Nel
salottino privato del primo piano la musica giungeva ovattata. Nella pista
centrale del night – proprio sotto quella stanza – i dj facevano del loro
meglio per offrire ai presenti una serata di puro divertimento, grazie alla
musica sparata a volumi altissimi. I barman stavano servendo cocktail a tutto
spiano e con molta probabilità anche gli addetti alla sicurezza erano piuttosto
impegnati. Il night club era pieno. Quasi ogni invito distribuito da Jack aveva
ottenuto riscontro positivo e fuori dall’ingresso c’erano addirittura altre
persone che chiedevano di poter entrare. Un autentico successo.
Tuttavia
Jack non si trovava nella sala principale del locale a ricevere i complimenti e
le congratulazioni da parte di tutti. Dopo la cena e qualche drink in
compagnia, proprio quando il night aveva cominciato a riempirsi, il ragazzo si
era alzato e aveva raggiunto la saletta del primo piano, quella privata
esclusivamente per lui. Si era seduto sul divano in pelle, le luci soffuse
intorno e vi era rimasto.
Per
quanto tutto stesse procedendo per il meglio, non lo stava facendo per lui.
Jack aveva ripensato tutta sera alla lite avuta con il padre e continuava a
pensarci anche in quel momento, isolato da tutto il resto. Gli tornarono ancora
alla mente le parole che Benjamin aveva detto e al tono con cui le aveva
pronunciate. Si chiese quanto ci fosse di vero e la risposta – anche se si
trattava più di una supposizione – lo fece innervosire ulteriormente. Ormai era
adirato; lo era verso la sua famiglia che aveva dubitato di lui, verso Louis e
Riley che non erano venuti a festeggiare quello che era il suo nuovo inizio e
verso se stesso. Jack era furente con sé proprio per il fatto di volere
ugualmente accanto tutte quelle persone in quel preciso momento, per un motivo
che non riusciva a capire ma che lo faceva innervosire sempre di più.
Smise
di giocherellare con la mezza cannuccia da cocktail che teneva in mano, gli
occhi fissi sul basso tavolino che aveva davanti. Le iridi grigio-azzurre erano
puntate da ormai diversi minuti su tre file simmetriche di leggera polvere
bianca, disposte ordinate sul piano del tavolo come in attesa.
Per
cinque mesi Jack non ne aveva sentito il bisogno; per tutto quel tempo era
riuscito a stare bene anche senza l’assunzione di cocaina. Tuttavia quella sera
sentì che da solo non avrebbe mai potuto farcela. Troppe erano le sensazioni
avvilenti e frustranti che si erano amalgamate in lui, troppo il tempo
trascorso dall’ultima volta che si era sentito tanto male e tanto solo. Non
conosceva altro modo per uscire da quella situazione che già più volte aveva
vissuto, se non quello di annullarsi completamente, costringendo la propria
mente a pensare a tutt’altro.
Buttò
fuori una lunga boccata d’aria e avvicinò la testa al piano del tavolino,
usando la cannuccia per poter inspirare in sequenza ciascuna delle tre strisce
di polvere bianca. Ritrasse indietro la testa e tirò su con il naso. Nel
sacchetto che Tony gli aveva dato c’era ancora della droga. Jack preparò altre
tre strisce, ma prima di poterle consumare sentì la porta aprirsi. Nathan entrò
sorridente, ricomponendo il nodo sfatto della cravatta.
«Si
può sapere perché te ne rimani chiuso qui? Di sotto è tutto pazzesco» disse il
ragazzo, richiudendosi la porta alle spalle. Come puntò lo sguardo su Jack,
notando lo stato in cui era e intuendo ciò che aveva appena fatto, si bloccò,
divenendo improvvisamente serio. Jack rimase a guardarlo, le labbra schiuse, le
sopracciglia alzate, lo sguardo puramente provocatorio. Nathan vide la camicia
sgualcita, le maniche arrotolate fino ai gomiti in maniera grossolana. Chiunque avrebbe potuto intuire che qualcosa non
andava in Jack; Nathan era stato tempo sufficiente in una comunità di recupero
per tossicodipendenti – dove, oltretutto, aveva incontrato proprio Jack – per
saper riconoscere lo sguardo di qualcuno che era in procinto di farsi del male.
«Che
stai facendo?» esplose, raggiungendo subito Jack e tentando di togliergli dalle
mani la cannuccia che l’altro aveva usato per dare la prima aspirata.
Jack
si liberò in fretta. Per quanto fosse magro le sue braccia erano comunque
forti. Si alzò e dopo aver afferrato Nathan per la giacca del completo lo
spinse indietro finché il ragazzo non inciampò contro uno dei divani, cadendovi
sopra. Jack allora lo lasciò andare e rimase a fissarlo, cominciando a sudare. La
sua fu una lunga e gelida occhiata. Si sistemò nuovamente al suo posto dopo che
il respiro – che si era fatto più ansante – fu tornato regolare. Guardò Nathan
negli occhi e con un’espressione beffarda sollevò davanti al volto la
cannuccia.
