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Autore: Eiko Quinn    09/06/2016    2 recensioni
E lui ride. E tu sai che è la lingua del Diavolo, del più oscuro dei demoni, quella che lecca la tua bocca, le zanne dell’Anticristo che ti lacerano le labbra. Fa così male che un fremito ti scuote: Estasi.
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Questa è un'elegia della psiche frammentata. Raccolta di one-shot. Una sorta di puzzle.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gemini Aspros, Gemini Saga, Un po' tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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II. Song of the Dispossessed | Kanon
 

Si ritrovò con una scheggia di vetro tra le mani; inizialmente si era domandato, ingenuamente, da dove provenisse, perché ci fosse un pezzo di qualcosa di rotto sul pavimento, chi l’avesse portato fino a lì e poi abbandonato. Poi, rigirandosela fra le dita con leggerezza, si era accorto di un brillio quasi sinistro che gli si rifletteva sotto agli occhi; fu in quel momento che comprese.

La ragione, spesso, arriva con una folgorazione; nel suo caso, fu una vera e propria scossa elettrica, che pervase il suo corpo per meno di un secondo, più veloce di un respiro, una contrazione che lo fece rabbrividire.

“Dev’essere colpa di questa scheggia”, si era detto. E così, fece per scagliarla a terra, e andarsene via.

Ma, invece, la sua mano si strinse, violenta, intorno a quel frammento; la carne si tagliò, iniziando a sanguinare, e il vetro iniziò a penetrare vicino ai tendini.

Non riuscì a spiegarsi il perché. Semplicemente, lo fece. Gli venne da incolpare il suo corpo, la sua mano, ma quel pensiero lo amareggiò a tal punto che storse la bocca in uno spento sorriso.

Il sangue gocciolava piano dalla ferita, e lui era in piedi, in mezzo al corridoio, con una scheggia di vetro conficcata nella mano; era una scheggia piccola, irregolare, che non sarebbe servita a fare del male seriamente proprio a nessuno. Era servita giusto a tagliare la sua mano destra, sul palmo, un minuscolo sfregio che sarebbe guarito prima ancora di poter sentire dolore.

Eppure, faceva male.

Ma non capiva cosa facesse così male.

La folgorazione, forse. Da cos’era scaturita? Che cosa aveva mai realizzato?

Fu colto, improvvisamente, da una sensazione spiacevole: il corridoio s’era fatto umido e afoso, come se all’esterno fosse scoppiato un acquazzone e avesse sollevato tutta l’afa dell’estate in un solo momento. I suoi respiri si fecero irregolari, non riusciva ad inspirare fino in fondo che subito gli si serrava la gola, e i suoi polmoni bruciavano.

In quel momento, ricordò.

Ricordò una finestra rotta, una finestra che si affacciava su di un bagno, un bagno avvolto nella penombra; le tende leggere e svolazzanti ricordavano il movimento spettrale di un fantasma intrappolato, e l’acqua scorreva nella vasca. Non si vedeva quasi nulla, anche se fuori c’era il sole. La finestra era rotta, la tenda era leggera, eppure non si vedeva nulla.

Pensava che non ci fosse nessuno. Ma poi si ricordò che l’acqua, mentre scorreva, colpiva qualcosa. E poi quel pianto, tanto sommesso che quasi non si udiva, e i suoi denti che battevano, forse per il freddo.

O forse era paura, non ricordava bene neanche quello.

Eppure, c’era dell’altro…

Ricordava di aver visto qualcosa luccicare, come poco prima, con la scheggia. Ora non guardava più dalla finestra, ma da un punto in cui si intravedeva, ogni tanto, il riverbero della luce su una superficie frammentata e lucente.

Lo specchio.

Lo specchio era rotto. Rotto, frantumato, come la finestra. L’acqua scorreva, gelida sulla sua pelle, gli appiccicava addosso i vestiti, e le lacrime, unica gemma tiepida in mezzo al freddo e alla ceramica.

