Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Naco    14/04/2009    1 recensioni
Un incontro, assolutamente casuale. E la ruota del destino comincia inesorabilmente a girare.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Mara e i suoi amici'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

XIII

"Ti prego, per un giorno trovami irresistibile!"
(Il matrimonio del mio migliore amico)


Quando entrammo nella sua stanza, la signora Lucia era seduta a letto, le guance rosse e paffute come gliele avevo sempre viste. Anche se avevo saputo già dalla sera precedente che non c’era nulla da temere, solo in quel momento riuscii veramente a tirare un sospiro di sollievo.
“Mara, cara!” quando mi vide, un sorriso radioso le illuminò il volto. “Buongiorno, signora.”
“Buongiorno, come sta? Suo marito mi ha detto che non è nulla di grave.”
“Quell’uomo” indicò un punto dietro di noi “si preoccupa sempre troppo.”
“Quest’uomo ti ha visto svenire davanti ai propri occhi. Hai idea di che colpo mi sono preso?” rispose il signor Marcello, appena apparso alle nostre spalle.
Mosse la mano, come per dire che non aveva importanza. “Sicuramente ti avrà spaventata, povera cara. Siete state gentilissime a passare, però, come vedete, sto benissimo. Il medico mi ha detto che lunedì mi dimetteranno.”
“Oh, bene!”
“Mara…” mi avvicinai a lei e prese le mie mani tra le sue “mio marito mi ha raccontato che sei rimasta qui tutta la notte. Non dovevi, davvero.”
“Non lo dica neanche per scherzo. Sono io che mi devo scusare con lei e suo marito: in questi giorni vi ho trascurati e ho pensato solo a me stessa. Se solo fossi stata più presente, forse…”
Lei rise: “Oh, ma i giovani non devono stare a perder tempo con noi vecchi!”
“Ma che dice!”
La signora sogghignò e mi fece cenno di avvicinarmi ancora di più. “Mio marito mi ha detto che eri con un ragazzo” aggiunse a bassa voce per non farsi sentire da nessun altro; mia madre, per educazione, si allontanò di qualche passo.
Annuii, incapace di parlare.
“Quando lo rivedi, potresti ringraziarlo da parte mia?”
Feci cenno di sì con la testa, ancora una volta. Se l’avessi rivisto. E non sarebbe successo, questa era la verità. Mi allontanai, in modo che non potesse scorgere il mio turbamento.
“Cara, hai bisogno di qualcosa?” chiese il signor Marcello.
“Un po’ d’acqua, se non ti dispiace.”
“Vado a prenderla io!” mi intromisi e, prima che potessero obiettare, mi dileguai. Giusto in tempo: non ero neanche fuori, che già le lacrime avevano iniziato pericolosamente ad offuscarmi la vista. No, non dovevo piangere. No, no…
“Oddio, Mara! Stai bene?”
La voce di Ilaria e le braccia che mi cinsero prima che perdessi l’equilibrio e cadessi mi raggiunsero contemporaneamente.
Alzai la testa e vidi i miei amici fissarmi preoccupati.
“Enrico, Ila. Come mai siete qui?”
“Sai, ci avevano detto che l’ospedale di qui era molto carino e allora… cretina, per venire a trovare la signora Lucia, mi pare ovvio! Mi hai detto proprio tu che era stata ricoverata!”
“Ah, giusto.”
“Sei sicura di star bene?” solo in quel momento mi ricordai delle braccia che mi avevano sorretta; ne cercai il proprietario e non potei trattenere un’esclamazione di gioia.
“Luca!” Lo abbracciai: “Sono contenta di vederti.”
“Anche io…” ricambiò il mio gesto, protettivo.
“Bene, mentre voi due pomiciate, io ed Enrico andiamo a vedere come sta la signora.” Scherzò e, senza tanti complimenti, mi diede le spalle ed entrò nella stanza.
“Vuoi venire con me, Luca? Sto andando a prendere qualcosa da bere.”
“Certo. Non mi fido a lasciarti sola, hai una faccia che…”
D’accordo, ma ti accompagno. Non mi fido a lasciarti sola in questo stato.” Ignorai le voci nel mio cervello, scotendo la testa per scacciarle.
“C’è tempo per parlare di me. Piuttosto, dimmi di te. Come va?”
Si toccò la nuca, imbarazzato, scoppiando a ridere. “Donne, tutte uguali!”
