie e con i denti, con la risata sulle labbra e il cuore che esplode troppo forte, e Federico rivede tutte le volte che nel buio di un segreto l'ha visto sfiorare il materasso vuoto, tra loro solo fumo e parole dette troppo in fretta.
Lo tocca come se ne avesse bisogno, quando la carezza scivola sulla schiena e diventa il pretesto per stringerlo più forte, e Federico se ne accorge e non sa che cosa sia la fitta dolorosa che sente alla bocca dello stomaco, la voglia di chiudere gli occhi nel martellare del mal di testa e di affondare completamente nella pelle dell'altro.
Manca il tempo, per pensare. Per soppesare le conseguenze, per prendere la decisione giusta, e Federico fa di tutto per lasciare da parte quelle sensazioni che sanno di colpa, di dovere. Risente le parole di Michael della sera prima, e prima o poi dovranno guardarsi negli occhi e risolverlo davvero quel mare che li sta consumando pian piano.
“Presto.”
Lo sussurra tra i suoi capelli, e Michael si scosta, alza la testa quanto basta per guardarlo, nei riflessi azzurri della stanza che gli sfiorano il viso. Federico si ritrova quegli occhi languidi e assonnati fissi nei suoi, e muore un po' quando lo guarda sbattere le palpebre con l'ombra di un sorriso sulle labbra, quegli occhi che si abbassano con una timidezza che non gli appartiene.
“Devi tornare?” e non riesce proprio a trattenerlo il tremito che gli incrina la voce.
“No,” dice l'altro piano. “L'aereo era alle otto, e ho detto a Andy che poteva partire da solo.”
Resta in silenzio un istante, prima di continuare. “Non è la prima volta che noi facciamo questo, così.”
Federico lascia cadere il discorso nel niente. C'è troppo tutto in quella camera per spezzare l'incantesimo, e possono fingere ancora un po' prima che il sole sorga completamente e Milano torni ad essere. Promette pioggia, il cielo fuori dalla finestra, cupo e pesante contro il profilo della città, e le nuvole sull'orizzonte sono così nere da far paura. Il chiarore della stanza però è lieve negli occhi, e Federico si ritrova con una mano di Michael che gli sfiora il viso, e per una volta non ha paura dell'intimità di un gesto che racconta troppo e che non dice niente.
Dà ancora la colpa alla stanchezza, e distoglie lo sguardo dalla finestra e dal disordine che riempie la camera e che parla ancora di lui, di Giulia, di lui e Giulia insieme. C'è solo Michael, e il calore della sua pelle, e il suono della sua voce, e sanno entrambi che non può durare.
L'ansia del volersi, del trovarsi, del perdersi ancora, la consapevolezza che resta in bilico in un mattino che non è come gli altri. Forse Federico adesso non è lucido, ma è come se sentisse tutto negli occhi dell'altro, nel calore della sua pelle, nelle mani che non lo lasciano andare.
“Non devi andare per X-Factor stamattina?”
“No. Le riprese le facciamo domani, poi ci sono le prove per la finale la settimana prossima.” le dita di Michael gli sfiorano il contorno dei tatuaggi sul collo, “Oggi sono in studio. Siamo tutti un po' in ansia per il video,”
“Tu sei sempre in ansia.” e ride piano, Michael, e Federico sorride con lui anche quando gli sfiora le labbra in punta di dita.
"It'll be fine,” e sembra mormorarlo a se stesso, mentre alza gli occhi su di lui, e che vuole dire qualcos'altro Federico glielo legge nella bocca dischiusa alla ricerca di parole che non riesce a trovare. È tutto azzurro, bianco, pallido in una mattina d'Inverno, con le nuvole che fioriscono nerissime all'orizzonte e l'alba che è già passata da troppo. Michael non sorride più, Federico affonda le dita tra i suoi capelli, lo sente sospirare.
Solo un istante.


Insiste per mettere della musica, Michael, quando l'ora si fa tarda e non c'è neanche più il tempo per rubare istanti che a loro non appartengono più. La cadenza spezzata di un ritmo a metà tra il jazz e il soul, Nina Simone che canta in sottofondo ai suoi pensieri mentre fissa il bordo sporco di caffè di una tazzina vuota, i postumi che cominciano ad esplodergli davvero nel cervello come cannonate. Alza gli occhi, e il profilo elegante di Michael contro la finestra è tutto ricci scomposti e vestiti stropicciati, il telefono premuto contro l'orecchio e la bocca sporca di un francese un po' impreciso e un po' scocciato. Federico lo guarda e vede la notte appena passata, le parole che non sono riusciti a dirsi.
Sul fondo della tazza c'è ancora qualche goccia di liquido. Il caffè macchia di un alone scuro la ceramica bianca, e Federico lo sente ancora sulle labbra, amaro e un po' bruciato, e affonda i denti nella pelle quasi di riflesso. La voce scura si incastra nelle ultime note di una canzone che finisce, gli ultimi versi di Don't let me be misunderstood che riempiono la stanza e lasciano un silenzio che pesa più di un macigno.
Michael alza un po' la voce, annuisce al niente un paio di volte e poi chiude la chiamata con un sospiro. Comincia un'altra canzone, un pianoforte frenetico che sembra vibrare nell'aria tesa che è calata tra loro.
“Devo prendere l'aereo delle tre,” dice soltanto, una mano tra i capelli e gli occhi fissi sullo schermo del cellulare.
“Ci sono problemi?”
Federico lo guarda scuotere la testa, “Nulla di grave, solo le solite questioni,” scaccia il dubbio con un gesto elegante della mano “infatti, forse è quasi meglio così.”
“Va bene.”
Canta forte, Nina Simone. Canta con la voce che si spezza sulle ottave più alte e il ritmo incessante che si fa sempre più veloce, sempre più violento nel loro silenzio. Una canzone di cui Federico conosce qualche parola, che gli fa muovere nervosamente le dita a tempo con la musica, mentre Michael si avvicina senza guardarlo, e si perde sul suo viso stanco, gli occhi che scivolano sulla curva delle guance, sui due nei scuri su un lato del collo.
Vorrebbe toccarlo e affonda le unghie nei palmi delle mani.
“ È una delle mie canzoni favorite,” dice nervosamente, un sorriso che gli sfiora le labbra, “volevo cantare come Nina Simone da ragazzo.”
Si poggia al tavolo e fissa lo sguardo su un punto indefinito del soffitto. Federico si sforza per capire davvero le parole della canzone, ma non ci riesce, e Michael socchiude gli occhi, come se ci fosse solo la musica e non tutto il resto.
“Non mi hai detto di cosa volevi parlare ieri.”
“Eri ubriaco.”
Eravamo disperati.
Federico vorrebbe ridergli in faccia. Neanche lo guarda, Michael, e addosso ha ancora l'aria sfatta della sera prima, il calore dello svegliarsi accanto a lui che gli ha lasciato sulla pelle qualcosa di viscido che vibra con la musica che li avvolge, con la voce di Nina Simone che canta di peccati e peccatori, di perdono e di condanna.
“Adesso sto bene,”
Non dovrebbe insistere, Federico. Non fa parte del loro gioco, del loro volersi che all'alba sfuma e non resta mai abbastanza per affrontare le conseguenze, e l'ansia che gli mangia il cuore mentre cerca i suoi occhi pesa come un macigno sullo stomaco, lascia i polmoni vuoti ad inghiottire aria in fretta, per paura di rimanere senza voce.
Incalzano, le note della canzone. Le sente rimbombare nel petto.
Michael sospira, e si ostina a non guardarlo.
“Noi non possiamo più vederci così,
Non si accorge di aver trattenuto il respiro. Si ritrova a sputare l'aria con un sibilo lieve, i muscoli tesi in uno spasmo che li fa tremare, e non è sorpreso da quelle parole. Qualcosa trema sotto la pelle, ma Federico abbassa gli occhi, e quella consapevolezza che sente dentro gli fa tremare le mani, perché sotto sotto lo sa anche lui che quel sentire bastardo che cercano l'uno nell'altro è sbagliato. Che stanno tradendo, che la presa di entrambi su una realtà che inghiotte e distrugge si allenta un po' ogni volta che si ritrovano pelle contro pelle, ed è un perdersi che non possono concedersi. Lo sa, Federico, anche se quasi non riesce a sentirle davvero le parole dell'altro.
“Io non posso fare questo, ancora,” continua Michael, e Federico sbircia il suo profilo attraverso le palpebre socchiuse e lo vede tremare anche più di lui, le labbra che cercano parole, gli occhi persi in quel punto sul soffitto che fissa da quando ha cominciato a parlare “Volevo dire questo ieri sera, ma...”
La voce gli muore in gola.
“Io non posso fare questo ad Andy, non voglio,” mormora dopo aver ingoiato un mezzo singhiozzo, e c'è comunque qualcosa che non dice. Federico tiene la testa bassa e i contorni della stanza sfumano nella canzone che ruggisce in sottofondo, quel cielo bianco e azzurro che prepotente illumina i loro occhi anche adesso, e sembra freddo come il ghiaccio contro le pupille sbarrate.
“God, say something,” sputa dopo un attimo, una nota dura nella voce che risuona così piano da perdersi in un sospiro. Federico si morde l'incavo della guancia e annuisce soltanto, perché che quello che c'è tra loro deve finire lo sa da troppo tempo, ma già gli manca il suo tocco sulla pelle, e in tutte quelle parole che gli riempiono il cervello non trova niente. Resta in silenzio per secondi, minuti, ore, gli occhi di Michael che lo guardano come se si aspettassero una protesta che resta muta, incastrata in fondo al petto.
“Hai ragione,” alza gli occhi alla fine, e la voce roca trema, e il groppo che sente in gola preme dritto sul cuore. “Io non lo so cos'è, questa cosa. Ma hai ragione,” il coraggio di incontrare i suoi occhi continua a mancare, e Federico neanche si accorge di essersi alzato in piedi, e quando la sedia sbatte contro il tavolo la tazzina cade e rotola giù, si frantuma in mille pezzi sul pavimento macchiando le mattonelle di gocce di caffè che si mischiano a schegge di ceramica, a parole dette in un sussurro frettoloso. Entrambi sentono qualcosa nel petto che si rompe, che lacera e ferisce e lascia senza fiato.
Il telefono di Michael squilla ancora. Il nome sul display brilla sotto gli occhi di entrambi.
“Devi rispondere,” dice Federico, dopo un minuto che sembra un'ora intera. Quando Michael annuisce vede i suoi occhi brillare in modo diverso, e il grumo che sente in gola gli finisce tutto agli angoli degli occhi.
“Scusami,” dice soltanto, il cellulare già premuto contro l'orecchio mentre esce dalla stanza. Federico fissa la porta e fa un paio di passi, arriva ad intravedere Michael che parla piano con una mano sulla bocca con la voce spezzata come non l'ha mai sentita, con un tremito nelle spalle che vorrebbe sfiorare con la punta delle punta di dita. Parla in inglese, questa volta, e riconosce il nome di qualcun'altro nel tremito delle sue labbra, e vede le sue bugie e le sue giustificazioni echeggiare nel silenzio della canzone che finisce, e lascia solo un gran vuoto nell'anima.
Fa un male cane. 


