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Autore: IrethTulcakelume    10/06/2016    2 recensioni
Park Jimin, 21 anni, testa sempre tra le nuvole – sì, se le nuvole hanno i capelli neri e tre anni in meno di lui.
Jeon Jungkook, 18 anni, mente brillante versata per lo studio, un po’ meno per gli affari di cuore.
Min Yoongi, 22 anni, passione per il basket, ma qualche problemino con i blackout.
Kim Namjoon, 29 anni, uno studio di psicologia tutto suo che spesso ospita un paziente in via in guarigione.
Kim Seokjin, 31 anni, cattedra universitaria di economia e un incorreggibile complesso del salvatore.
Kim Taehyung, 18 anni, tante foto, incubi abituali e un paio di conti in sospeso con il passato.
Jung Hoseok, 21 anni, una sorella fortunatamente ficcanaso e vigliaccheria a profusione.
Non si sentono i suoni se non c’è silenzio.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Park Jimin, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Angolo autrice:
Sono di nuovo qui! Come promesso, sono tornata con il secondo capitolo di questa mirabolante storia. La scuola finalmente è finita, e potrò dedicarmi a scrivere di più. Per ora sono arrivata alle prime pagine del settimo capitolo (e la storia ne avrà undici, come le canzoni del cd), ma ora che sono libera potrò scrivere più spesso. Ma ciancio alle bande: vi lascio al capitolo. Potrebbero esserci delle cose strane, tipo allineate male, ma spero che mi perdonerete. :)




 
That's how superheroes learn to fly








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Aveva iniziato a piovere da qualche minuto, le gocce di pioggia si abbattevano regolari e tranquille sull’asfalto. Sembravano così spensierate, pensò Taehyung sbirciando le nuvole sopra la sua testa da sotto il cappuccio della felpa. Nessuna preoccupazione, se non quella di cadere dal cielo e posarsi ai suoi piedi in minuscole esplosioni, formando pozzanghere e cerchi concentrici all’interno di esse. Se avesse avuto dietro la sua macchina fotografica probabilmente avrebbe fatto delle foto.
Avrebbe tanto voluto essere una di quelle gocce di pioggia: nessuno l’avrebbe notato, si sarebbe confuso in mezzo a miliardi di esemplari identici a lui in tutto e per tutto; non avrebbe avuto tutti quei pensieri per la testa.
Quella notte, dopo essersi svegliato per l’incubo, non era più riuscito a riaddormentarsi: si era messo a guardare la lampada sul comodino, senza aver il coraggio di chiudere di nuovo gli occhi. Avevi paura di rifarlo, si corresse mentalmente con un’ironia che serviva solo a celare l’inquietudine che quel sogno gli procurava ogni volta.
Era sempre lo stesso: un tunnel di cemento al fondo del quale c’era una grande luce bianca, dalla quale emergeva lui. Poi sentiva la sua voce, senza capire davvero cosa dicesse, o forse semplicemente una volta sveglio se ne dimenticava – in fondo non era poi così importante – e cercava di raggiungerlo, ma non ci riusciva.
In fondo, si era sentito così quel giorno, il giorno in cui Jung Hoseok gli aveva urlato che ne aveva abbastanza di lui, delle sue stranezze. Che si sentiva soffocato dai suoi comportamenti infantili, dal suo essere costantemente lunatico. Per questo, mesi prima il suo ragazzo l’aveva lasciato. Per questo. Per le sue stranezze. Per il suo essere lunatico.
Per questo aveva passato giorni e giorni a piangere da solo, in camera sua. Per questo aveva iniziato a prendere i sonniferi per riuscire a dormire, per non pensare costantemente a quelle ultime parole che Hoseok gli aveva detto: “Adesso basta. È finita”.
Per qualche giorno aveva funzionato, ma poi aveva smesso: anche se i sonniferi lo facevano dormire – e dormire gli serviva – lo facevano sentire come in gabbia: non voleva dipendere da una pillola per superare la rottura con il suo ragazzo. Di certo, però, non aveva messo in conto l’eventualità di poter fare quel genere di incubi. E anche se se ne vergognava profondamente, un po’ gli piaceva farli: anche se lo facevano soffrire, almeno gli permettevano di ricordare il periodo in cui era stato più felice, la persona che l’aveva reso tale. Poteva sentire la sua voce.
Kim Taehyung avrebbe tanto voluto essere una goccia di pioggia: non avrebbe avuto bisogno di dormire, o di pensare, o di respirare o di vivere o di tenere gli occhi aperti o di…
Chiuse gli occhi per qualche istante e fece un paio di respiri profondi, cercando di concentrarsi: farsi venire l’iperventilazione non era assolutamente tra i suoi programmi.
Ripensò a quando, verso le sei e mezza, gli era arrivata la risposta al messaggio inviato circa tre ore prima.
 
Kookie: Scusa, stavo dormendo… comunque ho dormito abbastanza bene. Tu?
 