“Se non vuoi parlarmene, non c’è problema.”
“No, non è questo. E’ che da quando ci siamo incontrati, Ilaria mi guarda come se volesse saltarmi al collo, pur di sapere tutto.”
Ci avrei scommesso, pensai.
“Quindi è tutto ok?” chiesi, fermandomi davanti al distributore. Feci finta di non sapere chi era stato lì, per prendermi qualcosa da bere, proprio poche ore prima, e mi concentrai su Luca.
“Beh, sì. Non me lo sarei mai aspettato, davvero. Ieri sera mi ha chiamato sul cellulare da un numero che non conoscevo e mi ha intimato di spicciarmi a scendere che stava letteralmente morendo di freddo.”
“Ma… ieri sera non è che facesse caldo, ma neanche così freddo da lamentarsene in quel modo…”
“E’ quello che ho pensato anche io, infatti mi è venuta subito in mente l’idea che mi stesse prendendo in giro. Comunque, ero curioso, così sono sceso e me lo sono ritrovato davanti in pantaloncini e maglietta.”
“Oh mio…”
I suoi occhi brillarono al ricordo: “’Beh, che ti guardi? Non avevi detto che volevi imparare a giocare a calcio? Su, va’ a cambiarti, e spicciati!’ mi disse.”
Scoppiai a ridere; qualcuno si voltò nella nostra direzione, ma lo ignorammo. Ricordavo anche io quel giorno: c’era una partita dei mondiali, non ricordo neanche più contro chi stessimo giocando, visto che a me il calcio non è mai interessato, e utilizzavamo quelle occasioni solo come una scusa per stare insieme. Enrico stava commentando un’azione non molto brillante della nostra nazionale con Ilaria, e Luca si era intromesso, dicendo che non c’era bisogno di agitarsi tanto, in fondo, per una partita neanche troppo importante.
“Tu non capisci niente di calcio, Luca.”
“Infatti non mi interessa, il calcio.”
Enrico l’aveva guardato stranito. “Vuoi forse dirmi che da bambino non hai mai giocato a pallone con i tuoi amichetti?”
Alla risposta negativa del nostro amico, Enrico aveva alzato su il mento con aria baldanzosa. “Beh, allora capisco. Vuol dire che un giorno ti insegnerò io a giocare a calcio.” Gli aveva promesso.
“Non è possibile! Quanti anni sono passati da quel giorno? E se lo ricorda ancora?”
“A quanto pare…”
“Ti ha insegnato davvero a giocare?”
“Macché, fa più schifo di me! Infatti abbiamo smesso dopo dieci minuti: due bambini ci hanno detto senza mezzi termini che facevamo pena e che avremmo fatto miglior figura a lasciare loro il campo. Visto che stava morendo di freddo, l’ho fatto salire e gli ho prestato qualcosa di mio. E ovviamente la prima cosa che ha notato salendo in camera mia è stata: ‘Devi ancora buttarlo questo computer dell’archeozoico?’”
“Che cretino.” Commentai affettuosamente.
“Già.”
“Ma quindi siete tornati amici come prima, no?”
“Sì… credo. Ancora mi vergogno, se penso che sa cosa provo per lui, ma sono contento che abbia ripreso a trattarmi come al solito.”
“Anche io.”
Tornammo indietro e per un po’ nessuno parlò.
“Mara,” mi fermò prima che rientrassimo nella camera della signora Lucia; dalla nostra posizione, udivamo distintamente le voci dei nostri amici nella stanza “davvero non mi odiate per non avervene mai apertamente parlato?”
Gli diedi un pizzicotto sul braccio.
“Ahia! Mi fai male! Ma che fai?”
“Punisco il bambino cattivo che dice cose stupide.”
Mi sorrise e insieme raggiungemmo gli altri.

“No, aspetta. Ricapitola bene dall’inizio, che non ho capito niente.”
Era la terza volta che Enrico mi diceva la stessa frase, ed era la terza volta che io gli ripetevo il racconto. Eravamo a casa mia, su quello stesso divano che, la sera prima, aveva ospitato me e Hiroshi.
“Enrico, questa è la terza volta. O sei cretino, o mi stai prendendo in giro!”
Enrico fece un’espressione offesa. “Ma scusa: in dieci minuti tu mi dici che hai baciato e sei andata a letto con un vip, per cui un terzo delle donne giapponesi farebbero carte false e che pubblicherai un libro! Lasciami il tempo di metabolizzare il tutto!”