Il cielo non schiarisce. Resta della stessa tonalità grigia che l'ha avvolto al mattino, che sfuma nel nero dell'orizzonte e nella luce che pian piano si fa più fioca, nel colore che svanisce man mano che Milano si riempie di luci e non si distingue più il profilo dei palazzi da quello del cielo. Federico lo fissa con una sigaretta ancora spenta tra le dita, e la sente tutta addosso la stanchezza che mangia gli occhi, il gelo di una città che chiede pioggia e si ritrova schiacciata da nuvole nere e di parole che restano appiccicate addosso assieme a sensazioni sporche e lacere, umide come quell'aria pesante che appesantisce l'aria, che fa sentire l'Inverno ancora più freddo sulla pelle nuda.
Guarda il profilo di Milano, intravede il suo riflesso sul vetro e distoglie lo sguardo. Michael se ne è andato con lo sguardo sfatto e i capelli disordinati, mormorando qualcosa sul volo, su Andreas, su quello che doveva e non voleva fare. Gli ha stretto il braccio, e Federico si è ritrovato a sfiorargli il dorso della mano, la pelle calda sotto le dita, un dolore senza voce nel petto.
Non c'è andato, in studio. Ha mandato tutto a puttane con le tre chiamate perse che ha trovato sul cellulare e il messaggio di Giulia che non è riuscito a leggere, perché anche dopo essersi fatto una doccia e aver provato a buttar già qualcosa che non fosse alcol o caffè, la nausea gli ha comunque rivoltato lo stomaco, Michael gli è comunque rimasto in testa e sulla pelle. Gli viene quasi da ridere al pensiero del DJ set che deve preparare per domani sera, quando si vestirà di tutto punto per fingersi qualcun'altro e sarà tanto se riuscirà a finire la serata senza troppe cazzate, perché proprio non ci riesce a stare a mente lucida col casino che ha dentro, col silenzio sordo che gli fischia nelle orecchie anche con la musica troppo alta di un locale troppo affollato. Ha dato la colpa ad un'influenza come tante ed è rimasto a casa, e già lo vede lo sguardo preoccupato di sua madre quando se la ritroverà sulla porta di casa, le occhiate scocciate di chi lavora con lui, e non gliene frega più un cazzo. Vorrebbe soltanto fingere che il mondo non abbia smesso di girare, che la sua vita non sia diventata un crescendo di bugie e mezze verità, intrecciate a un sospiro, nascoste in un'ultima mattina passata a raccontarsi stronzate, in un addio che già lo sa finirà dimenticato nell'ebbrezza di un attimo, in quella voglia di perdersi che li ha portati l'uno verso l'altro già una volta. Forse, una parte di lui, quasi lo spera.
Si rigira la sigaretta spenta tra le dita, e dentro sente il premere bastardo di tutto, si morde la lingua e il dolore punge col sapore ferroso del sangue in fondo alla gola.
Le lenzuola che ha scelto Giulia sono di cotone bianco, di quelle che compri per ogni giorno, che appena lavate profumano di buono e di casa e hanno l'odore famigliare di lei, di loro, di tutto quello che avevano e che adesso è increspato in fondo al letto sfatto. Federico le fissa pendere dal bordo del materasso, sfiorare il pavimento. Potrebbe giurare sul fatto che tra quelle lenzuola sgualcite c'è ancora flebile l'odore di sesso e profumo svanito, di calore e silenzio che non ha bisogno di spiegazioni in più, e quasi involontariamente contrae la mascella. Accende la sigaretta, le pieghe della stoffa che tremano negli occhi stanchi, che si riempiono delle ombre di un pomeriggio perso.
“Porca puttana,”
Si stringe una mano tra i capelli, l'ansia che si addensa in gola e diventa difficile da inghiottire, la tensione nelle spalle che gli fa venir voglia di gridare e prendere a calci qualcosa, ma tutto quello che riesce a fare è fissare il disordine, la stanza che si scurisce e sembra svanire con la sera che avanza.
Il telefono squilla. Una, quattro, dieci volte. Federico lo fissa dal lato opposto della stanza e per poco perde anche quella telefonata, prima di sbattere gli occhi e ritrovarsi col cellulare tra le mani.
“Il video è una figata,”
La sente sulla pelle, la risata di Michael, quasi sussurrata nello statico della telefonata, quasi persa nel cuore che gli rimbomba ancora nel petto e che forse soltanto adesso comincia a calmarsi un po'. Non è più il mormorare flebile di qualche ora fa, quando l'ha visto andarsene col cuore stretto in una morsa identica alla sua, e ancora ci pensa allo sguardo nei suoi occhi, a Giulia, a tutto quello che cerca di afferrare e che invece fugge dalle sue dita protese. Si chiede se il bisogno che nel petto grida così forte da lacerare la gola sia colpa di quella voce, se sia davvero possibile dirsi addio al mattino e poi cercarsi ancora, e ancora, fino a che non resta più tempo per darsi spiegazioni. Fingono, e forse è un bene che non riesca a vedergli gli occhi.
“Non l'avevi ancora visto?”
“Sì, ma così è diverso,” una pausa, un paio di parole in francese, il fumo che gli esce dalle labbra e riempie i polmoni, la stanza, gli occhi. “Ho visto appena atterrato. Sta facendo bene, Fede. Abbiamo fatto bene.”
“Mi sa che l'esibizione nudi ci tocca farla davvero.”
Proteste in un italiano stentato che affondano nel petto, risate vuote e un dolore che esplode dentro, che non vuol dire niente. Il loro gioco che si sgretola così, in parole che non vogliono dire niente, nella promessa che finirà tutto e non farà male, anche se continuano a cercarsi.
Scaccia via una risata, Federico, le lacrime che gli pungono gli occhi e neanche sa il perché.


