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Autore: Vera_Davvero    11/06/2016    0 recensioni
Quando smarrisci la via, e perdi te stessa lungo il cammino, che cosa ti resta?
Dimmi il tuo nome, straniera.
Oppure preparati a diventare una di noi.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sto seguendo le impronte, sentendo finalmente un barlume di speranza  rinascere in me, come un fiore delicato che, dopo la tormenta, inizia timidamente  a dischiudere i petali alla prima luce del sole.

Sono impronte umane, chiare e nitide sulla terriccio umido. Allora c’è qualcuno in questo posto! Non sono sola!

Le impronte mi guidano lungo il sentiero, fino a che non vedo la foresta iniziare a diradarsi, e finalmente lascio gli alberi alle mie spalle.

Davanti a me sta un villaggio.

Qualche decina di case che si affacciano su una strada principale di terra battuta, tutte con porte e finestre sprangate. Da qualche comignolo vedo uscire un rivolo di fumo, simbolo che, più di tutti gli altri, mi indica che sì, c’è vita in questo posto.

Perché, a parte quel segno, non c’è traccia di anima viva. Nessuno cammina per la strada, nessuno si affaccia alle finestre, o spalanca le persiane per fare entrare un po’ di luce. Non si sentono voci, se non il delicato sussurro del vento che soffia, sollevando qualche foglia al suo passaggio. Non ci sono suoni, eccetto quello appena percettibile del mio passo incerto.

Non ho idea di che ore siano, ma ad occhio potrebbe essere mezzodì. Non vedo il sole, oltre la spessa coltre di nubi grigie sopra di me. E’ strano, comunque: mi aspettavo di trovare almeno qualcuno lungo le strade. Invece sono tutti riparati in casa … perché? Temono forse qualcosa?

Avanzo fino a raggiungere la piazza del paese. Un pozzo al centro, con un secchio appeso ad una corda usurata che dondola, scricchiolando, sotto la spinta della gelida aria che si è sollevata.

C’è una taverna, sulla sinistra, ma le porte sono chiuse. Il mio sguardo fa per passare oltre, quando con la coda dell’occhio scorgo un particolare che mi fa gelare il sangue.

La finestra è chiusa, le persiane serrate. Ma nella stanza che sta al di là di essa, c’è una luce. La luce di una candela, suppongo. Illumina la stanza a sufficienza da fare scivolare i suoi raggi attraverso le sue fenditure.

Ma fra la luce e la finestra c’è una sagoma.

La vedo perfettamente disegnata sulla finestra, un’ombra con fattezze umane. Sta lì, immobile, al riparo dai miei occhi, ma non abbastanza da non essere notata. Un’area nera come la pece, circondata dalla luce soffusa della stanza, affacciata alla finestra.

Potrebbe essere un uomo, o una donna. Non saprei dirlo. Ma guarda dritto verso la piazza. Dritto verso di me.

Indietreggio, mentre sento la paura risorgere dentro di me, come una bestia assopita che inizia a svegliarsi.

Ma come mi volto, per fuggire con lo sguardo quella sagoma agghiacciante, e fisso lo sguardo su una vecchia casa di legno che sta sul lato opposto della piazza, resto paralizzata.

Due finestre, in quella casa.

Due sagome che mi fissano, esattamente nello stesso modo di quella della taverna. Una sagoma è sottile e minuta, l’altra più bassa e tarchiata, ma sono ciascuna affacciata ad una finestra sprangata, entrambe rivolte verso di me. Il loro profilo, nero, in netto contrasto con la luce alle loro spalle, è netto e ben delineato, quasi surreale.

Con il cuore che trema nel petto, così come tremano le mie mani, torno sui miei passi, e mi lascio alle spalle la piazza. Percorro la strada principale, con la testa bassa, e lo sguardo rivolto verso i miei piedi, perché so che se dovessi alzarlo e rivolgerlo alle case che si affacciano su questa strada, li vedrei tutti.

Vedrei finalmente tutte le persone che abitano questo posto. Le persone che dovrebbero essere in strada, a fare affari, a intrattenersi chiacchierando con il vicino o a passeggiare lungo il sentiero.

Le vedrei affacciate alle finestre, attraverso le fenditure delle persiane, come sagome nere e spersonalizzate, come ombre che sorvegliano minacciose il loro territorio, che spiano il mio passaggio nel silenzio più totale.