Naturalmente non gli aveva detto la verità. E come avrebbe potuto farlo? Non poteva certo scrivergli “Mah, sai, ho fatto un incubo sul mio ex. Ah, e non è la prima volta: è da qualche mese che faccio questo sogno, ma tutto sommato ho dormito splendidamente, grazie per l’interessamento”. L’idea era decisamente improponibile.
Riprese a camminare, portando lo sguardo davanti a sé e distogliendolo da quei grandi nuvoloni grigi. I rumori delle macchine che correvano alla sua sinistra lo sfioravano appena. Avrebbe potuto usare la sua auto e parcheggiarla nel posteggio interno dell’università, ma quella mattina aveva deciso di andarci a piedi, anche se la giacca semi-impermeabile era una ben misera protezione contro la pioggia, che continuava a scendere imperturbabile dal cielo plumbeo.
Dopo mezz’ora passata a cercare di evitare di bagnarsi troppo camminando sotto i balconi non appena gli era possibile, giunse finalmente all’edificio, e si recò a passo spedito verso l’aula di Fisica: la testa china, lo sguardo fisso sul pavimento lucido. Quando era quasi arrivato, però, sentì una mano picchiettargli gentilmente sulla spalla. Si voltò, e finalmente un timido sorriso riuscì a trovare un varco tra le sue labbra, chiuse in un serio mutismo da quella mattina.
- Non mi saluti più, Taetae? – domandò una vocetta allegra, e a quel suono il ragazzo, che aveva ancora il cappuccio della felpa calcato sulla testa, si sentì sollevato, felice, come da tempo non gli capitava se non in sua presenza.
Lo guardò ridacchiando appena dopo essersi abbassato il cappuccio. – Dai, sbrighiamoci o faremo tardi a lezione.
- E da quando ti interessa? – gli chiese l’altro insistente, un’espressione beffarda dipinta sul volto angelico. I capelli neri come l’ebano gli ricadevano in una morbida frangetta appena sopra gli occhi, sfiorando le sopracciglia scure e fini. Quel giorno indossava un maglione largo a righe rosse e nere che gli arrivava a circa metà coscia, dove si vedevano dei semplici jeans neri a ricoprirgli le gambe.
Ed era inutile nasconderlo a se stesso: trovava quel ragazzo semplicemente bellissimo, con la sua perenne allegria, la sua innocenza, i suoi sorrisi che sapevano scaldargli il cuore come pochi era riusciti a fare. Sì, forse solo un altro sorriso era riuscito a farlo stare bene come quello di Jeon Jungkook, ma in quel momento Taehyung non aveva voglia di pensarci.
- A te interessa, quindi muoviamoci.
Con quelle parole il ragazzo considerò chiuso il discorso, e andò direttamente nell’aula di Fisica, ben sapendo che Jungkook lo stava seguendo. La lezione procedette monotona, ma Tae si sforzò di prendere appunti, perché se voleva dare l’esame e passarlo con un voto accettabilmente alto doveva assolutamente prestare attenzione alle parole del professore.
Senza che se ne rendesse contro, la mattina trascorse in un batter d’occhi, e tra una spiegazione e l’altra finalmente giunse il momento di tornarsene a casa.
Tae tornò sconsolato con il pensiero all’ultima lezione di Fisica: no, così non andava per niente bene. Aveva capito sì e no la metà degli argomenti, e questo non bastava a prendere una votazione accettabile.
- Allora io torno a casa adesso, ci vediamo domani. – La voce di Jungkook lo distolse dai suoi pensieri, e non appena si voltò verso di lui, ebbe un’idea che, nella sua mente, aveva un qualcosa di geniale.
- Ehm… aspetta solo un secondo. Senti, oggi pomeriggio hai da fare? – gli chiese deciso, determinato a portare a termine il suo piano.
- No, credo di no, però devo studiare… - cominciò Jungkook, ma Tae lo interruppe immediatamente.
- Ecco, appunto. Ti volevo chiedere… dato che non ho capito davvero una mazza di Fisica, – quelle parole fecero ridacchiare il ragazzo, e Taehyung si sentì segretamente soddisfatto di essere riuscito a scatenare quella reazione in lui – ti andrebbe di venire da me per studiare? Sono davvero in alto mare, e…
- Sì, va bene, ho capito. D’accordo, devo solo andare a cercare Jimin per dirgli che torno a casa stasera. Ora dovrebbe avere una pausa… vieni con me.
Detto questo, Jungkook afferrò per un polso Taehyung e se lo trascinò dietro per tre piani di scale – perché non abbiamo usato l’ascensore? Si chiedeva intanto mentalmente il ragazzo, senza tuttavia avere il coraggio di chiederlo a quel tornado in cui si era trasformato il suo compagno di corso. E poi, non gli dispiaceva avere la mano di Jungkook attorno al proprio polso. Era piacevole.
Percorsero tutto il corridoio, e finalmente il ragazzo dai capelli corvini sembrò aver trovato la persona che stava cercando: un ragazzo poco più basso di lui, con dei capelli del suo stesso colore ma con il viso più allungato, dei lineamenti dolci e uno sguardo pieno di quella che sembrava… gratitudine?
Tae non ebbe il tempo di chiederselo, che il suo sguardo si spostò su colui che stava camminando di fianco al ragazzo. Un attimo prima stava chiacchierando amabilmente con il ragazzo alla sua sinistra ma, non appena i suoi occhi incrociarono quelli di Tae, si paralizzò dallo stupore e da un qualche altro sentimento che però, in quel momento, Tae non si sentì di decifrare.
No. No, no no no no. Si ripeteva quella parola come un mantra, credendo che forse se l’avesse pensata abbastanza forte lui sarebbe scomparso. Come intontito da ciò che i suoi occhi stavano vedendo, mise involontariamente un piede indietro, rischiando di perdere l’equilibrio.
- Tae… - Quella voce. Quanto mi è mancata… il suo suono nei miei sogni non le rende giustizia...
- No – si ritrovò a dire con voce più decisa di quanto si sarebbe aspettato, come nei suoi pensieri, cercando di negare a sé stesso gli fosse mancato quanto sentire la voce di Hoseok pronunciare il suo nome, quanto gli fosse mancato lui, cercando di allontanare da sé ogni cosa che lo riguardasse anche solo lontanamente.
Tae aveva lottato tanto per rimettere le cose al loro posto dopo che lui l’aveva lasciato, non aveva mai cercato di vederlo, non l’aveva chiamato, neanche un messaggio. Mesi. Erano passati mesi dall’ultima volta che l’aveva visto, l’aveva evitato accuratamente anche all’università, non poteva permettere che tutte le difese che aveva eretto per proteggersi dal suo ricordo crollassero in un minuto, in un singolo battito di ciglia.