“Sì, sì, va bene. Tra te e mia madre è la quarta volta che racconto questa storia; quindi, o hai capito, o fattelo spiegare da qualcun altro.”
Ilaria non disse niente. Non capivo se perché fosse arrabbiata per il fatto che non gliene avessi parlato subito, oppure perché troppo sconvolta dalla notizia.
“Quello che non capisco è: perché ci ha mentito? Perché dirci che è un traduttore?”
“Non lo so, Enrico.” Scossi la testa, per scacciare le lacrime che, ancora una volta, si affacciavano prepotenti.
“Per me è un cretino. Pensa davvero che faresti una cosa del genere? Ma se non l’hai detto neanche a noi!”
“Beh, ragazzi…” finalmente anche Luca intervenne “mettetevi nei suoi panni, per un po’. E’ un personaggio famoso, in Giappone, quindi abituato ad essere avvicinato da tutti per quello che appare. Cosa sarebbe successo se noi avessimo saputo chi è veramente? Se tu” indicò Enrico “l’avessi saputo?”
“Ehi! Non starai dicendo che è colpa mia, adesso!” si difese.
“No. Però, conoscendoti, so che l’avresti bombardato di domande anche più indecenti di quelle che gli hai fatto. Oddio, non oso pensarci.” Scosse teatralmente la testa.
“Luca, la pianti?!”
“Non puoi semplicemente farti un piccolo esame di coscienza e ammettere che ho ragione?”
Eh sì: le cose tra loro erano tornate esattamente come prima. Anche troppo, per i miei gusti.
“Comunque,” Luca tornò a concentrarsi su di me, dimenticandosi di Enrico “capite cosa voglio dire? In noi aveva trovato delle persone che erano con lui per quello che era, non per il lavoro che faceva.”
Luca era davvero un asso, nel capire le persone. Se gliene avessi parlato prima, forse tutto sarebbe andato in modo diverso.
“Quindi, la colpa sarebbe di Mara che non gli ha detto niente?”
“No, Ila, anche perché non le ha dato neanche il tempo di spiegarsi. Però, ecco, dal suo punto di vista, non lo condanno.”
Avevo capito cosa intendesse dire e aveva ragione. “Certo, dite tutte così!” mi aveva apostrofato Hiroshi; e questa la diceva lunga sulla tipologia di persone che aveva incontrato sul suo cammino. Eppure, una parte di me non riusciva ad accettarlo. “Resta il fatto che non si è fidato di me.”
“Però ti ha parlato della sua storia.”
Tacqui, non sapendo come replicare. Aveva ragione. Allora, ero stata io a sbagliare tutto? Non sapevo più cosa pensare.
“Ragazzi,” decisi “non ci pensiamo più. Quel che è stato, è stato. Adesso voglio solo concentrarmi sullo studio e sulla pubblicazione. Sempre se mi pubblicheranno.”
“Ancora con questa storia?”
“D’accordo, d’accordo. In previsione della pubblicazione.”
“Ma hai già chiamato?” si informò Luca.
“No. Lo farò direttamente lunedì.”
Enrico mi raggiunse e mi strinse a sé: “Vedrai, Mara, ce la farai. E quando il tuo libro verrà pubblicato in tutto il mondo, gli dimostrerai quanto sia stato stupido.”
Risi delle sue manie di grandezza, nonostante non ne fossi molto convinta.
“Ah, Enrico.” Dissi per stemperare la tensione. “Ho saputo che hai chiesto già la tesi al professor Amani!”
Si scostò allibito. “E tu che cosa ne sai?”
“Me l’ha detto lui, dopo che gli ho raccontato della tua performance al cinema.”
“Oddio…”
“Cosa cosa?!” sia Ilaria che Luca sembravano molto interessati “Tu hai già chiesto la tesi?”
Enrico era imbarazzatissimo, evento molto raro, per quanto lo riguardava. “Beh, sì. Cosa credete? Anche io sono uno studente, anche se non lo dimostro.”
“Meno male che lo ammetti tu stesso!”
“Ah ah! Divertente Luca!”
Le pizze arrivarono mentre i due continuavano a battibeccare sulle capacità intellettuali di Enrico; corsi ad aprire ed Ilaria, forse per evitare di ascoltare ancora quei due, mi raggiunse.
“Mara, sei sicura che ti va bene così?” mi chiese a bruciapelo.