L'aria gelida gli si spezza addosso quando si lascia l'afa del locale alle spalle, il chiasso del pubblico che grida che fischia nelle orecchie e si interrompe nel silenzio di una notte senza voglia. Il freddo gli sfiora la pelle del viso, l’odore lieve del mare che resta in bilico sulla sua bocca il tempo che basta per sentirne il sapore sulla lingua, e Federico si stringe addosso gli stracci della serata, e nel riflesso dei finestrini dell'auto su cui sale dopo neanche dieci passi nel buio vede due occhiaie sotto gli occhi che fanno quasi paura da guardare. Pulsano di una stanchezza che ferisce la pelle e lacera l’anima, e per un istante cerca soltanto di chiudere le palpebre, di poggiare la testa contro il vetro freddo e concentrarsi sul suono strascicato del proprio respiro. L’unica cosa a cui riesce a pensare è quel dolore che preme sulle tempie, che non riesce a strapparsi di dosso. Il profilo della Versilia si illumina di luci opache, di riflessi chiari sul mare che di tanto in tanto scompare dietro case e pinete, scure persino contro il cielo notturno.
Il ricordo della folla che riempie locale ce l’ha ancora impresso dentro. Fissa i corpi accalcati, sente le grida sguaiate oltre il suono della base che fa tremare le casse, ripensa all’ora passata chiuso in bagno per evitare il caos di mani protese e calde sulla pelle, perché certe serate hanno il potere di strapparti l’anima a brandelli mentre sputi le tue parole su musica che senti appena, e quello che resta è il sospiro muto intrappolato in una gola arrossata.
Rivede davanti agli occhi il viso sottile di una ragazza con le braccia protese in mezzo alla calca, i capelli ricci e nerissimi tagliati troppo corti sulla fronte, gli occhi sbavati di nero sorridenti con le fossette scavate sul viso, e si perde in un pensiero che con quel volto sconosciuto non ha niente a che fare, perché a volte capita che qualcuno nella folla ti resti impresso nello sguardo, e allora è facile lasciare la mente libera di vagare. L'ha incontrata di nuovo, poco prima di andarsene, e il suo profumo è rimasto un pensiero agli angoli della coscienza mentre lei si sporgeva per chiedere una foto, per sfiorargli un braccio e gridare qualcosa oltre il rumore. Per un istante l'ha guardata e ha immaginato la sensazione sporca di quel corpo sottile contro il suo, ha rivisito in quegli occhi nocciola troppo famigliari una voglia bastarda che gli ha lasciato una voragine nel petto, e ha scacciato il pensiero con un cenno del capo, una scusa frettolosa. Era bella, quella ragazza magra e spigliata, che ha detto qualcosa che Federico non è riuscito a capire, e forse la sua colpa stava tutta in una somiglianza che si è immaginato, nella confusione in testa che gli ha fatto dire troppo in fretta parole brusche di cui già si pente, perché ha passato una vita a cercare di farsi un pubblico e adesso si ritrova ad odiare con tutto il cuore anche una ragazzina senza voce, persa nel caos di una nottata stanca che non finisce mai.
Si passa una mano sugli occhi, la macchina si ferma, e Federico riconosce l’ingresso di un piccolo albergo che potrebbe essere anche bello nel sole dell’estate, ma che con il buio che sembra non finire mai svanisce contro il freddo e la notte, gli stucchi bianchi sulla facciata spettrali nella luce dei lampioni. Gocce di pioggia grosse e rade macchiano il marciapiede, scivolano lungo il finestrino quando spalanca la portiera troppo bruscamente, e l'occhiataccia dell'autista è gelida quanto quella pioggia densa che colpisce la pelle inclemente. Si stringe nella giacca troppo leggera, risponde distrattamente alle persone che ha intorno con parole che sono sporche di un sonno che non trova da due giorni, di paure che si fanno strada nel petto, adesso che tutto quello che può sentire è il ticchettare stanco della pioggia, e quando si ritrova da solo in una camera d'albergo troppo piccola, qualcosa si spezza davvero. Si ritrova sdraiato nel buio, con quel peso che pian piano scava nella carne e diventa una certezza che risuona nel cervello, un'ansia silenziosa che ti lascia con gli occhi spalancati.
È stanco, Federico. Di una stanchezza che ha poco a che spartire con i due giorni che ha passato senza chiudere gli occhi, da quando Michael l'ha lasciato solo con le sue parole biascicate, con quei suoi occhi che rivede ovunque, anche sul volto di sconosciuti in una serata strana ed amara sulla bocca.
Il buio che la notte ti getta addosso è anche e soprattutto spogliarsi della forma, rimanere nudi con il vuoto che ti riempie che diventa viscido sulla pelle, ed è più facile venire a patti con se stessi e mettere a tacere quelle voglie che ti rodono le ossa ad ogni respiro spezzato. La notte è il silenzio rotto di sospiri affannati dalla voglia, è il ricordo che Federico accarezza con le dita e diventa ossessione, e sarebbe tanto più facile chiudere gli occhi e fingere di non ricordare la sensazione che un'alba azzurra gli ha lasciato sulla pelle. Fissa il cellulare dimenticato sul comodino, e la voglia di premerlo contro l'orecchio, di sentire la sua voce solo per il gusto di sentirsi vivo resta un brivido lungo la schiena, un altro capriccio inghiottito dalle ombre di quelle pareti sconosciute.
Quando chiude gli occhi continua a non dormire, mille parole impigliate dentro restano in bilico in quell'apatia che gli divora in cervello. Non riesce a sentire neanche l'emozione della serata che si è appena lasciato alle spalle, perché l'adrenalina del palco gli ha lasciato addosso soltanto altre paure, altre emozioni da raccontare senza troppa convinzione in versi che neanche sente più suoi.
Gli anni delle prime trasferte se li ricorda tatuati sulla pelle ancora pulita, sporchi del sudore appiccicato addosso dopo sette ore di treno, sprofondato nel sedile di plastica di una linea sempre in ritardo, a ripetersi le rime a memoria perché i primi freestyle sono sempre così, e finché non ti facevi beccare potevi anche provarci, a fare il furbo. Federico l'ha imparato subito che alla fine è inutile ripetere a mente assonanze inventate, perché quando ti ritrovi col culo sul palco e con qualcuno più bravo di te davanti, il cervello si spegne, e allora addio sogni di gloria. Aveva diciassette anni, forse sedici, la prima volta che si era ritrovato solo e lontano da Milano, con quella voglia di cambiare il mondo che anni passati a sognare su punk e parole gridate gli avevano lasciato sul fondo della gola, e la prima figura di merda su un palco non te la scordi mai. Però non ti scordi neanche la prima volta che qualcuno che non ti conosce grida e applaude per te, e Federico l'aveva capito subito che cazzo, eccolo il senso. A ripensarci adesso la nausea gli stringe le viscere, il silenzio si fa più denso sulla pelle. Comincia ad odiarlo, il palcoscenico. Le luci dei riflettori. Adesso che non riesce neanche a scrivere più quelle rime scazzate che tanto gli piacevano da ragazzo, e tutto quello che vorrebbe è un calore che ha perso.
Continua a cadere, la pioggia, in bilico sul vetro gelido di un albergo nel mezzo della periferia di una città che non conosce. Per una volta guarda oltre le tende tirate malamente da un lato, e il profilo di Milano gli manca quanto il profilo di Michael contro la curva del collo, e chiudere gli occhi di fronte al buio che schianta il cuore è facile come respirare