Prima di rendersene conto, si era già voltato. - I-io vado, ti aspetto fuori – disse frettolosamente a Jungkook, prima di allontanarsi correndo a perdifiato verso l’uscita dell’università. Rischiò più volte di inciampare nei suoi stessi piedi e cadere addosso a qualcuno, ma in quel momento non gli interessava di ciò che gli succedeva attorno: cercava solo di togliersi dalla testa l’espressione ferita di Hoseok quando era indietreggiato alla sua vista. E quanto si sentiva stupido, sapendo gli aveva fatto male vederlo soffrire. Si sentiva come un uccello con le ali piene di catrame: si dibatteva per staccarsi dalla memoria di Hoseok, ma quella gli restava attaccata come una seconda pelle, e non c’era modo di strapparsela di dosso. Si chiese se il catrame fosse in un certo senso corrosivo, e quanto ci avrebbe messo ancora a consumarlo del tutto.
- Tae! Tae aspetta!
Quella voce lo strappò nuovamente dai suoi pensieri, giungendogli come un salvagente in mezzo al mare in burrasca. Si voltò, e vide Jungkook correre verso di lui, il viso intriso di preoccupazione, un braccio teso nella sua direzione. Si fermò non appena l’ebbe raggiunto, appoggiandosi con i palmi alle ginocchia lievemente piegate per riprendere fiato; non appena si fu rialzato, guardò il ragazzo dinanzi a lui con un espressione curiosa e allarmata allo stesso tempo.
- Perché sei scappato così?
Domanda di riserva? – Uhm, niente, ero solo…
- Kim Taehyung, non raccontarmi balle. Riguarda quel ragazzo, vero? – insistette ancora il ragazzo, che nel frattempo aveva portato le braccia al petto, incrociandole in uno strano miscuglio di rosso e nero che in quel momento fecero venire mal di testa a Tae, tanto che dovette compiere uno sforzo sovrumano per mantenersi in piedi. Lo guardò implorante: non voleva rispondere a quella domanda, Jungkook doveva capirlo; parlare di Hoseok lo faceva stare male, terribilmente male, non doveva obbligarlo…
- Va bene, se le cose stanno così… io vado. Ci vediamo domani.
Jungkook fece per allontanarsi, la delusione scritta a chiare lettere sul viso da bambino. Tae doveva pensare in fretta: non poteva permettere che se ne andasse, aveva bisogno di lui per andare avanti, per dimenticare Hoseok. Che fare? Dirgli la verità o inventare una scusa? La prima opzione gli sembrava impraticabile, ma in quel momento non gli veniva in mente nessuna giustificazione credibile…
- Era il mio ex.
Prima che potesse tapparsi la bocca, quelle parole uscirono dalle sue labbra come dette da qualcun altro. E se prima gli era sembrato quasi ragionevole dirgli la verità, ora avrebbe solo voluto rimangiarsi ogni sillaba di quella frase. Tuttavia, la reazione di Jungkook gli fece passare tutta la vergogna, sostituendola con puro stupore. Si rigirò di scatto verso di lui, e nei suoi occhi Tae lesse un’emozione che mai si sarebbe aspettato di trovare: gelosia.
- Ah – rispose infatti freddamente il ragazzo poco prima di riprendere il discorso di poco prima. – Forse è meglio se oggi pomeriggio studiamo ognuno per conto proprio. Ora che ci penso, ho un impegno con Jimin, e…
- Aspetta… questo, questo non cambia nulla – rispose fulmineo Taehyung, interrompendo nuovamente Jungkook. Quello, in risposta, lo guardò sollevando un sopracciglio, un’espressione stanca e annoiata a fargli incurvare lievemente gli angoli della bocca.
- ‘Nulla’ cosa? Cosa dovrebbe cambiare?
A quelle parole pronunciate in tono quasi tremolante, Tae non seppe più trattenersi. Non sapeva se fosse stata la domanda in sé a farlo scattare, o quella traccia di gelosia che continuava a campeggiare nelle sue iridi color pece, o la consapevolezza che senza Jungkook lui non sarebbe mai riuscito a smettere di pensare a Hoseok.
Disse solo – Questo – e si slanciò in avanti, catturando le sue labbra in un bacio deciso, e al contempo incerto. Un bacio che aveva paura di essere rifiutato, un bacio che aveva il sapore di tutte le insicurezze che Taehyung si portava cucite addosso da mesi. Jungkook inizialmente spalancò le palpebre per lo stupore, lo sguardo fisso sugli occhi chiusi con forza del ragazzo. Dopo pochi istanti, però, si rilassò, e fece scivolare le dita tra i corti capelli tinti di un insolito lilla chiaro di Taehyung. Rispose al bacio con trasporto, cominciando a picchiettare dolcemente con la lingua sulle sue labbra, come a chiedere il permesso di approfondire quel contatto tanto atteso. L’altro non se lo fece ripetere, e una volta che ebbe piazzato le mani sui fianchi stretti e asciutti di Jungkook, dischiuse le labbra, permettendo alle loro lingue di cercarsi, esplorarsi come due bambini che giochino insieme per la prima volta. Quel loro bacio era esattamente così: innocente, e allo stesso tempo passionale.
Taehyung pensò che forse avrebbe potuto vivere per sempre in quel bacio: dimentico di altre labbra che l’avevano fatto sentire a casa. Ora che ci pensava, i baci con Hoseok erano sempre stati diversi da quello con Jungkook: se quelli del primo lo riscaldavano da dentro, come un focolare che arde tranquillo, senza fretta di bruciare la legna che gli dà vita, quello che si stava scambiando con il secondo sembrava un volo in mezzo alle nuvole, che lo faceva salire, salire, salire, lo faceva andare vicino al sole, fino quasi a sfiorarne i raggi e diventare parte di essi.
Tae sperò che, a differenza di Icaro, le sue ali non fossero tenute insieme da fragile cera. In quel momento, però, decise di scacciare ogni pensiero di quel genere: avrebbe rischiato, come sempre, di rimanere scottato. Forse Jungkook avrebbe davvero saputo insegnargli a volare.
Ma naturalmente, poiché continuava a tenere le palpebre abbassate per godersi maggiormente il contatto con il ragazzo che gli stava accarezzando dolcemente i capelli, non poté vedere la sofferenza scritta a chiare lettere in un paio di sottili occhi scuri, i lineamenti di un viso dolce sconvolti dall’incredulità e dal dolore.
Sentì solo, come in lontananza, ovattato come in un sogno appena concluso, un sussurro rotto da quelle che potevano sembrare lacrime, anche se non avrebbe potuto giurarlo.
- Y-yoon… tra mezz’ora, so-solito posto…
Poi solo un rumore di passi concitati, del traffico che imperversava per le strade di Seoul, la sensazione delle dita sottili di Jungkook tra i suoi capelli.
 