“A cosa ti riferisci?” chiesi, mentre aprivo la porta e contavo per l’ennesima volta i soldi che avevo in mano.
“Ad Hiroshi. Non vorrei che per colpa mia…”
“Ila,” mi voltai verso di lei, decisa “non è colpa tua. La prossima settimana, magari domani stesso, lui tornerà in Giappone e io non lo vedrò mai più. Ci metterà meno di due secondi a dimenticarsi della sottoscritta, o forse mi ha già rimossa dalla sua mente. C’è stato un equivoco, ma lui ha pensato subito al peggio, senza ascoltare la mia spiegazione, quindi il problema non si pone neanche.” Tagliai corso, prestando attenzione al fattorino che, nel frattempo, era arrivato con la nostra cena.
“Come vuoi.” Credo avesse bisbigliato, ma non ne ero così sicura.

Ovviamente, io stessa mi rendevo conto che non sarebbe stato così semplice. Certo, io e Hiroshi non è che ci conoscessimo così tanto e che avessimo trascorso così tanto tempo insieme da poter dire che mi mancava terribilmente, perciò ero convinta che ci avrei messo davvero poco tempo a lasciarmi tutto alle spalle e a far finta che non fosse mai entrato nella mia vita.
Eppure, quella notte, non chiusi occhio. Guardavo al buio il soffitto della stanza, facendo attenzione a non muovermi troppo, onde evitare di svegliare anche mia madre e farla preoccupare inutilmente. Non riuscivo a togliermi dalla testa che, in quel letto, la notte precedente, aveva dormito un’altra persona, con me. In quel letto, ci eravamo amati. Ricordavo ancora troppo bene quella sensazione di completezza che avevo provato, quella consapevolezza che tutto sarebbe andato per il meglio.
Illusa.
Mi ero comportata come una ragazzina alla sua prima cotta che crede davvero che il suo amore durerà per sempre. E, come lei, mi accorgevo che la vita non va così.
Cretina, cretina, cretina…
Una lacrima mi bagnò una guancia ed entrai in panico: non dovevo piangere. Non gli avrei dato questa soddisfazione. No, no…
Mi alzai e, con circospezione, andai in cucina; l’orologio segnava le 3.30, ma io non avevo sonno, così decisi di rendere quelle ore più produttive, dedicandomi a quello che sapevo fare meglio: scrivere.
Accesi il computer e diedi una rapida occhiata a quei racconti che avevo già pubblicato sul giornale e a quelli ancora inediti; il puntatore corse veloce verso quella cartella che conteneva il romanzo che avevo inviato alla casa editrice e che mi era stato rifiutato. Chissà se un giorno loro me l’avrebbero accettato, oppure se faceva davvero così schifo da meritarsi solo un “canc”. Non era quello il momento di pensarci, decisi, ma di concentrarmi sui miei racconti brevi.
“Cosa ci fai qui a quest’ora?”
La voce di mia madre mi fece sobbalzare; istintivamente, chiusi la cartella.
“Stavo… ehm… non riuscivo a dormire, così mi sono riletta un po’ di racconti che ho pubblicato sul giornale, per cercare qualcosa di interessante.”
Mia madre mi venne accanto e lesse i titoli di alcuni file. Era così strano averla così vicina, pensai. Quanti anni erano che non succedeva? Così tanti che non me lo ricordavo neanche più, oppure, semplicemente, non c’erano mai stati?
“Non ci pensare troppo, Mara. Porta tutto e basta. Vieni a dormire, dai.”
“Non ho sonno.”
Appoggiò una mano sulla mia spalla: “Sei sicura che si tratti solo della pubblicazione?”
No.
“Sì. E’ tutto a posto, mamma, non ti preoccupare. Io mi metto un po’ a scrivere e poi vengo a dormire.”
Non so se la convinsi davvero, ma non insisté più di tanto.
“Ok.” Capitolò infine e mi schioccò un bacio sulla guancia, prima di tornare in camera.

“Mara, ma sei ancora qui?”
“Cosa?” alzai lo sguardo dal monitor e incrociai quello perplesso di mia madre.
“Sei ancora qui a scrivere?”
“Mamma, non ti avevo detto di andare a dormire e di non preoccuparti?”
“Infatti io ci sono andata.” Indicò l’orologio alle mie spalle e trasalii: erano le 7.10.
“Oh. Non me ne sono accorta.”
