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Autore: AnyaTheThief    13/06/2016    0 recensioni
Roman Kozlov fissava quella palazzina da alcuni minuti. Gli sembrava incredibile che fosse rimasta in piedi, visto il destino crudele nel quale era incorsa Vienna intera.
“Quanto tempo è passato? Quanto tempo dall'ultima volta che mi hai baciata e senza parlare mi hai promesso una vita assieme?”
Athos si svegliò all'improvviso con un sussulto ed ansimò forte, in un letto di sudore. Si portò le mani tra i capelli fradici e fissò il vuoto per alcuni minuti.
Sbroglierò i nodi che ho creato nei due capitoli precedenti di Crossed Lives, spero li abbiate letti!
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Athos, Milady De Winter, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Vanessa non aveva bagagli, né soldi, né il suo violino con sé, ma in compenso si portava sulle spalle un enorme fardello.

Era sudicia, ferita, stanca ed emotivamente distrutta. Ma aveva ancora una ragione di vivere: la sua vita appesa alle corde dello strumento che tanto amava e che le avevano strappato brutalmente.

Non le importava, non le importava di essere stata stuprata da quattro uomini, di aver dormito per strada per due notti, nel terrore, di aver rovistato nella spazzatura e mangiato cose che l'avevano fatta stare peggio di prima. Soprattutto non le importava di quel porco soldato russo che l'aveva tradita. Non lo voleva rivedere mai più, nonostante stesse tormentando i suoi sogni.

Le sue ultime parole... Nessuno le aveva mai detto di amarla. Per un folle istante pregò che Roman stesse bene, nonostante tutto quello che le aveva fatto subire.

No.

L'unica cosa per cui doveva pregare in quel momento era che tutti i binari della tratta fossero ancora connessi, che suo padre fosse ad aspettarla a Berna e che il suo treno non venisse bombardato, anche se sapeva che era improbabile che tutte queste eventualità andassero per il meglio, e che probabilmente sarebbe stato un lunghissimo viaggio. Ma era sicura che la parte di viaggio che avrebbe dovuto fare da sola sarebbe stata relativamente breve. Una volta con lui, avrebbe potuto sentirsi al sicuro di nuovo.

Le aveva promesso che sarebbero tornati ad essere una famiglia.

Un peso che invece non aveva certo sulla coscienza era la vita di quei sei bastardi. Ce n'era voluto di tempo e ne aveva corsi di rischi, ma alla fine li aveva uccisi tutti senza che nessuno sospettasse di lei. Sua madre e sua sorella erano state vendicate.

Ne restavano altri quattro in circolazione, quei quattro che ne avevano approfittato di lei, i compagni del porco russo. Per grazia divina l'avevano lasciata sanguinante e sofferente su quel tavolo. Le avevano portato via il violino, strimpellandolo in malo modo, e lei si era sentita doppiamente violentata. Ma doveva andarsene di lì, non voleva parlare con lui.

Preferiva dormire per strada, piuttosto che condividere il suo letto con un porco.

In stazione dovette passare i controlli dei sovietici appostati lì, ma aveva così poco con lei che rimasero allibiti nel vederle in mano un biglietto ferroviario per una destinazione tanto ambita. La lasciarono passare senza sfiorarla.

Trovò il suo treno già ad aspettarla e, per la prima volta dopo giorni, un sorriso soddisfatto le comparve in viso in maniera spontanea. Non era mai stata su un treno e nonostante la stazione fosse mezza distrutta, piena di vagoni squartati e buchi nel soffitto, il suo treno se ne stava lì, maestoso, fumante, bellissimo.

Gli si avvicinò come una bambina attirata dal carretto dello zucchero filato. Lo guardava incantata, piena di meraviglia, e quando mise un piede sul primo gradino, per un attimo le parve di essere tornata a quando era piccola e non c'era ancora la guerra, e suo padre la portava ogni tanto a sentire i concerti di nascosto fuori dal teatro e ballavano e ridevano come dei matti, e se qualcuno li beccava poi correvano via... Poi erano arrivati i nazisti. E gli americani avevano distrutto il Wiener Staatsoper. Quando se ne ricordò, ebbe un tuffo al cuore e in quell'istante le sembrò in quel momento di sentire un violino suonare. Sapeva che era soltanto una magica illusione della sua memoria, ma si voltò comunque.