***


Hoseok era rimasto immobile in mezzo al corridoio. Gli sembrava che le persone che gli camminavano attorno non fossero che ombre di una vita passata, vissuta da qualcun altro. Non faceva che ritornare con la mente a ciò che era successo poco prima, il ricordo come stampato a fuoco nella memoria in netto contrasto con l’annebbiamento che l’aveva colto quando era rimasto solo.
 
Stava guardando Taehyung correre via – correre via da lui – con occhi attoniti, senza avere il coraggio di dire o fare niente. Sentiva come una grande voragine aperta nel suo petto, che non si era mai davvero chiusa in quei mesi trascorsi senza di lui. Aveva sentito a mala pena le parole dei due ragazzi di fianco a lui, troppo occupato a darsi dell’idiota per ascoltarli; solo l’ultima frase pronunciata dal più piccolo lo riscosse.
- Allora ci vediamo stasera, Jiminnie – disse, avvicinandosi a lui per un frettoloso bacio sulla guancia. A quel punto, Hoseok decise che ormai era arrivato il momento di rischiare. Non era per niente sicuro che la sua idea avrebbe funzionato, ma d’altra parte, cos’aveva da perdere?
- Ehi, aspetta!
Il ragazzo si girò verso di lui con espressione dubbiosa. – Cosa c’è?
- Ehm… senti, devo chiederti un favore.
Quello – si chiamava Jungkook, se non sbagliava – lo guardò come a dirgli di proseguire, la voglia di andarsene da lì perfettamente intuibile nel nervosismo della sua postura. Hoseok però non si fece scoraggiare.
- Stai andando da V adesso, no? Ecco… io devo assolutamente parlargli: devi dirgli di aspettarmi questa sera nel posto.
Jungkook aveva un’espressione confusa, le sopracciglia aggrottate. – V? Posto? Di cosa stai parlando?
- Sì, V, Tae… è una storia lunga. Te digli semplicemente ‘il posto’, lui capirà.

L’altro incrociò le braccia al petto, mantenendo invariata la posa che aveva assunto pochi istanti prima. Hoseok però non poteva mollare: era troppo importante per lui, non doveva permettere che Jungkook si rifiutasse di fare quello che gli aveva chiesto.
- Non fare domande, ti prego. Basta che glielo dici. È importante, davvero. – Quando aveva detto quelle parole, si era avvicinato al ragazzo, afferrandogli un braccio con la mano sinistra. Percepì lo sguardo di Jimin perforargli la nuca, un paio di metri più indietro, ma in quel momento non gli interessava. – Mi prometti che lo farai?
Jungkook era lievemente stupito dall’irruenza di Hoseok, ma dopo alcuni secondi di silenzio che pesarono come piombo nel suo stomaco annuì con il capo, aggiungendo un – Sì, lo prometto – prima di dirigersi correndo nella direzione in cui era sparito Taehyung.