“Ho notato. Adesso chiudi quell’aggeggio, che ti preparo la colazione.”
“Aspetta, fammi finire qui!” protestai, tornando a concentrarmi sul monitor. Avevo scoperto che questo era un ottimo modo per esorcizzare il dolore e i pensieri negativi: immergermi a tal punto nel mondo dei miei personaggi, da dimenticare il mio. Non era la prima volta che mi capitava di tuffarmi così tanto nella scrittura da scordarmi persino di mangiare e dormire; a mia madre, ovviamente, non l’avevo mai detto e speravo che non venisse mai a scoprirlo.
“Adesso basta.” Senza troppe cerimonie, chiuse il portatile.
La guardai storto: non ero più abituata a convivere con qualcuno, decisamente. “Ti rendi conto che, se non avessi salvato, avrei perso il lavoro di ore?”
Alzò le spalle: “E quindi? Potevi sempre riscriverlo, no?”
Sospirai, lasciando correre: mia madre non avrebbe mai capito.
“Come mai sei già sveglia? E’ domenica.” Mi informai, invece.
“Ho dei programmi per oggi, per noi due.”
Per noi due?
“Mamma, ho da fare: devo studiare, scrivere e poi vorrei passare dalla signora Lucia.”
“Per una volta che tua madre viene a trovarti, tu vuoi relegarti in casa? Scordatelo. Lo studio può aspettare e, per quanto mi riguarda, hai scritto anche troppo.”
“Ok,” spostai il computer per darle retta. “E dove vorresti andare, visto che i negozi sono tutti chiusi?”
“Tutti?”
“Tutti.”
“Ma non esistono anche qui gli ipermercati aperti di domenica?”
Oh. Sì che c’erano e ci ero stata io stessa molte volte. “Sì…”
“Allora visto che non è tutto chiuso? Dai, muoviti, preparati!”
“Perché proprio un ipermercato? Potrei portarti in altri posti più interessarti, mostrarti qualcosa di bello, andare al mare…”
“I monumenti e il mare non scappano; il tuo guardaroba e il tuo frigorifero, invece, piangono.”
“Hai frugato nella mia roba?”
“Non ho frugato; l’ho vista per caso, ed è orribile...”
Perché dovevo avere una madre così fissata per la moda?
“Mamma, a me va bene così. E poi il mio frigorifero non è vuoto. Ci sono solo io, qui dentro, e spesso neanche pranzo a casa: perché dovrei riempirlo?”
Ma lei, come al solito, non mi ascoltò neanche
“… e poi, stai per avere un colloquio con una casa editrice e pretendo che tu abbia un abito decente.”
I miei occhi divennero due fessure. “Quindi, secondo te, finora mi hanno rifiutata per come mi vesto?”
“Ma no, non dico questo! Però, cara, anche l’immagine è importante. Quindi, basta parlare e va’ a prepararti.”
“Mamma, sono solo le otto del mattino! Dove vuoi andare a quest’ora?”
“Non avevi detto che prima volevi passare a trovare la signora Lucia?”
Sospirai rassegnata: la mia giornata tranquilla poteva dirsi conclusa ancor prima di cominciare.

Mentre passavamo di negozio in negozio, provando e riprovando vestiti e tailleur che puntualmente rifiutavo, schifata e inorridita, notai quanto io e mia madre fossimo diverse; non che non lo sapessi, ma solo in quel momento mi resi conto che, se non fosse stato per mio padre, io e lei probabilmente avremmo comunque sempre litigato per tutt’altri motivi.
“Mamma, mi hai già comprato un tailleur e una gonna che non metterò mai. Basta, adesso!” la implorai quasi, sperando che quella tortura finisse.
“Un cappotto! Ti prego, un cappotto! Uno solo!” supplicò lei, per tutta risposta.
Avrei voluto scappare e lasciarla lì, con gli acquisti; invece, con mia grande sorpresa “Che sia l’ultimo!” dissi.
“Evviva!” esultò come una bambina cui hanno appena regalato un giocattolo che desiderava da tanto; sorrisi, nonostante tutto: se bastava davvero così poco, per renderla felice…

Un’ora e mezza dopo, uscimmo dal negozio ancora più cariche: un altro tailleur, una maglia con una scollatura improponibile, per i miei gusti – per conquistare qualsiasi uomo, diceva lei; per sembrare una poco di buono, pensavo invece io, ma mi guardai bene dal farglielo presente -, un cappotto e un paio di scarpe con almeno venti centimetri di tacco; il tutto pagato da lei, ovviamente.