Il Forum d'Assago è cemento armato e sponsor a vista, contro il cielo di una periferia sbattuta. Un ossimoro bugiardo e brutto da vedere, che resta negli occhi come una scala di grigi di troppo, e non ci vuole molto ad immaginare le gradinate scolorite e le travi d'acciaio che sorreggono il tetto, perché in un palazzetto l'eleganza è l'ultima preoccupazione. Stona con l'aria tirata che Sky ha tentato di laccare sulle pareti rosse e nere dei corridoi privilegiati, quelli che stanotte si riempiranno della Milano che conta e ama farsi guardare. Sarà che Federico ha sempre avuto una passione smisurata per i residui sporchi di un populismo svanito, e il Forum si presta bene ad un paesaggio tutto schegge di vetro e degrado periferico, ma lo preferisce visto da fuori, in mezzo all'erba ingiallita di un Inverno denso di nebbia e desiderio. La cartolina di un romanzo di Pasolini che diciamocelo, non si è mai dato la pena di leggere.
La fissa per un minuto intero prima di lasciarsi l'esterno alle spalle, di prendere una boccata d'aria ed infilarsi nell'ultimo atto di una farsa che lo sta facendo soffocare
Appena vede quel palco spalmato al centro dell'arena lo stomaco si annoda in qualcosa che non ha niente a che vedere con l'ansia che ha già sentito prima di mille altri spettacoli, che vibra nel petto e ti fa gridare più forte contro il pubblico. Resta immobile ai margini del fermento dei preparativi per quella finale che sembrava lontanissima, e alla fine è arrivata in un battito di ciglia, e il mondo negli occhi scorre a rallentatore, una colata grigia, polvere fitta che resta appiccicata alla pelle accaldata.
“Proviamo l'ultima volta poi tocca ai giudici, per favore,”
La voce di Tommassini è distorta dal microfono, rimbomba nelle orecchie e riempie il palazzetto di una nota d'impazienza. Intravede Elio parlare con un tecnico, riconosce Skin discutere gesticolando con un paio di telecamere, e il mostro si muove lento, si mette in moto con una precisione che è tutta illusione da diretta, patina luminosa per le copertine di domani. Ci sono anche i ragazzi, seduti uno accanto all'altro, gli occhi dilatati dalla tensione e un sorriso sulle labbra che non immagina, che il buco nero della fama da poco che un talent ti concede per un paio di mesi non ha ancora incrinato, e a Federico dispiace davvero. Quasi egoisticamente spera soltanto che almeno gli Urban ce la facciano, che con quella passione ci riescano davvero a tirare fuori un mestiere da un paio di chitarre e troppi sogni. Con quello che il mondo ti sputa addosso appena lasci il loft e il contratto che ti offrono se hai la sfortuna di vincere forse è meglio augurargli la sconfitta, a pensarci bene.
Le casse vomitano la base che durante le prove sostituisce la musica dal vivo, il corpo di ballo si intreccia in colori sbiaditi che Federico non riesce a seguire. La testa gli esplode di una stanchezza che pulsa intorno agli occhi, e si trattiene dal cercare il suo sguardo in mezzo ai volti di un centinaio di mezzi sconosciuti.
Scaccia il pensiero, si morde l'interno delle guance fino a farsi male. Il fatto è che può fingere quanto vuole, ma loro sono uno dei pezzi forti della serata, e vallo a spiegare al pubblico che la voce gli muore in gola al solo pensiero di salire sul palco insieme a lui, perché nella musica condivisa c'è qualcosa di così intimo che va otre i gesti, le scuse, e proprio non vuole neanche immaginarla la scarica d'adrenalina lungo la spina dorsale, il tremito dell'emozione come una carezza sul petto affannato.
“Ti aspettano dietro le quinte,”
La voce non la riconosce subito, ma quando si volta il volto sorridente della ragazza bionda è fatto di nervi tesi e capelli disordinati, le dita sottili che torturano una cartelletta stretta tra le mani. Forse è per questo che sorride di rimando, di un sorriso che non tocca gli occhi.
“Ce la faccio a fumare una sigaretta?”
Lei si volta un istante verso il palco, Tommassini che urla qualcosa e riempie il silenzio del vibrare degli impianti, e la tensione nelle spalle sottili le tende i muscoli del collo, le fa arricciare le dita. “Il grande capo vi vuole tutti e tre sul palco, mi dispiace,” un istante di pausa “E io devo microfonarti.”
“Tutti e tre?”
“Manca Mika. A quanto ho capito è in ritardo, ma a noi comuni mortali non è dato sapere altro,” le resta sul viso un sorriso sornione che Federico neanche riesce a vedere, gli occhi persi in pensieri che non vorrebbe, in congetture che gli restano impigliate nel cervello quando sbatte le palpebre e lei continua a guardarlo.
“Come scusa?”
“Ho detto che tu dovresti saperne più di me. Sbaglio?”