Ma non guardo. Non le voglio vedere. So che ci sono, ma mi limito ad accettare la loro presenza. Non voglio guardare …

 

Un rumore di passi alle mie spalle.

Non faccio in tempo a voltarmi.

Una mano mi affetta il polso. Una figura alta ed imponente mi trascina in un vicolo.

Sto per gridare, ma nel momento in cui il fiato mi scivola in gola, quella figura mi sbatte la schiena contro una delle case di legno, e mi copre la bocca con l’altra mano.

Mi ritrovo davanti due occhi come due pietre di giada. Verdi, ma di un verde opaco, spento. E duri, duri come la pietra. Occhi che da soli sarebbero capaci di ridurmi al silenzio.

Ma l’uomo che mi tiene prigioniera, che tiene una mano sulla mia bocca, e che ancora mi stringe il polso con l’altra, non lo immagina, probabilmente.

Trascorre qualche istante, e io resto immobile, come una statua. Probabilmente nemmeno sto respirando. Sento solo quella mano forte e decisa premermi sulla bocca, e quegli occhi trafiggermi con uno sguardo affilato.

Poi l’uomo parla. Ha una voce baritonale, diaframmatica.

“Cosa credevi di fare?”

Si aspetta davvero che gli risponda, se continua a tenermi tappata la bocca?

“Non è sicuro per nessuno camminare alla luce del giorno. Soprattutto per te”

La mano scivola via dalla mia bocca.

Il mio respiro è rapido e superficiale. Ma almeno ho ripreso a respirare.

Continuo a fissare quell’uomo, incerta e spaventata. Ha i capelli colore dell’oro, ma sono spettinati e sporchi. E’ alto, con le spalle larghe e robuste, e il fisico possente. Indossa abiti consunti, scuri, e porta ai piedi degli stivali rovinati.

Lui non mi sta guardando. Ha rivolto il suo sguardo verso la strada principale, la strada da dove mi ha appena tratto al riparo. E’ sempre deserta, e anche se il sole continua a nascondersi oltre le nubi spesse e minacciose, è comunque più luminosa del vicolo in cui siamo nascosti, al momento. Un vicolo che passa in mezzo alle case di legno di questo bizzarro, spettrale villaggio, e che diventa più tetro ed oscuro man mano che procede …

“Allora?” mi incalza l’uomo. “Cosa pensavi di fare, camminando come se nulla fosse in mezzo alla Strada?”

Deglutisco a vuoto, perché ho la gola secca.

“Mi sono persa …” comincio. Ma mi blocco subito.

La mia voce … è … questa?

Mi suona così diversa. Diversa da solito. E’ strano, no? Ognuno dovrebbe riconoscere la propria voce. E’ l’unica che si ha la certezza di sentire ogni giorno della propria vita.

La mia è così … estranea. E’ flebile, puerile. Non la ricordavo così …

Provo a cercare nella mia memoria quel ricordo, ma … ma scivola via prima che io possa raggiungerlo. Che suono mi sarebbe familiare? Che suono dovrebbe avere la mia voce, se non questa?

“Persa?” ha domandato nel frattempo l’uomo, inconsapevole delle domande che affollano la mia mente, e del mio disperato sforzo di cercare una risposta.

Annuisco.

“Come puoi esserti persa?” domanda, confuso. Lo vedo scrutare il mio viso con sospetto e poi domandarmi: “Come puoi esserti persa? Qui è impossibile perdersi”

“No, non lo è”

“Dico sul serio. Nessuno in questo posto maledetto potrebbe mai perdersi lungo la Strada”

“Ti dico che io non ho idea di dove mi trovo”

Lui esita. “Non … non è possibile”

La voce delicata e fresca che esce dalla mia gola, la voce che stride con le mie aspettative, sta per confermargli ancora una volta che non so minimamente dove mi trovo …

Ma lui mi interrompe.

“Come puoi perderti in un posto che conosci da tutta la vita?”

Scuoto la testa. “Io non sono mai stata qui prima d’ora”

Gli occhi color giada si spalancano. Vedo le sue labbra schiudersi per dire qualcosa, ma non esce nulla. Chiude la bocca e mi fissa a lungo.

“Com’è possibile?” domanda d’un tratto. “Come puoi non conoscere questo posto?”

  
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