Troppo stordito da quello che era appena successo, si accorse a stento che Jimin si era allontanato, lasciandolo solo.
Meglio così. Era quello che si meritava.
 
Non seppe dire per quanto restò in quella posizione: secondi, minuti, ore forse. Il tempo gli sembrava come cristallizzato, la voglia di tornare indietro e cancellare i propri errori passati lo soffocava più che mai.
Bugie, bugie, bugie. Solo quello aveva raccontato a Taehyung: un sacco di bugie. E si pentiva di ogni singola menzogna che era uscita dalla sua bocca quel giorno, eppure... Eppure forse era meglio così.
Dopo quello che gli aveva fatto, Hoseok era convinto di non meritare più neanche un briciolo della sua comprensione, della sua fiducia, del suo amore. E allora perché voleva parlargli? Perché rischiare di incorrere in un rifiuto, o peggio ancora nel suo perdono, se sapeva di non avere speranze, anzi, di non meritarne?
Forse voleva solo dirgli finalmente tutta la verità, confessargli di non aver mai pensato nessuna delle parole che aveva pronunciato quando lo aveva lasciato. Sperava solo di non aver commesso un danno irreparabile: aveva visto il dolore nei suoi occhi, nella sua posa irrigidita dall’incredulità, nell’espressione sconvolta, quasi terrorizzata del suo viso che ricordava sempre allegro e sorridente.
Che cosa ho fatto?, si chiedeva quasi angosciosamente, la paura della risposta a martellare nelle sue vene insieme al sangue. V, il suo V, era forte, no? Ma chi poteva assicurargli che nel frattempo non fosse cambiato? E se le sue azioni avessero mutato per sempre Taehyung?
No, si rispose da solo, lui è più forte di quello che credi. Ce la farà. E se dovesse farcela senza di te, non avrà importanza. Basta che stia bene.
Basta che stia bene.
Che stia bene.
Stia bene.
Bene.
Sentì l’eco di quel pensiero sussurrato a se stesso spegnersi debolmente nei meandri della sua mente colma di domande, dubbi, inutili rimorsi. Poi sentì le ginocchia cedere. Sporse i palmi in avanti per evitare di sbattere la testa contro il pavimento, ma all’ultimo momento la forza lo abbandonò totalmente. Gli occhi gli si chiusero mentre perdeva i sensi in mezzo al corridoio.
 
***


Yoongi sapeva che era una cosa stupida, in fondo, ma in quel momento gli sembrava di vitale importanza.
Gli appunti di economia giacevano incustoditi sul suo banco, ne era certo, e lui doveva assolutamente recuperarli: voleva veramente che le parole che aveva detto a Namjoon diventassero realtà, voleva smettere di deluderlo. Gli voleva dimostrare di essere cambiato, che stava migliorando piano piano, e quegli appunti erano una parte fondamentale nella sua riabilitazione.
Quel pomeriggio, verso le sei, aveva fissato una seduta con lui. Namjoon aveva detto che sarebbe stata ‘speciale’, la luce che aveva visto baluginare nei suoi occhi era testimone dell’impazienza dello psicologo.
Di qualunque cosa si trattasse, Yoongi avrebbe reso Namjoon orgoglioso di sé.
Per questo stava correndo a perdifiato per il corridoio, fendendo la folla di studenti a forza di gomitate, quando sentì lo squillo di un cellulare.
Pensandoci meglio, il suo cellulare.
Lo sfilò dalla tasca dei jeans, rispondendo senza neanche leggere il nome scritto sul display.
- Y-yoon… tra mezz’ora, so-solito posto…
Riconobbe immediatamente la voce di Jimin, anche se era rotta dalle lacrime. Prima che potesse dire qualsiasi cosa, però, il ragazzo terminò la chiamata, spiazzando Yoongi. Cosa poteva essere successo per ridurre in quello stato Jimin?
Be’, una cosa è assolutamente certa, pensò ironicamente, qua c’è lo zampino di quell’idiota di Jungkook.
Non ebbe neanche il tempo di completare quel pensiero, che sentì un tonfo a un paio di metri di distanza da lui. Dev’essere in atto un complotto, si disse. Prima la chiamata di Jimin, poi un sacco di patate che crollava sul pavimento… Yoongi si girò nella direzione dalla quale aveva sentito provenire il tonfo, e quando vide cosa l’aveva generato, un pensiero lo colpì prima di tutti gli altri: ma quello steso per terra non era il logorroico compagno di banco di Jimin?
Non sapeva perché, ma qualcosa gli diceva che doveva aiutarlo. Però, se avesse dovuto perdere tempo con quel sacco di patate ormai-non-più-ambulante, avrebbe impiegato ben più mezz’ora a raggiungere Jimin al seminterrato-campo-da-basket.
Oh, fanculo gli appunti. Se Nam capisce quando sparo cazzate, capirà anche quando dico la verità.
E Jimin?
Yoongi scacciò quel pensiero con noncuranza: aveva imparato che quando aveva un impulso, un’‘intuizione’, come gli piaceva chiamare quella strana e improvvisa voglia di agire, di fare cose anche del tutto insensate ma che nella sua testa avevano la loro logica perfetta, doveva seguirla. Combatterla era una fatica inutile, e l’unico risultato che otteneva erano i suoi odiosi blackout. Yoongi, però, decise che non era il caso di aumentare le probabilità di un blocco: era ben più facile e proficuo aiutare il ragazzo steso per terra in mezzo al corridoio.
Si diresse a passo deciso verso di lui e si accovacciò, voltandolo in modo che il suo viso fosse rivolto verso il soffitto. Gli scosse una spalla, ma quello non diede segni di ripresa; era sicuro di aver fatto un paio di lezioni di primo soccorso alle scuole superiori, che comprendeva certamente una parte su ‘come aiutare qualcuno che si è appena accasciato per terra’, ma in quel momento non gli veniva assolutamente in mente come si facesse.
Cercava invece di ricordare il suo nome: era certo che Jimin glielo avesse detto almeno una volta, di questo era certo, ma come per i metodi per risvegliare qualcuno da una perdita dei sensi, non riusciva ad afferrare quel ricordo.
Per Yoongi due sole cose contavano in quel momento: aiutare il ragazzo steso per terra e raggiungere il seminterrato nel più breve tempo possibile. Fu il tempo di un attimo quindi, per lui, decidere di caricarsi il corpo dello svenuto in spalla e trascinarselo dietro in giro per Seoul fino al luogo in cui Jimin lo stava aspettando.
Naturalmente sperando di non avere un blackout sulla strada verso il seminterrato.
 