Cercava di fare meno rumore possibile. Piangeva sempre in silenzio, perché nessuno lo sentisse, ma quella volta non ci era riuscito. Forse si era mosso troppo, o aveva singhiozzato, o, forse, era finalmente riuscito a trarre quel respiro profondo che gli era rimasto bloccato in fondo alla gola, e quel respiro aveva rivelato la sua posizione a quella persona che lo cercava, quello che batteva le mani sulla porta, quello che grattava sul legno finché le unghie non gli si spezzavano, che piangeva con tanta forza e tanta disperazione da spezzare il cuore, ma che, nonostante l’agonia che lamentava, faceva paura, troppa paura…

Avrebbe voluto aiutarlo. Avrebbe voluto farlo entrare. Ma aveva sempre, sempre, sempre troppa paura. Perché quella persona lui non la conosceva. Non era di suo fratello, quella voce. Non lo era mai stata. Non erano di suo fratello le mani incrostate del proprio sangue che cercavano di raggiungerlo nel buio, a tentoni, cercando di afferrarlo, mentre la sua bocca piangeva, ma i suoi occhi riflettevano solo il buio in cui abitava quell’essere… Non era mai stato lui.

Colpì con forza la prima cosa che gli capitò a tiro. Si ritrovò ad impattare contro la roccia umida con il pugno della mano sinistra, poiché la destra era paralizzata. Colpì quel muro di pietra, e lo colpì ancora, e ancora, finché non sentì che le sue ossa si sarebbero frantumate se non si fosse fermato, e fu allora che vide di nuovo la luce e il colore. Aveva sempre tenuto gli occhi aperti, ma adesso vedeva davvero.

Riuscì ad inspirare a fondo. Si ricordò che era normale che fosse umido, perché era in mezzo all’acqua. Ancora, di nuovo, in mezzo all’acqua, che ora gli sfiorava le caviglie. Doveva essere mattina presto.

Subito aprì la mano destra, guardandosi il palmo: in mezzo ad un taglio poco profondo scorse un sassolino particolarmente affilato, probabilmente un frammento della roccia che lo circondava. Era ancora imprigionato. Non era mai stato in mezzo al corridoio. Non aveva mai raccolto un pezzo di vetro, né un frammento di specchio. Era prigioniero, e l’unica cosa autentica erano i suoi incubi.

Si lasciò cadere, sedendosi nell’acqua bassa. Incubi, ricordi… cosa importava? Sarebbe presto morto annegato. O di sete, se proprio fosse riuscito a non soffocare.

Soffocare. Quanto faceva male soffocare. La parola stessa gli riempiva il petto di bruciore.

Aveva i vestiti e i capelli incollati al corpo, proprio come quella volta. Ma c’era meno buio, nonostante fosse appena l’alba, e non c’erano frammenti di vetro.

Non c’era nemmeno nessuno che batteva alla porta e che lo implorava, piangente, di farlo entrare. Non sapeva, però, se elencarlo nelle cose buone: non esistevano più molte cose buone, per lui. Forse, però, se avesse sentito di nuovo quella voce, avrebbe voluto dire che almeno una parte di lui era tornata; che almeno un frammento di suo fratello era tornato forse non a liberarlo, ma almeno a vederlo, ad offrirgli una possibilità di riscatto, una speranza.

Le sue labbra si incresparono nel più amaro dei sorrisi. “Ma non è possibile, perché la Speranza mi ha abbandonato.”

E le lacrime presero a sgorgare dai suoi occhi, riempiendo il mare.



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Ed eccoci alla seconda storia della raccolta. Adoro scrivere di Kanon, perché lo trovo meno spossante che scrivere di Saga, e mi dà sempre una gran soddisfazione. Non ho stabilito un tema preciso per questa raccolta, perché ho intenzione di scrivere di personaggi diversi, ma direi che il filo conduttore è la psiche, l'inconscio, un "What lies beneath"; non trovo che Kanon sia 'spezzato' quanto Saga, ma non lo trovo neanche completamente sano: dopotutto, quando qualcuno sta male in una famiglia, anche gli altri bene non stanno, diciamolo. Però, a differenza di Saga, voglio sempre ritrarre Kanon più lucido, più razionale, e il fatto che lui non attribuisca a 'qualcun'altro' la colpa del mancato controllo del suo corpo è il mio modo di esprimerlo.
In caso qualche lettore fosse interessato, nella mia storia Question! (un'AU moderna/urban fantasy) ho trattato entrambi in un paio di lunghi capitoli, inserendo anche un loro 'background'; se qualcuno avesse voglia di leggerli, o leggere l'intera storia, la può trovare qui, e qui inizia il focus sui gemelli.
Ringrazio chi ha recensito, chi ha letto e chi ha apprezzato fin qui. Spero che anche questa e le prossime storie saranno gradite :)

   
 
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