«Perché
non ci arrivi?» ringhiò in direzione dell’altro. Nathan si fece improvvisamente
piccolo sul divano, l’espressione insicura dipinta negli occhi.
«È
grazie a questo che siamo qui. Tutte le persone che sono di sotto, in quello
che tu definisci pazzesco, sono qui per questo.»
Continuava
ad agitare la cannuccia a mezz’aria, gli occhi gli si erano fatti
improvvisamente inespressivi. Nathan non aveva mai visto Jack in quello stato e
ne fu quasi spaventato.
Jack
riprese a parlare, inumidendosi le labbra e scorrendo sul divano così da
riuscire ad avvicinarsi all’altro. «Sappiamo benissimo entrambi che non si esce
da qui. Se ci sai convivere puoi controllare tutte le persone che sono di
sotto.
«E
io so che vorresti poterlo fare. Quanti uomini hai visto con cui ti piacerebbe
finire a letto, eh?»
Nathan
non riuscì a capire dove Jack volesse arrivare. L’espressione del ragazzo era
mutata ancora e i lineamenti perfetti del suo viso erano tirati e nervosi.
Parte del discorso sconclusionato che Jack aveva appena fatto era certamente
attribuibile alla droga. Tuttavia Nathan sentiva che l’altro aveva ragione. Era
più che probabile che la maggior parte delle persone nel night club avessero un
secondo fine oltre al fatto di passare una serata fuori, un fine che aveva a
che fare con vizi e piaceri artificiali. Nathan era convinto di esserne uscito,
ma vedendo Jack, vedendo quello che era in attesa sul tavolino che aveva
davanti, uno strano fremito percosse il ragazzo; un bisogno che non provava da
tempo si instillò in lui lentamente. Sollevò gli occhi su Jack, il cui viso era
increspato da un sorriso strafottente.
«Quando
questo posto sarà decollato, e credimi, lo farà, avrò bisogno solo della gente
migliore. Non di mammolette che scappano e si tirano indietro» disse poi Jack,
appena lo sguardo di Nathan si posò nel suo. Porse la cannuccia al ragazzo:
«Credi di essere uno dei migliori?»
Nathan
rimase a guardarlo per un lungo momento, infine accettò la sfida. Prese la
cannuccia dalle mani di Jack e si avvicinò a lui, chinandosi ad aspirare in un
colpo solo una delle strisce di polvere bianca. Subito dopo tornò a guardare
Jack e il sorriso trionfale che aveva. Quest’ultimo si protese verso di lui e
lo baciò, posando con forza le sue labbra a contatto di quelle dell’altro.
«Bravo
ragazzo. Non te ne pentirai, vedrai» disse infine.
*
Qualcosa
dentro Riley non la faceva sentire tranquilla. Aveva una strana sensazione alla
bocca dello stomaco e quando arrivò all’ingresso del night club e vide la gente
che premeva contro le transenne pregando di entrare, quella strana sensazione
si intensificò.
Mostrò
l’invito all’addetto alla sicurezza e questo la lasciò passare. La differenza
di temperatura del locale rispetto all’esterno era da star male. Riley si sentì
soffocare nello scialle che aveva preso per coprirsi le spalle. Lo fece
scivolare in gran fretta fino ai gomiti, avvolgendolo all’altezza della vita.
Si guardò intorno, fra la marea di persone presenti nel night. Si sentì
sollevata nel constatare di non essere quella vestita in modo più
elegante. Elizabeth le aveva detto che i
night club prevedevano l’abito per le donne.
L’amica
l’aveva convinta, quello stesso pomeriggio, a rinunciare a buona parte del loro
programma serale per partecipare all’inaugurazione a cui Jack l’aveva invitata.
In verità era stata Riley a far intendere che aveva pensato di andare e
Elizabeth non aveva fatto altro che darle la spinta finale. La ragazza si era
quindi sistemata nel pomeriggio e prima di uscire la sera aveva indossato il
suo vestito preferito – quello rosso con sottili spallini, stretto in vita a
dalla gonna ampia fin poco sopra le ginocchia – e aveva legato i lunghi capelli
biondi in uno stretto, quanto ordinato, chignon. Intorno alle undici e mezza si
era congedata da Elizabeth e aveva raggiunto il night club.
Cercò
di scorgere Jack fra le persone, ma la quantità di gente presente rendeva
l’operazione pressappoco impossibile. Non poteva certo negare che
l’inaugurazione era un successo e si sentì felice per il ragazzo nel vedere i
suoi sforzi ricompensati, tuttavia faticava a ignorare la strana sensazione che
ancora provava allo stomaco. Si fece largo fra le persone – il caldo e l’odore
di alcol e sudore sempre più intenso – continuando a guardarsi intorno. La
musica era troppo alta e assordante; le bastarono tutti questi fattori per
ricordarsi perfettamente per quale motivo i locali notturni non facevano per
lei.