“Uh! E’ già l’una! Che ne dici, ci fermiamo a mangiare al MacDonald?”
Solo quando me lo fece notare, sentii un brontolio allo stomaco, molto più eloquente di qualsiasi risposta.
Come avevamo immaginato, il locale era pieno, visto che tutti avevano avvertito la nostra stessa esigenza, così decidemmo di ordinare e mangiare sul prato, come avevano fatto altri ragazzi.
“E’ una vita che non pranzo su un prato inglese!” commentò, ancora più felice di prima.
“Davvero l’hai fatto anche tu?” Non riuscivo ad immaginarmela, mia madre, sempre così impeccabile e precisa, i capelli fissati con litri di lacca, pranzare su un comunissimo e poco igienico prato inglese.
“Certo! Cosa credi, anche io sono stata giovane!”
“Non riesco ad immaginarti.” Ammisi.
“E invece devi crederci: fu così che io e tuo padre ci conoscemmo.”
La mia mano che stava per prendere una patatina si fermò a mezz’aria. Cosa?
“Dai, racconta. Come vi siete conosciuti tu e papà?” in quel momento ero io a comportarmi come una bambina che sta scoprendo come va il mondo.
“Uhm… era il Sessantanove, mi pare. Insomma, quegli anni lì. A quell’epoca, i giovani erano convinti di poter cambiare davvero il mondo.”
“Ferma, ferma! Tu una sessantottina?”
“Io? No. Io ero la classica figlia di papà e i moti non mi interessavano neanche. Era tuo padre l’attivista.”
“Già, posso immaginarmelo.”
Mio padre era una persona che credeva fermamente nel prossimo e nel mondo in generale; diceva che non era questo ad essere sbagliato, ma che solo chi lo viveva lo considerava tale; i nostri figli avrebbero detto che il passato era un’oasi in cui si stava bene e avrebbero parlato male dei loro tempi. Era così, e lo sarebbe stato per sempre.
“Un giorno, c’era occupazione. I miei non mi permettevano di dormire a scuola la notte, ma avevo il fidanzato e andavo a scuola principalmente per stare con lui. Quel giorno eravamo in giardino e ci stavamo baciando, quand’ecco che questo tipo si presentò davanti a noi e ‘Se siete qui per fare i comodi vostri, andatevene’. Ci rimasi talmente male, che gli mollai un ceffone e me ne andai.
“Non avrei mai creduto che il suo comportamento mi avrebbe dato tanto fastidio: nessun ragazzo mi aveva mai trattata in quel modo e così, come spesso succede, mi interessai a lui e a quel che faceva.”
“Ovviamente.”
“Qualche giorno dopo quell’episodio, andai da lui e, senza mezzi termini, gli dissi: ‘Se vuoi che ti perdoni per quello che mi hai detto l’altro giorno, devi uscire con me’. E lui accettò.”
“Io ti avrei mandato male.” Confessai.
“Beh, ma tuo padre era già innamorato di me. Mi disse che si era ingelosito nel vedermi con quel ragazzo e che aveva sperato di attirare la mia attenzione, almeno per una volta.”
Scoppiai a ridere. “Beh, ci era riuscito, dopotutto!”
Rise anche lei, lo sguardo perso tra quei ricordi lontani. “Solo che non me lo disse subito. Per la verità, ci misi un po’ a capire che ero innamorata di lui, così lo lasciai sulle spine per un sacco di tempo. Ancora oggi me ne vergogno.”
“E cosa ti fece capire che lo amavi?”
“Me ne resi conto quando mi disse che voleva trasferirsi per trovare lavoro. Pensai che non l’avrei rivisto mai più e non riuscii a sopportarlo.”
Tipico. Solo nel momento in cui perdi una persona, comprendi quanto per te questa sia importante: l’aveva capito Enrico, e lo avevo imparato anche io, a mie spese.
“Chissà perché papà non mi ha mai detto niente!”
“Forse perché si vergognava. A volte per gli uomini è difficile esprimere quello che sentono.”
Restammo un po’ in silenzio, le nostre menti che tornavano a quella persona che ambedue avevamo amato tanto, con uguale intensità, seppur in modo diverso.
“Bene!” esclamò all’improvviso alzandosi in piedi. “Coraggio, la nostra missione non si è ancora conclusa. Riprendiamo?”