Il mozzicone si infrange sull'asfalto in mille scintille rosse, la sera cala così in fretta che il bagliore gli resta negli occhi col colore screziato del giorno che muore, dell'Inverno che mangia e inghiotte e lascia sulla pelle un gelo che è un po' un sollievo, un po' una pugnalata. Si è lasciato alle spalle un camerino pieno di costumiste e truccatrici, con sua madre che continua a gridare e Giulia che si è limitata a mandare un messaggio per dirgli che questa sera dopotutto verrà anche lei, che la gente parla e che anche se probabilmente questa volta è finita davvero non vuole che nessuno faccia domande. L'ha ringraziata sinceramente. L'ultima cosa di cui ha bisogno adesso è un'altra rottura di coglioni.
Federico abbassa gli occhi sulle mani strette intorno alla balaustra di ferro, quando la cenere incandescente svanisce. Si morde l'interno delle guance fino a quando non sente il sangue bagnargli la lingua, e il sapore metallico che gli resta in bocca si mischia al fumo, al freddo, al silenzio che si spezza quando una voce troppo famigliare lo fa sobbalzare e il nodo che sente nello stomaco si stringe un po' più stretto.
“Nessuno ti trovava. Aspettano per le prove,”
Michael è arrivato con l'ultima sigaretta di un pacchetto da venti comprato al mattino, con l'ansia che riempie il cervello ad ogni ora che passa, con la paura di alzare lo sguardo e trovarselo davanti senza sapere che cosa sentire. L'ha visto in mezzo al corridoio affollato, i capelli ancora scompigliati, il cappotto dritto sulle spalle, quella risata spontanea a macchiargli il viso come una bugia, e proprio non c'è riuscito a controllare il ritmo impazzito del cuore che si ritrova, a frenare la rabbia che tutta questa frustrazione gli ha cucito addosso. Nell'istante in cui i loro occhi si sono incontrati il sorriso è svanito dalle labbra dell'altro, e Federico ha provato davvero a chiedersi dove fossero finite tutte le loro belle parole.
La verità è che Michael è sempre stato più bravo di lui, a fingere. Non avrebbe dovuto stupirsi nel vederlo sorridere ancora, labbra tirate e occhi che nonostante tutto continuano a tradire un vuoto che è lo stesso che Federico sente nel petto, ad accennare un saluto che non insospettisca, che non faccia crollare il delicato castello di carte di una messa in scena dove si ritrovano tutti a recitare una parte scomoda.
Vorrebbe voltarsi, e trovarlo diverso. Invece continua a guardare la sigaretta spenta.
“Arrivo,”
Un sospiro impercettibile, un frusciare lieve di passi e il calore di un braccio che sfiora il suo quando Michael si appoggia alla balaustra accanto a lui. Federico fa di tutto per non alzare lo sguardo, e stringe il metallo gelido fino a far sbiancare le nocche.
“Tutto bene?”
“Mi serviva una sigaretta. Tommassini rompe i coglioni?”
“Dobbiamo anche riprendere per il Daily”. Lo sente spostare il peso dal lato opposto al suo, il calore lieve del suo avambraccio che scompare nel gelo che gli afferra la gola. Si volta in quel momento, Federico, quando diventa troppo fingere di non averlo accanto. Michael lo guarda con gli occhi scuri di stanchezza, gli stessi capelli scompigliati, l'ombra di un sorriso sul volto che sembra trattenere. “Non dovresti fumare prima dello spettacolo. La voce,” aggiunge dopo un istante, e Federico si perde nel gesto vago che accompagna le sue parole, nel modo in cui indica distrattamente la sua gola prima di abbassare gli occhi. “Già io sono senza, altrimenti stasera facciamo schifo tutti e due,”
“Sei senza voce?”
Michael ride appena, la bocca tesa in un ghigno sfatto. “Sono un po' low, come si dice?” mormora, il tono arrochito ridotto ad un sussurro “prendo qualcosa stasera e vediamo come va,”.
Il silenzio riempie il vuoto delle parole che non dicono. Della voglia che Federico ha di toccarlo ancora, per caso, e di ritrarre subito la mano. Di quella rabbia sorda che gli esplode nel petto a guardarlo, perché ancora lo vede con gli occhi socchiusi nell'azzurro di una stanza che sembra esistere solo in una fantasia rubata al sonno, e che invece è un ricordo vivido che brucia sotto pelle.
L'ansia di entrambi si condensa nel freddo che li circonda in respiri lenti, che sfuggono dalle labbra socchiuse. Federico allenta la presa sulla balaustra, le dita intorpidite che sembrano quasi andare a fuoco mentre il sangue ricomincia a fluire normalmente. Michael non dice niente. Si limita ad abbassare gli occhi nel nero che comincia ad inghiottirli pian piano.
Federico si lascia scappare un sospiro.
“Andiamo,” dice soltanto, avviandosi verso la porta antincendio lasciata socchiusa.
Michael alza gli occhi, senza muoversi. “Non deve essere così,”
“Così come?”
Michael non risponde subito. Lascia che le parole cadano nella voragine aperta tra loro, in tutti quei pretesti strascicati che si sono gettati sulle spalle. Lo guarda esitare, come fa sempre quando neanche lui sa come tirare fuori quel nodo che gli stringe la gola, e alla fine si passa una mano tra i capelli, si sforza di rimanere lontano da lui. Federico lo vede nel tremito delle dita nervose fra i riccioli scuri.
“Non dobbiamo comportarci come sconosciuti,”
“Non dobbiamo neanche limonare sul palco, se è per questo.”
La presa che gli stringe il polso è fredda e sicura, un gesto impulsivo che scotta sulla pelle in fiamme di una rabbia che non ha voce. Federico sbatte le palpebre un paio di volte, il busto ruotato d'istinto verso il corpo che ha fermato i suoi passi decisi verso un palco affollato, verso la farsa che entrambi dovrebbero recitare. Sono caldi, gli occhi di Michael, umidi quanto i suoi, pieni di troppe parole perse in quella stretta inclemente che si artiglia al suo polso, che non lo lascia scappare.
Stop it
Gli trema la voce. Gli trema la voce, quando Federico si ritrova a fissarlo senza sapere più cosa dire. “Abbiamo fatto bene a finire quella cosa Federico,” e non ci crede neanche lui che parla piano, l'accento che scivola sulle parole e le deforma nell'ombra di un singhiozzo strozzato. “Non vale la pena di perdere tutto così.”
C'è un momento di silenzio in cui Federico trova la forza per scostarsi, lo sguardo improvvisamente basso e le unghie delle dita che scavano lunette rosse nel palmo delle mani. Michael si tortura le mani in una stretta nervosa, si morde piano le labbra quando è costretto a ricacciare in gola un sentimento non concesso.
“Prendiamoci due minuti, dopo,” la calma ritrovata nella voce che non riesce a nascondere proprio niente di quello che gli annebbia gli occhi. “Adesso ci aspettano dentro, ma noi dobbiamo comportarci come professionisti, capisci? Dobbiamo suonare insieme e non possiamo così.”
Lo dice come un dato di fatto. Come se bastasse, e Federico le sente affondare nel petto quelle parole strascicate e stanche, roche contro l'aria freddissima, sporche dello stesso tono stanco che ha sentito scivolare lungo la gola in gemiti soffocati. Il problema con Michael è sempre questo: più lo guarda, più lo ascolta, più in testa si confondono ricordi ed immagini, sensazioni che ha ricacciato sul fondo dell'anima fin dalla prima volta e che continuano ad esplodergli dentro ogni volta che lo vede così, lontano da un palco e dalle loro bugie. Per quanto continuino a nascondersi dietro maschere di cera, tra loro vibra un'onestà crudele.
Sarà che ancora, in fondo, sente il dolore di una fine che nessuno dei due riesce ad affrontare. Sarà che la sua rabbia muore tutta là, in quello sguardo sul punto di andare in mille pezzi. Allenta la stretta convulsa delle mani, e i solchi rossastri impressi dalle unghie pulsano piano nell'aria sempre più fredda.
Ed è difficile.
Quando si trovano uno accanto all'altro e nell'arena vuota, la voce di Tommassini che rimbomba contro l'acciaio annerito, quando nella tensione delle prove generali Michael abbassa gli occhi e fa di tutto per nascondere una voce affaticata che proprio non ci riesce a toccare le note giuste, quando Federico si ritrova a cercare il suo sguardo in mezzo a scenografie grottesche e sguardi indaffarati, mordendosi così forte l'interno delle guance da sentire il sapore metallico del sangue sulla punta della lingua. È difficile guardarsi negli occhi, nascondersi dietro risate nervose e scherzi da palcoscenico, è difficile abbassare gli occhi col panico che rimbomba nelle orecchie, è difficile quando scappa nel corridoio e Michael gli sfiora una spalla, gli chiede di seguirlo nel buio di una discussione che non è pronto ad affrontare, perché in fondo al petto Federico continua a tremare. Forse è per questo che, quando si ritrovano ancora soli, il silenzio inghiotte anche la voglia, e questa volta il tremito riesce a vederlo anche nelle labbra di Michael, socchiuse nel gelo della serata, le mani affondate nelle tasche dell'ampio cappotto scuro, il Forum d'Assago un'ombra che svanisce alle loro spalle insieme ad un paio delle maschere che entrambi sono costretti a cucirsi addosso, e questa volta Federico la sente davvero la calma piatta prima di una tempesta che tarda ad arrivare. Camminano fianco a fianco nel buio e Federico vorrebbe sentirlo parlare, vorrebbe sentire che cazzo c'è da aggiungere a tutte quelle parole che non hanno avuto il coraggio di dirsi per rimediare ad una serata che già si prospetta come un mezzo disastro. Si sono lasciati alle spalle gli sguardi, le giustificazioni, ma l''aria fredda continua a sbattergli negli occhi la consapevolezza che ormai qualcosa si è spezzato. Che quel brivido che sente nel calore del corpo a qualche centimetro dal suo ormai può solo far male.
Dovevano aspettarselo.