Arrivò
fino al bancone di uno dei bar e si fermò. Non c’era traccia di Jack. Si ostinò
a scrutare fra le persone, desiderando sempre più intensamente di riuscire a
trovare il ragazzo.
«Ehi,
splendore. Che ne dici di bere qualcosa?»
Riley
si voltò in direzione di quella voce, scattando immediatamente sulla difensiva.
Davanti si trovò un ragazzo all’incirca della sua età, con capelli e vestiti
curati, ma con lo sguardo di chi aveva già bevuto fin troppo.
Gli
scoccò un’occhiata gelida. «Direi di no» rispose, andandosene subito dopo.
Cominciò
a sentirsi esasperata. Non c’era traccia di Jack e quel locale iniziava ad
andarle stretto. Tuttavia non si diede per vinta.
Improvvisamente,
vicino all’ingresso, cominciarono a sollevarsi svariate grida e applausi. Riley
si alzò in punta di piedi, cercando di capire a cosa fosse dovuto
quell’improvviso caos. Fra le teste riuscì a vedere di sfuggita un volto noto,
che avanzava a fatica fra la mare di persone che continuavano a rallentarlo per
tendergli la mano o dirgli qualcosa: era Benjamin Miller. Riley mantenne lo
sguardo su di lui mentre l’uomo le sfilava accanto e continuò a seguirlo.
Quando lo perse di vista si diresse nell’ultimo punto in cui lo aveva visto.
Non c’era più.
Spazientita,
la ragazza riprese a scrutare in tutto il locale. Finalmente, dopo quella che
le parve un’eternità, ritrovò l’uomo. Lo vide salire le scale di fretta,
seguito da una delle sue guardie del corpo e scomparire. Non sapendo che altro
poter fare, Riley mantenne gli occhi fissi sulla rampa nella speranza di vedere
tornare Benjamin in compagnia del figlio.
Rimase
in attesa per un lungo tempo. Arrivò a pensare che l’uomo non sarebbe più
tornato indietro, prima di rivederlo effettivamente sbucare da dietro la
parete; dovevano essere trascorsi almeno quindici-venti minuti. Benjamin
attraversò in fretta il corridoio in cima alle scale, sparendo nuovamente,
questa volta dietro la parete opposta.
Riley
intuì subito che qualcosa non andava. Il passo dell’uomo era frettoloso e
l’espressione, anche se vista solo di sfuggita, era tesa. La ragazza si sentì
divorare dalla spiacevole sensazione che l’aveva pervasa appena era giunta al
night club e qualcosa dentro di lei le disse che avrebbe fatto meglio a uscire
dal locale se sperava di scoprire ciò che di strano stava accadendo.
Assecondò
il suo pensiero. Si fece largo fra le persone presenti, spingendone anche
quando era necessario. Fece il possibile per raggiungere in fretta l’ingresso.
Appena fu fuori non perse neanche tempo a coprire le spalle con lo scialle.
Notando che all’entrata nulla sembrava diverso, Riley sgattaiolò nella stretta
via fra i due edifici, che sboccava nella strada in cui si apriva l’ingresso sul
retro del night club. Stette attenta a non dare nell’occhio, qualcosa le diceva
che era meglio non farsi notare.
Poi
la vide. Davanti all’uscita di sicurezza c’era un’ambulanza. I portelloni del
mezzo vennero chiusi in quel preciso momento, mentre la luce blu lampeggiava
insistente. Riley rimase immobile,
seminascosta nel buio. Sentì delle portiere di un’auto venire aperte e
istintivamente si voltò. Si accorse che Benjamin stava salendo sulla berlina
scura parcheggiata lì. Non si era sbagliata; il volto dell’uomo era teso e le
parve profondamente spaventato, addirittura terrorizzato. La sua mente si mosse
in fretta, collegando insieme i tasselli di quanto aveva visto e le sembrò che
il cuore le si fermasse. Un brivido gelido percosse la ragazza che si sentì
sbiancare in volto e la strana sensazione che aveva provato tutta sera la fece
sentire più oppressa che mai. Le mancò il respiro.
La
berlina partì, allontanandosi dal marciapiede e cominciando a seguire da vicino
l’ambulanza, la quale, svoltato l’angolo, azionò le sirene.
Riley
si appoggiò alla parete mentre continuava a seguire con lo sguardo il bagliore
blu che lampeggiava sempre più lontano fra gli edifici. Era convinta di aver
capito ciò che era successo. Su quell’ambulanza c’era sicuramente Jack e, con
molta probabilità, doveva essergli accaduto qualcosa di grave.