***


Cinquantaquattro minuti.
Erano passati cinquantaquattro minuti da quando Jimin aveva telefonato a Yoongi, e del ragazzo non si vedeva ancora neanche l’ombra. Cinquantaquattro minuti da quando aveva visto inavvertitamente quella scena che l’aveva scosso a tal punto da ridurlo nello stato pietoso in cui versava in quel momento.
Jimin si faceva pena da solo: era accovacciato contro una parete scrostata del seminterrato, le gambe raccolte al petto gli erano lentamente scivolate dalla presa delle braccia. Erano ricadute in maniera scomposta sul pavimento grigio, la destra lievemente più sollevata rispetto alla sinistra. La testa era ciondoloni su una spalla, come appesantita dalla sofferenza che avevano scatenato in lui le immagini di poco prima, ancora stampate a fuoco nella sua mente.
Jungkook ha… ha baciato un altro.
Il solo pensare quella frase gli provocava un dolore indicibile, che partiva dal petto e si irradiava nel resto del corpo, come un nero veleno che veniva pompato insieme al sangue da quel suo cuore tanto debole, tanto frammentato, calpestato. Anche se sapeva che era un atto di puro masochismo, non faceva che riprodurre ancora e ancora nella sua mente la scena di cui era stato spettatore: le mani di Jungkook infilate tra i capelli di quel ragazzo, un corpo estraneo premuto su quello puro e innocente del suo Kookie.
Mani che lo aveva accarezzato quando era giù di morale, mani che si posavano sul suo braccio ogni volta che Jungkook voleva dirgli qualcosa.
Corpo che aveva abbracciato nei momenti di maggiore sconforto, quando faceva freddo e il plaid non bastava a riscaldarlo a sufficienza, quando era felice o orgoglioso di lui.
Tuo? Davvero? Ma chi vuoi prendere in giro?
Cinquantacinque minuti.
Jimin socchiuse lievemente le palpebre. Yoongi non arrivava: forse aveva avuto un contrattempo, forse era impegnato o stava facendo una delle sue sedute con Namjoon. Non è stata una grande idea buttare giù prima che potesse risponderti, eh?
Rivisitò per l’ennesima volta le immagini risalenti a poco meno di un’ora prima. Vedere Jungkook così vicino a quello sconosciuto, baciarlo, era stato… Jimin non sapeva bene come definirlo: devastante? Scioccante? Terribile? Un pugno nello stomaco avrebbe fatto decisamente meno male, e di sicuro gli avrebbe provocato meno nausea di quella che provava in quel momento.
Si portò una mano alla faccia, passandosela davanti agli occhi per poi farsela ricadere in grembo con stanchezza. Quanto avrebbe dovuto aspettare ancora prima che Yoongi arrivasse? Ma in fondo, sarebbe cambiato qualcosa?
Forse, forse aveva solo bisogno di una presenza amica in quella situazione che lo stava schiacciando. Jimin sapeva che sarebbe bastato poco: una scintilla di speranza, meno di una flebile fiammella, e lui sarebbe ripartito in quarta per riprendersi il suo ragazzino. Ma se l’amico non fosse arrivato presto a riaccendere quella fiamma… Jimin non voleva pensare a cosa sarebbe successo.
Cinquantasei minuti.
Un rumore tintinnante di chiavi risvegliò Jimin dal suo cupo torpore. Prima che potesse fare ipotesi su chi fosse – non che ci fosse molto da ipotizzare: lui e Yoongi erano gli unici che ancora usavano quel palazzo mezzo diroccato – il ragazzo semi disteso per terra vide la figura dell’amico spuntare dalla porta del seminterrato. Aveva il fiatone, come se avesse corso per arrivare fin lì o come se avesse portato un grosso peso per chilometri. Fu in quel momento che si accorse che il rosso non era solo: un paio di braccia a lui note erano attorno al suo collo, la faccia schiacciata grottescamente su una spalla del ragazzo, gli occhi chiusi. Jimin si chiese se stesse dormendo, ma gli sembrava improbabile che Hoseok – l’aveva riconosciuto solo grazie al suo viso che sbucava da dietro la schiena di Yoongi – stesse schiacciando un pisolino addosso al suo migliore amico.
I suoi occhi ancora lucidi di lacrime incrociarono quelli del ragazzo dai capelli rossi, che esprimevano urgenza, paura, e fatica. Tanta, tanta fatica.
- Ji… Jimin… do-dovevo aiutarlo, ma… pesa…