La condensa scivola sul vetro. Si addensa in gocce fredde che bagnano appena le punta delle dita, si incastrano nelle pieghe di un'etichetta strappata che non riesce a smettere di torturare con le mani nervose, e alla fine macchiano la tovaglietta di macchie un paio di toni più scuri del rosso acceso che ferisce gli occhi. Il Bar in cui si sono nascosti è lo stesso di una mattinata che sembra lontana anni, e tra loro adesso non c'è il velo di una carezza amara sulla lingua, il premere stanco di una notte insonne sugli occhi. Solo il vuoto di parole dette tanto per colmare il silenzio, e le briciole sparse di una cena frettolosa.
Parlano di tutto, parlano di niente. Perdono tempo nel ticchettio nervoso dei minuti che passano, e Federico proprio non ci riesce a sputargli in faccia il suo nervosismo, a scrollarsi di dosso la sensazione sporca che sente irrigidita nelle dita.
Anche se non riesce a trattenere una risata tesa quando Michael biascica un paio di parole sul volo, sul loro pezzo, su Amira che prima di partire ha distrutto una copia vinile di Hunky Dory pagata un paio di centinaia di sterline. Il silenzio alla fine cade comunque, anche se ci hanno davvero provato a fingere. Federico alza gli occhi sul viso di Michael, e lo trova a fissarsi le mani intrecciate sul tavolo, le labbra torturate da morsi nervosi. Ed eccola lì, la loro colpa, che scivola tra loro in uno sguardo lanciato per errore. Federico la sente addosso come fossero le sue mani.
“Una volta,” comincia piano, poco più di un sussurro, l'accento ancora più evidente nella voce arrochita. Nella stanza adiacente il Vecchio dietro il bancone getta un'occhiata nella loro direzione, prima di riprendere a riordinare la pila di musicassette sotto le bottiglie di amaro. Non c'è musica, questa volta, e il ticchettio dell'orologio appeso alla parete color senape rimbomba nel tempo che Michael ruba per parlare di niente.
“Una volta per un concerto ho completamente perso la voce. Ad un certo punto io non riuscivo più a cantare. Per niente,” gesticola vagamente con una mano, prima di lasciarla ricadere sul tavolo, di stringere le dita tra le dita quasi a farsi del male. Che non ha niente a che fare con la storia che sta cercando di raccontare, Federico glielo legge negli occhi che lo sbirciano appena sotto le ciglia. “Complitamente senza voce. Ma non potevo interrompere tutto. Allora ho chiesto al pubblico di cantare con me,” sorride appena, gli occhi persi nel ricordo. “È stato bello.”
Federico annuisce. “Io non ce l'avrei fatta,”
“Non devi avere paura questa sera. It's just two minutes. Andrai bene.”
“Non hai paura per il pezzo?”
La frase gli sfugge con una punta di cattiveria che non riesce a trattenere. Si pente di quello che ha detto quando Michael non risponde, e si limita a prendere un sorso di birra con una smorfia involontaria sul viso.
“Scusami."
“Non deve,” si passa una mano tra i capelli, e questa volta alza lo sguardo per guardarlo davvero negli occhi. Federico non lo regge, quello sguardo ambrato che gli scava nell'anima ad ogni respiro, ad ogni parola impigliata nella gola.
“Quello che c'è stato tra di noi non deve essere in mezzo stasera,” scuote la testa. “Io capisco se tu mi dici che non vuoi più avere a che fare con me. Ma c'è in mezzo la performance, c'è in mezzo il pezzo. Pretendiamo che vada tutto bene questa sera, e poi se vuoi...”
“Vaffanculo.”
Federico si morde le labbra subito dopo averlo detto. Ma non abbassa lo sguardo. Non ci riesce, anche con le lacrime facili che gli premono agli angoli degli occhi, anche se non ne verserà neanche una perché cazzo, non ce la faccio più.
“Okay alla recitina per il pubblico, okay al ridere e allo scherzare sul palco per non far crollare il pezzo. Ma non puoi venirmi a dire che non devono girarmi le palle per questa cosa. Non raccontarmi cazzate.”
“Non ho detto questo.”
“E noi due non abbiamo mai scopato. Visto, ho capito subito il gioco.”
“Federico,”
Non si era accorto di aver alzato la voce. Istintivamente segue lo sguardo di Michael, e i suoi occhi incontrano quelli appena corrucciati del Vecchio dietro al bancone. Ha ancora in mano una delle sue musicassette, ma nel suo sguardo non c'è sorpresa, non c'è disgusto. Federico annega in quello sguardo un po' velato, un po' malinconico, pieno di una consapevolezza che non si aspettava sul volto di uno sconosciuto che conosce da quando aveva quindici anni. Il Vecchio però abbassa lo sguardo quasi subito, riprendendo a riordinare la sua musica in silenzio.
“Non penso ci abbia riconosciuti,” dice soltanto. “Io non ce la faccio Mic. Mi sta andando a puttane il cervello, da quando questa storia è iniziata.”
Michael continua a torturarsi le labbra. “You never did anything you didn't want to,” e la frustrazione nella sua voce gli rimbomba tutta nel petto.
Cade ancora il silenzio. Pieno, denso di niente. Federico vorrebbe alzarsi, sbattere la sedia contro il pavimento, lasciarsi alle spalle una vita che non vuole, un sentimento che lo sta facendo soffocare. L'orologio ticchetta ancora. Il tempo scivola via dalle loro mani.
Quando Michael gli sfiora ancora il braccio il primo istinto è quello di ritrarre la mano. Di allontanarsi e scrollarsi di dosso quel brivido involontario, quel tremito bastardo che tutte le volte lo frega. Ma non ci riesce. Sono fredde, le mani di Michael, contro il battito violento del suo cuore.
“Io non voglio chiudere così. Con questo,” cerca le parole, le sue dita indugiano, e quando le sputa fuori lo fa in un inglese che Federico non riesce a capire subito. “I don't want to let you go like this. I care.”
Per un istante, ci crede davvero.
Alza gli occhi, e quelli di Michael sono così caldi contro i suoi che quasi qualcosa gli scatta dentro. È un momento, un brivido, l'istante in cui in quel tocco lieve affonda ogni cosa, ed eccola là quella mattina azzurra, quella stretta al petto rubata ad una carezza. Negli occhi di Michael c'è un mondo che non possono avere. Si allontana dal suo tocco appena abbassa lo sguardo. Il tempo è finito.
“Non siamo niente,” Federico incrocia le braccia, si lascia andare ad una risata nervosa. Michael si limita a guardarlo. Lo guarda, lo guarda e Federico lo vede morire ad ogni parola che si lascia sfuggire. “Ci siamo sfogati. Abbiamo sbagliato. Stasera accontentiamo il pubblico. Due risate, un paio d'abbracci. Poi ognuno per la sua strada.”
Michael non aggiunge niente. “Va bene,” e lo dice con una voce che Federico non ha mai sentito, e vorrebbe potersi sentire più leggero, vorrebbe poter dire che tutto quello che gli pesava sul petto è scivolato via. Ma gli occhi di Michael sono ancora lì, anche quando forza un sorriso sulle labbra, anche quando indica l'orologio e dice con quella voce rotta che è tardi, che si devono sbrigare. Dietro il bancone il Vecchio continua a guardarli, e Federico per un istante è convinto di trovare una sfumatura di compassione sul suo viso. Forse, è soltanto la sua immaginazione. 