La imitai. “Ok.”

“Mamma…” osservai il carrello davanti a me piuttosto perplessa “… cosa credi che me ne farò di tutta questa roba?”
“Ma è mica così tanta!”
“Ah no?” Dieci chili di patate, latte, carne e verdure di ogni tipo, tre buste piene di arance e mandarini. “Butterò un sacco di roba.”
“Tu non ti nutri abbastanza.” Mi rimbeccò. “Da domani voglio che, regolarmente, tu mangi almeno tre volte al giorno. E chiederò alla signora Lucia di controllare.”
“Adesso non ti sembra di esagerare?”
“Niente affatto. E ti telefonerò per sapere se hai seguito le mie istruzioni.”
C’era qualcosa che non andava in quella frase. “Telefonarmi? Riparti?”
“Beh, sì, tesoro. Domani è lunedì, quindi devo andare al lavoro.”
Oh, già. Non ci avevo pensato. “Riparti stasera?”
“Ehi, non guardarmi con quella faccia da ‘Finalmente questa si toglie dalle scatole!’”
“Non lo stavo pensando!”
Ci guardammo per un attimo.
“Ok, lo stavo pensando.”
Scoppiammo a ridere, mentre finalmente arrivava il nostro turno alla cassa. Non osai guardare il conto che aumentava sempre di più e mi limitai a mettere gli acquisti nei sacchetti.
Arrivammo a casa che era pomeriggio inoltrato. Mia madre mi aiutò a sistemare tutto quello che avevamo comprato e, con un po’ di sadismo malcelato, le feci notare che lo spazio nel frigorifero non bastava per tutti quegli acquisti.
“Dovresti prenderne un altro.”
“Come no. Portati qualcosa per la cena di stasera.”
“Uhm… quasi quasi…”
“Ti aiuto a preparare il borsone?”
“Non occorre, l’ho preparato stamattina mentre ti vestivi. E per fortuna: abbiamo fatto più tardi di quel che pensassi.”
Capii che era arrivato il momento dei saluti e il cuore mi si strinse. Ero davvero pronta a restare di nuovo sola, in quella casa?
“Allora, è già ora?” chiesi, cercando di essere il più naturale possibile.
“Sì, altrimenti poi si fa troppo buio e io ho paura a guidare di notte.”
L’aiutai a caricare in auto la borsa e le provviste che l’avevo convinta a portarsi; non che il frigorifero avesse avuto un po’ più di respiro, in questo modo. Chiuse il portabagagli e si voltò verso di me, preoccupata.
“Pensavo… Stella, non è che vuoi venire con me? Mi farebbe piacere stare un altro po’ con te.”
“Non posso, mamma. Ho un sacco di cose da fare e devo occuparmi della signora Lucia. Andrà tutto bene.”
Non sembrava molto convinta, nonostante cercassi tutti i modi per dimostrarglielo.
“Davvero?”
“Sì, tranquilla.”
“Beh, salutami i tuoi amici, d’accordo? Di’ loro che mi farebbe davvero piacere se un giorno vorrete venire a trovarmi tutti insieme.”
“D’accordo.”
Mi abbracciò e ricambiai il gesto. “Andrà tutto bene, vedrai. Abbi fiducia in te, mi raccomando.”
“Ci proverò.” Promisi, staccandomi da lei.
Mise in moto e la vidi sfrecciare via. Ero di nuovo sola.
Salii in casa di mala voglia: non avevo mai pensato che la mia abitazione potesse apparirmi così vuota e silenziosa e mi chiesi se sarei riuscita a sopportarlo. Mi sedetti sul divano e chiusi gli occhi, distrutta. Pochi secondi dopo ero già sprofondata in un sonno senza sogni.


Note dell’autrice
Come da sottotitolo, anche questo capitolo partecipa alla sfida Temporalmente, indetta da Criticoni e ho pensato che sarebbe stato carino riferirlo ai genitori di Mara, il cui rapporto mi piace da morire. Quindi, ho voluto dare al prompt un’interpretazione meno letterale: il poveretto spera soltanto di poter attirare, almeno per un attimo, l’attenzione della sua bella, senza sapere che alla fine quell’attimo avrebbe cambiato per sempre le loro vite! XD
Un grazie enorme a Gra e Maja per aver letto in anteprima questo capitolo e per avermi dato la loro preziosissima opinione e il betaggio!
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Naco