Pronunciando l’ultima parola, Yoongi depose senza troppa delicatezza Hoseok sul pavimento del seminterrato, facendogli poggiare la testa contro una parete. A causa dello scossone a cui il ragazzo fu sottoposto per colpa della scarsa cura usata da Yoongi, il retro della sua nuca rimbalzò un paio di volte, prima di ricadere con mala grazia sulla sua spalla destra.
Yoongi fece un sospiro di sollievo, accasciandosi di fianco a Jimin prima di chiedere in modo diretto: - Allora, cos’ha combinato questa volta?
Entrambi sapevano perfettamente a chi si stava riferendo, ma il ragazzo dai capelli corvini non aveva più tanta voglia di parlare di quello che aveva visto. Sapeva che avrebbe sofferto di più, ma… se voleva un aiuto, doveva lasciarsi aiutare, e l’unico in grado di farlo era Yoongi. Prima di aprire bocca, in ogni caso, voltò il capo dalla parte opposta dell’amico, in modo che non vedesse le lacrime che sicuramente sarebbero salite a inumidirgli gli occhi sottili.
- Era venuto a cercarmi per dirmi che andava a studiare da… da un amico, - cominciò, sentendo già un lieve rossore inondargli le guance: gli succedeva sempre quando era in procinto di piangere – solo che poi il suo amico è corso via… c’era anche lui. – Dicendolo, indicò con un cenno del capo Hoseok, che giaceva ancora svenuto poco distante da loro. Forse avrebbero dovuto trovare il modo di risvegliarlo, prima o poi. In quel momento, però, Jimin aveva altro a cui pensare. – Allora Kookie l’ha rincorso, e io gli sono andato dietro per capirci qualcosa in più, ma… ma quando sono arrivato… - Jimin dovette fermarsi un attimo: deglutì pesantemente, facendo andare su e giù il pomo d’Adamo, e fece qualche respiro profondo. Dopo un paio di secondi, percepì la mano fredda e pallida di Yoongi sfiorargli un braccio con delicatezza; Jimin sapeva che l’altro non era particolarmente a suo agio quando si trattava di contatto fisico, e gli fu grato per quelle timide e confortanti carezze, perché sapeva che gli erano costate care.
- Quando sono arrivato, Jungkook e… e il suo amico si… si stavano… - Jimin serrò gli occhi con forza, cercando di concentrarsi solo sul movimento lento e costante della mano di Yoongi per calmarsi e andare avanti. - Ba… baciando.
L’ultima parola fu meno di un sussurro, ma Yoongi era abbastanza vicino da sentirlo, e non appena vide le prime lacrime silenziose fare capolino sulle guance paffute di Jimin, il ragazzo fece un qualcosa che lasciò l’amico sbalordito.
Le sue braccia scivolarono lente attorno alle spalle di Jimin, fino a circondarle in quello che si poteva definire un abbraccio a tutti gli effetti. E fin qui, nulla di strano: a parte il fatto che Yoongi non lo aveva mai abbracciato per consolarlo. Avevano giocato a basket per ore, gli aveva urlato contro, l’aveva sbeffeggiato, ma mai, mai, lo aveva abbracciato.
E l’unico pensiero che passò per la mente di Jimin fu: Certo che allora devo essere proprio messo male.
Ciò che disse, però, non aveva bisogno di essere pensato: era una domanda che vagava nella sua testa da un’ora, ormai. Non lo colpiva a raffica come le immagini del ragazzo di cui era innamorato avvinghiato a un altro, restava lì, immobile e silenziosa, senza farsi notare, eppure facendo pesare la sua presenza invisibile come un’oscura zavorra.
- Yoon, perché sono così debole? Perché fa tutto così male?
Il ragazzo dai capelli rossi continuò a guardare dinanzi a sé, accarezzando di tanto in tanto l’amico mentre gli rispondeva. – Tu non sei debole: se fosse così, ti saresti già arreso da tempo. Sei molto più forte di quello che credi, e tu combatterai per quello stupido marmocchio, io lo so. – Quelle parole dette con un affetto fraterno che quasi stonavano in bocca a Yoongi riscaldarono Jimin da dentro, e fu lì che la sentì: la fiammella che solo il suo amico avrebbe saputo riaccendere che riprendeva vita, bruciando lentamente.
- E poi, ricorda la mia fantastica idea – aggiunse infine, un attimo prima che un lamento lo interrompesse. I due si voltarono contemporaneamente verso la fonte del rumore, che altri non era che Hoseok: probabilmente stava riprendendo conoscenza.