Le ore si accartocciano, si confondono, perdono senso in rintocchi scanditi dalla musica che pompa nelle orecchie e non si ferma mai. L'After party si consuma nel ritmo spezzato di note gridate e graffiate, di stonature annegate nell'alcol a cui Federico non fa più caso, che nel marasma che riempie la sala si mischiano al sapore di una bevuta dolciastra ad impastare la bocca , di una leggerezza che gonfia nel petto ad ogni sorso, ad ogni sguardo.
Le notti di Milano sono così. Esplodono negli occhi con le mille contraddizioni di un vita buttata, con la voglia di gridare che gratta in gola ad ogni pulsazione delle luci violente che ti colpiscono gli occhi. Dopo la finale anche X-Factor diventa un pretesto per grattarsi via l'anima, per riflettere sul niente che una gara fine a se stessa lascia nel petto.
Intravede Gennaro e Alessio ridere sguaiati nel buio che pulsa di luci, Davide che accanto a Skin improvvisa una Jam che probabilmente si ricorderà per tutta la vita, cerca qualcun'altro con lo sguardo e trova soltanto braccia alzate, grida mute. Pensa alle grida del pubblico che ancora gli vibrano nel petto, al caos che è esploso nel palazzetto quando tutto è finito, alla sensazioni che solo un palco come il forum ti lascia addosso. Pensa a Michael che canta accanto a lui davanti a diecimila persone, e fanculo alla voce affaticata, ai monitor con i volumi completamente sbagliati. Lo sente ancora stretto in un abbraccio troppo forte, un sorriso premuto nell'incavo della sua spalla che nasconde occhi lucidi e parole brusche, una stretta al petto che in fondo fa ancora un po' male. E non ha vinto, ma va bene così, ed è quasi contento per i suoi ragazzi, che, con tutta la fama facile di un talent da prima serata e senza un contratto discografico spaccaossa, forse qualcosa di buono possono combinarlo davvero. È finita, e non sa se ridere fino a spaccarsi la mascella o piangere per quella consapevolezza che gli riempie il petto e ha il sapore di un addio che non vuole affrontare.
Sbatte le palpebre, e alza il fondo del bicchiere verso il soffitto con uno scatto del capo. Beve, la bocca va a fuoco, e si fa strada nella calca alla ricerca di un volto famigliare, di un calore che non si spiega. Lo vede ancora, Michael, che balla su quel palco improvvisato, che canta a squarciagola guardandolo fisso negli occhi, che gli sbatte in faccia un sorriso che non dovrebbe essere così luminoso dopo tutto quello che è successo tra loro. Ha recitato così bene la sua parte che per un istante Federico con lui ha riso davvero. Adesso lo cerca, nella stanza, ma c'è solo rumore. Un grido muto nelle orecchie, e il tempo per pensare alle conseguenze che va a farsi fottere in un ultimo bicchiere.
L'aria gli scivola addosso appiccicosa, umida, mentre si allontana dal palco e si fa spazio nella folla lungo i corridoi laccati di nero. Intravede volti famigliari nel buio, ma è già tanto se riesce ancora a reggersi in piedi. Quando la porta del bagno gli sbatte alle spalle, la luce al neon ferisce gli occhi, riflessa nella doppia fila di specchi che affondano l'uno nell'altro, che si confondono in migliaia di riflessi e gli fanno girare la testa.
L'odore acre del disinfettante lo costringe ad ingoiare la bile sul fondo della gola. La stanza vortica intorno alle palpebre chiuse anche quando chiude gli occhi e riprende fiato, la musica ovattata che attraverso le pareti arriva comunque a rimbombare nelle orecchie. Quando li riapre, le luci fanno un po' meno male, e quando afferra i bordi di uno dei lavandini bianchi stringe la ceramica tra le dita fino a far sbiancare le nocche.
Sente lungo la schiena un brivido famigliare, un calore che gli afferra lo stomaco e lo trascina via. È una notte di silenzi forzati, di parole sussurrate, e in fondo, in tutto il casino di una sala troppo piena, ha trovato soltanto la soddisfazione di una rabbia gridata via, di un a libertà che non provava da mesi. X-Factor chiude il sipario, e lui riesce a respirare.
C'è ancora quel peso, però, che tenta di lavare via dalle occhiaie con l'acqua gelida, che tenta di annegare nell'aria asettica del bagno di un palazzetto travestito da grande teatro, e quasi non si accorge della porta che sbatte, dei passi strascicati alle sue spalle.
Quando alza gli occhi, l'acqua continua a scorrere dal rubinetto.
“Mic,”
Lo guarda nel riflesso di una fila infiniti di specchi, e c'è una parte irrazionale del suo cervello che gli urla di non distogliere lo sguardo, di rimanere immobile con le gocce d'acqua che gli scivolano sul mento, perché forse a voltarsi quegli occhi ambrati scomparirebbero nel nulla di una porta chiusa in faccia, di un silenzio che dietro le quinte ha soltanto il sapore delle loro mezze verità. Lo guarda, e vede disegnate sul suo viso le ore appena passate, la stanchezza, mischiata a qualche bicchiere di troppo e a quella luce che gli accende lo sguardo sempre, anche quando tiene le labbra strette in una morsa sottile. Alla fine di tutto gli occhi di Michael gli hanno scavato dentro una voragine così profonda che qualcosa gli sussurra che neanche il tempo riuscirà a colmarla: o forse è soltanto il brivido di averlo vicino così, lontano da tutti, senza le grida di una vita che non vuole che gli fanno esplodere il cervello.
“Giulia ti cercava,”
La voce di Michael è flebile, roca, stanca quando le occhiaie nere che si ritrova scavate sotto gli occhi, e più lo guarda più Federico sente il petto stringersi. È la voce sbattuta che ha perso nelle grida di una notte che non è ancora finita, e resta tutta là, in bilico tra loro.
Giulia l'ha vista ballare appena sotto il palco con il sorriso sulle labbra e un vestito nuovo, le mani buttate al cielo, gli occhi che di tanto in tanto incontravano i suoi. Non ci ha dato troppo peso. È solo un altro pezzo delle sue bugia che si incastra sotto le luci del palcoscenico: e che il vestito di Giulia brillasse sotto tutti quei fari è soltanto un bene.
“Io cercavo te.”
Lo dice d'istinto, con le mani ancora strette alla ceramica bianca, e Michael ride, di una risata sguaiata. Quasi non si notano le lacrime che si addensano agli angoli dei suoi occhi.
“Don't.”
“Eh?”
“Non dire così.”
Federico lo trova, alla fine, il coraggio per voltarsi. Per guardarlo negli occhi senza scontrarsi contro mille riflessi che si confondono nello sguardo, che sono difficili da guardare con la testa che gira e il cuore che ruggisce sempre più frenetico in fondo al petto. Che è ubriaco quanto lui se ne accorge dal modo in cui si poggia al muro alle sue spalle, dal quel sorriso amaro che non tocca gli occhi. “Tu eri chiaro oggi. La finale è passata.”
“Siamo andati bene.”
“We did our job. As you wanted.”
Michael parla in inglese quando le parole non gli escono dalle labbra come vorrebbe, quando pensare a quello che dice diventa difficile e allora chiude gli occhi, reclina la testa indietro, si lascia sfuggire un sospiro, una risata, un grido che diventa un gemito soffocato. È una delle cose che Federico ha imparato per caso, che gli è rimasta impressa nel cervello assieme al colore delle lenzuola del suo appartamento, alle linee spigolose delle spalle sottili contro una federa azzurra, all'abitudine di mettere un po' di musica, anche nel bel mezzo della notte, dopo il sesso e il silenzio e le parole sussurrate contro il sudore del collo. Che spesso non capisca quello che dice dipende molto dalle circostanze: ma questa volta è facile. È tutto là, nell'aria asettica che li circonda, nelle luci al neon che fanno sembrare la sua pelle pallidissima anche se non è così.
C'è ancora la musica. Ovattata, distorta, rimbomba tra le pareti e quasi assorda. Federico la sente vibrare nel petto.
“Ti ha chiesto Giulia di chiamarmi?”
“No. Mi ha chiesto dove eri.”
Michael riapre gli occhi, e lo fissa con un intensità che fa male. Federico si schiarisce la gola, perché un silenzio così tra loro non c'è mai stato, perché da quando si sono presi la briga di conoscersi davvero anche i silenzi sono diventati parole mormorate. “Va bene così, è tutto okay” dice soltanto, e non sa più neanche lui di che cosa sta parlando. Ma gli occhi di Michael si assottigliano, e le parole che gli sfuggono dalle labbra non sembrano neanche sue. “It's fucking not.”
Si allontana dal muro lentamente, le labbra ancora tese, le mani abbandonate lungo i fianchi. Federico sente il cuore esplodergli nel petto quando si avvicina lentamente, gli occhi ancora incastrati nei suoi.
“Fermati”
Un soffio. C'è un soffio tra loro in quella stanza che puzza di piscio e disinfettante da due soldi, in quell'aria tesa incastrata tra petto e petto, tra respiro e respiro. Puzzano entrambi di alcol, di fumo, di notte insonne. Federico non riesce più a distinguere i contorni della realtà con tutti quei riflessi che li circondano, con quel calore famigliare che quasi sente premuto sulla pelle. Fa male. Fa malissimo, ed è un dolore sordo che scava nel petto, perché forse l'ha capito che cosa sta per succedere, ed è una cazzata così grande che probabilmente passeranno la vita a rimpiangerla questa notte.
Hanno troppo da perdere.
Michael non lo ascolta, perché forse è troppo ubriaco per farlo, perché la rabbia che gli annebbia gli occhi non nasconde le lacrime che ricaccia indietro ad ogni respiro. Alza le mani ad accarezzargli i fianchi, e quando Federico prova ad allontanarlo stringe la presa, lo spinge contro il lavandino con un'irruenza che non gli appartiene. I loro corpi combaciano e quasi riesce a sentire i lividi violacei che fioriscono sotto le dita dell'altro, incastrati tra le linee dei tatuaggi. Affonda i pugni nella maglietta dell'altro, lo strattona, grugnisce cercando di allontanarlo da sé, di fare qualcosa, di non mandare tutto a puttane. Ondeggiano e quasi cadono a terra, ma alla fine sono soltanto più vicini. Anche quando Federico affonda le unghie nel collo di Michael l'altro sibila e basta, e non lo lascia andare.
È surreale il momento in cui la musica si impenna, in cui trema tra le pareti e le labbra di Michael sono sulle sue. Mordono, graffiano, senza cura, senza peccato. È solo un istante, un momento, e che stavolta è davvero l'ultima volta Federico lo sente in quella musica ovattata, in quel silenzio che inghiotte e sospira, ed ha il sapore del sangue sulla lingua e del sudore sulla pelle.
Federico lo tira a sé più forte. Inspira forte dal naso, geme quando le mani di Michael scivolano lungo il suo corpo, quando cerca frizione e calore contro di lui e tutto quello a cui riesce a pensare è il silenzio, la festa, il vuoto che sente improvvisamente addensarsi all'altezza del petto. Non pensa alle conseguenze: non pensa che chiunque potrebbe entrare, che chiunque potrebbe vederli, che mandare tutto a puttane così non ha senso, perché quelle mani le vorrebbe addosso per tutta la vita. Alla fine sente e basta, Federico, come ha sempre voluto fare. Quasi non si accorge che le lacrime che gli bagnano le guance non sono le sue.
Si cercano disordinatamente. Si vogliono quando la stoffa dei vestiti tira e quasi si strappa, quando quasi lottano per il controllo e non si capisce più se i segni che si lasciano addosso siano voglia o rabbia. Sulla pelle non fanno male. È più un grattarsi via l'anima a vicenda, graffio dopo graffio, morso dopo morso.
È Michael a riscuotersi. Ad alzare gli occhi un istante verso la porta chiusa, a spingerlo verso la fila di cabine nere accanto agli orinatoi. “The cabinets,” dice soltanto, un mormorio contro le labbra. Federico annuisce, senza capire più niente.
Quando la porta di plastica si chiude a chiave con uno scatto, è un istante prima che Federico si ritrovi con la fronte premuta contro quella di Michael, le mani che armeggiano con le cinture, la pelle bollente sotto le dita. Lo guarda negli occhi quando si ritrovano pelle contro pelle, e si lascia scappare un gemito contro l'incavo della sua spalla. Succhia la pelle costellata di lividi rossastri, spinge più forte, e per un istante si chiede che cosa stia mormorando Michael contro il suo orecchio. Parole mormorate nel calore di un gemito che restano incastrate in un mezzo grido strozzato, quando alla fine l'orgasmo travolge entrambi.
Federico ci mette un istante, a riprendere fiato. Si aggrappa al corpo di Michael, si sorreggono a vicenda per un momento. Non si aspetta il modo brusco in cui l'altro lo allontana.
“Mic,” ha il respiro affannato, i pantaloni alle caviglie, e suona piuttosto ridicola la preoccupazione nella sua voce mentre guarda l'altro rivestirsi, i ricci scuri che cadono disordinati sulla fronte, le labbra quasi violacee nel pallore dei neon. Gli lancia solo uno sguardo con gli occhi arrossati, e lo scatto secco della cabina che si apre e il suono della porta che sbatte alle sue spalle Federico probabilmente se li ricorderà per tutta la vita.


Le notti di Milano sono il brivido lungo la schiena nell'aria freddissima che inghiotte senza voglia e luci gelide di mille lampioni in fila lungo uno strada di periferia. Sono il silenzio che un sorso alla volta ti prosciuga l'anima, e il sapore di sigaretta mischiato col liquore che brucia la gola alla fine è solo un pretesto in più per stringere gli occhi contro un cielo così nero da far paura. Quando la porta antincendio gli sbatte alle spalle, Federico inspira profondamente, il sudore che si asciuga in fretta sulla pelle, il sonno che preme sugli occhi, Michael che fissa il niente oltre le luci sparse, e l'aria gelida gli riempie i polmoni. Ha finito le sigarette almeno due ore fa, ma per una volta gli basta la linea sottile delle spalle dell'altro, l'ammasso disordinato di riccioli scuri che sfiorano la base del collo. Li sente ancora tra le dita.
Michael non si volta a guardarlo, perché le notti di Milano in fondo ti rubano anche il cuore, e Federico si chiede se la notte è passata davvero, se neanche dieci minuti prima erano davvero premuti l'uno contro l'altro, se i segni che si sono lasciati addosso svaniranno con l'alba che arriva, arriva sempre. Le notti di Milano sono solo tempo preso in prestito, e questo lo sa da una vita. Che quelle ore non te le restituisce nessuno, non vuole proprio accettarlo.
Lo sfiora con gli occhi così delicati da far male. Ambrati come la prima volta, stanchi come non li ha mai visti. Federico si sente un po' perso, con la testa ancora leggera, con l'impronta delle labbra di Michael che pulsa ancora contro il collo.
C'è anche la sensazione di vuoto che quella scopata gli ha lasciato addosso. Ha perso una parte di se stesso, da qualche parte in quella mezz'ora spesa ad odiare ed amare. Non ne è ancora sicuro, ma il dolore lo sente tutto incastrato in gola.
“Pensavo te ne fossi andato.”
“Anche io.”
“È tardi,” dice soltanto, parole vuote che scivolano nel mezzo sorriso che si disegna sulle sue labbra.
Le notti di Milano sono anche i due passi che li separano, gli sguardi che si lanciano con tutto quello che trema tra loro. Sono il momento in cui Federico si avvicina, e poggia i gomiti sulla ringhiera accanto a quelli di Michael, sono il calore che ormai è impresso nella pelle. Non gli importa più niente della vita che lo aspetta oltre quella notte che in bocca ha il sapore di troppi cocktail e delle labbra screpolate dell'uomo accanto a lui. Per una volta fissa il silenzio. È abbastanza.
“Non torno il prossimo anno.”
Lo sussurra con quella voce roca che si ritrova, con la stanchezza che gli impasta gli occhi ambrati fissi nel buio. Michael fissa il vuoto e non ci prova neanche, a guardarlo fisso negli occhi. Le notti di Milano però sanno essere abbastanza luminose da metterti a nudo l'anima, e lo sanno entrambi. Federico sbircia il profilo del suo volto. “Cosa?”
“Ho deciso di non rinnovare il contratto.”
“Come mai?”
Si stringe nelle spalle, un mezzo sorriso che gli curva le labbra. “Ho fatto questo per tre anni. Devo pensare alla mia musica, alle cose che ho lasciato indietro.”
“Parli di Andreas?”
“Parlo di tante cose. Non lo so nemmeno io cosa dico.”
Si lasciano scappare una mezza risata, sfogano il nervosismo con un'altra mezza verità in meno.
“Io lo odio Mic. Il sistema, l'industria, come cazzo vuoi chiamarla. Vorrei mollare tutto e fare musica senza tutte queste minchiate.”
“Se tu pensi questo, devi farlo.”
Lo dice di getto, la notte che gli rimbalza addosso. Federico scuote la testa. “Manderei tutto a puttane.”
“Di che parla ora?”
Il silenzio cade e basta. Si infrange nelle ultime parole che non riescono a scambiarsi, perché, adesso che Federico sa che questo è un addio, è difficile anche respirare. La notte inghiotte piano il sentire di un qualcosa che ha cambiato entrambi, che ha salvato, distrutto, che è rimasto incastrato nell'abbraccio di due anime che si sono trovate troppo diverse e troppo simili. È il rimpianto di una vita non vissuta che entrambi sentono sul fondo del petto, il grido che le notti di Milano ti strappano dal fondo del cuore.
All'orizzonte, si intravede il bagliore dell'alba. Federico se ne accorge subito, di quel chiarore spettrale che si specchia negli occhi di Michael, che gli scalda un po' l'anima. La mano di Michael scivola sulla sua, un'ultima volta.
Le notti di Milano muoiono in un silenzio. Quello che resta lo ritrovi quando l'alba fiorisce nel buio, e alla fine basta il sole per rimettere insieme i cocci di te stesso.
Federico chiude gli occhi, stringe la mano. Ed è un addio, ma forse la mattina che gli fiorisce addosso è solo un modo per ricominciare.

Sing us a song
a song to keep us warm.
There's such a chill
such a chill.
 


Note: 
Insomma. E' passato un po'. 
Vorrei scusarmi in mille modi per tutto il tempo che è passato, ma mi sono successe un sacco di cose in questo perido. Viaggi, soddisfazioni, delusioni, tanta ansia. Però alla fine ce l'ho fatta, e siamo qua. Penso sia la cosa più importante. 
La storia è ufficialmente finita. Questo è l'ultimo capitolo, e anche se ci sarà un epilogo io considero questa la chiusura. Quello che verrà dopo è un po' un modo per fare chiarezza su certe cose, e un modo per salutarci. Ma ne parleremo quando sarà il momento. 

La poesia all'inizio non è completa, ma penso che in molti l'avranno riconosciuta. "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi"  è forse la poesia più famosa di Pavese, e ho scelto l'ultima strofa perché non solo penso sia la parte più bella, ma anche perché mi sembrava particolarmente adatta. Così come la canzone, che è dei Radiohead (<3), e che mi ha messo in grandissima difficoltà nel momento in cui ho dovuto scegliere i versi da inserire nel testo. Il titolo completo l'ho tagliato: in realtà sarebbe "Exit Music (for a film)"
 ( https://www.youtube.com/watch?v=8051Hipbmmw ), perché in effetti è stata scritta per i titoli di coda di un film, ma aggiungere il "for a film" mi pareva superfluo. E' una canzoe meravigliosa, tragica e struggente. Non c'è moltro altro da aggiungere

Vista la mole forse sarebbe stato meglio tagliarlo in due, ma ci tengo a dirvi che questo capitolo è stato un viaggio anche per me, ed è giusto resti integro. Non fosse stato per emitea, che pù di una beta è stata un'amica, una confidente, la "vecchia zia" migliore che potesse capitarmi, questo probabilmente adesso non ci sarebbe. Continuo a ringraziarla con tutto il cuore. 
Che dire. Ci vediamo per l'epilogo. 
Un bacio, 
e alla prossima. 

 

 

 

 

  
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