I due ragazzi abbracciati guardarono preoccupati il ragazzo alla loro sinistra, che stava lentamente sollevando le palpebre, producendo con le ciglia delle ombre bizzarre sulle proprie guance. Fece un mugolio di fastidio e scosse la testa a destra e a sinistra, poi riaprì definitivamente gli occhi. Prima di qualsiasi altra emozione, Jimin e Yoongi vi lessero confusione e paura, ma prima che potessero dire qualunque cosa Hoseok si ritirò contro la parete, chiedendo con voce acuta e spaurita: - Ehi, ma… ma voi chi siete? Dove sono? Come sono arrivato qui?
Jimin fece un sorriso gentile, e dopo essersi liberato dalla presa fraterna dell’amico si avvicinò all’altro ragazzo. – Hoseok, sono Jimin, il tuo compagno di banco. Non devi preoccuparti, sei in un luogo sicuro…
- Sicuro? Cosa vuol dire che sono in un luogo sicuro? Cos’è questo posto? – continuò insistente il ragazzo, un’espressione ancora colma di confusione e diffidenza dipinta in viso, le mani come ancorate al pavimento spostate dietro di sé.
- Ehm… questo è una specie di campo da basket, e tu sei qui perché… - Jimin fece una pausa di riflessione, poi si voltò incuriosito verso Yoongi, che nel frattempo si era alzato. – Perché lui è qui?
Il ragazzo dai capelli rossi lo guardò con occhi inespressivi, incrociando le braccia la petto e stringendosi nella giacca a vento blu scuro. – Se non l’avessi fatto avrei rischiato un blackout.
- Blackout…? Fatto cosa? Cos’è successo? – fece ancora Hoseok con la sua voce stridula, ma tutta la voglia di fare domande scemò non appena vide l’occhiata raggelante che Yoongi gli stava rivolgendo con gli occhi attenti e inquieti.
- Uno: non sono affari tuoi. Due: tu sei svenuto in mezzo a uno dei corridoi dell’università, per una fortuita coincidenza io ero lì e ti ho raccolto prima che qualcuno ti calpestasse accidentalmente, quindi ti ho trascinato per mezza Seoul fino a qui. – Pronunciando l’ultima parola, il ragazzo lanciò una lunga occhiata d’insieme all’ambiente all’interno del quale si trovavano, poi tornò a fissare con sguardo impassibile Hoseok. – Soddisfatto della spiegazione?
Hoseok abbassò lo sguardo sul pavimento, e tutto d’un tratto s’irrigidì, come se qualcosa nelle parole di Yoongi avesse azionato un qualche meccanismo che gli aveva fatto tornare immediatamente la memoria. Rimase per qualche istante in quella posizione, gli occhi di Jimin – che aveva seguito la scena con apprensione – puntati su di lui, mentre quelli di Yoongi vagavano su per il soffitto senza una meta precisa.
- Dov’è V? – chiese poi con voce tremula Hoseok, spiazzando i due ragazzi dinanzi a lui. Il rosso sollevò un sopracciglio, perplesso, e lanciò uno sguardo dubbioso a Jimin. Quello, però, ricordando la conversazione di poco più di un’ora prima, si rabbuiò, producendosi in un sussurro diretto a Yoongi. – L’amico.
Hoseok lanciò nuovamente loro un’occhiata perplessa, ma il suo sguardo venne immediatamente catturato da un altro particolare: Yoongi, che si era posizionato davanti a loro con i palmi premuti saldamente sui fianchi, li guardava con un misto di sconsolatezza e ilarità.
- Cioè, ricapitolando. Te corri dietro a quel cretino di Jungkook, – fece guardando severamente Jimin, che abbassò gli occhi sulle ginocchia come un bambino che venga sgridato per una marachella – mentre tu, - disse spostando la sua attenzione su Hoseok – muori dietro all’altro tipo, V. – Yoongi fece una lunga pausa, sospirando mentre scuoteva la testa. – Ma vi rendete conto in che casino vi siete cacciati?
A quella domanda, nessuno dei due ragazzi seduti contro la parete aveva una risposta soddisfacente.
Mi servirà un aiuto per realizzare la mia idea. Un aiuto molto grosso.
Ma Yoongi sapeva già a chi rivolgersi.







Angolo autrice (parte 2):
Allora, che ne pensate di questo secondo capitolo? Questi vkook vi convincono? Oppure no? E quale sarà questa misteriosa idea di Yoongi? So che alcuni volevano l'incontro tra i Namjin e Yoongi già in questo capitolo, ma... dovrete aspettare il prossimo, mi dispiace.
Colgo l'occasione per ringraziare tantissimo tutti quelli che seguono, preferiscono e recensiscono: vi amo tutti, nessuno escluso! Siete già tanti, e sono davvero felice che questa storia vi piaccia tanto. Come al solito, se lasciate una recensione mi fa molto molto piacere, e... niente, ci rivediamo tra una ventina di giorni con il terzo capitolo!
Ireth
  
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