Lo vide camminare verso di lei con l'amore nello sguardo. Vanessa impallidì.

Roman si fermò ad un metro da lei. Era sporchissimo, ancora più di lei, e Vanessa si rese conto soltanto avvicinandoglisi che era coperto di sangue dalla testa ai piedi. Teneva in mano il suo violino, anch'esso screziato di rosso ma intatto, e dal manico pendeva qualcosa che non seppe riconoscere. Ma non era il violino a cui Vanessa guardava con apprensione.

Gli corse incontro preoccupata ed iniziò a carezzargli i capelli, il viso, il collo, mentre il suo sguardo lo ispezionava alla ricerca di ferite. Lui era impassibile e la fissava severo, addolorato, stanco, innamorato. Quando Vanessa se ne rese conto, si ritrasse rapidamente.

Non aveva dimenticato ciò che lui le aveva fatto. Si riprese l'archetto ed il violino e se lo rigirò tra le mani, soffermandosi su quello strano gioiello appeso al manico.

Lui le allungò anche la sua sacca e lei la prese con un po' di diffidenza. Tuttavia la aprì avidamente e ne ispezionò il contenuto. C'era la sua pistola, che i soldati le avevano portato via, del cibo, alcuni soldi e quattro documenti.

Li scorse rapidamente, osservando le foto, ed improvvisamente le fu chiaro di chi fosse il sangue di cui Roman era ricoperto. Sussultò, poi prese a respirare spasmodicamente, cercando aria in quella stazione che era diventata d'un tratto una gabbia opprimente. Il treno tanto attraente, una tortura che li avrebbe allontanati.

Gli si gettò tra le braccia, lo baciò, pianse, rise, lo amò e glielo disse.

“Scrivimi.” gli disse, glielo ordinò. “Al Conservatorio di Madrid.”

Lui annuì con le lacrime agli occhi. La vide salire sul treno, rimase a guardarla dietro il finestrino, mentre lei gli sorrideva con quella sua aria maliziosa e innocente. Si portò il violino sotto al mento ed iniziò a suonare.

Per lui.

Roman non lo sapeva, ma quella era la Foscarina di Marini, una sonata del XVII secolo. Gli sembrò fantastica, perché era tutta sua.

E quando il treno partì e la musica sfumò in lontananza assieme a Vanessa, il soldato improvvisamente si ricordò.

 

 

 

Passarono i giorni, i mesi, gli anni. Passavano veloci, inconsistenti, inutili. Athos non riusciva a darsi pace. Non poteva accettare che lei fosse sparita in quel modo, senza lasciarsi dietro nient'altro se non un misero guanto. Quel pezzo di stoffa lo aveva praticamente consumato a furia di cercare il suo odore, ormai impercettibile. Alla fine lo aveva gettato in un angolo dell'ufficio dal quale si teneva ben alla larga, anche se di tanto in tanto gli sembrava che lo richiamasse a sé, un costante promemoria del fatto che aveva fallito.

Erano passati ormai quattro anni, e i capelli di Athos avevano iniziato a striarsi di grigio, benedicendolo con un nuovo fascino e maggiore saggezza. Nonostante la sua vita gli apparisse come uno scorrere di immagini offuscate, un filtro gli selezionava automaticamente quelle che riguardavano lei, e ricordava alla perfezione il più profumo, la sua voce, la sua pelle, le parole di Liz... Quelle parole non lo lasciavano mai in pace.

“Continuo a sperare che sia viva da qualche parte e che un giorno venga a riprendermi...” forse erano le parole che Milady stessa le aveva ripetuto quando parlava di lui. Lo aveva aspettato per tutto quel tempo. Poteva vedere la sua mano scoperta torcere quella agguantata in gesti impazienti ogni volta che un cliente entrava dalla porta del bordello, e i suoi occhi che guizzavano all'uscio speranzosi, illusi. Così lui faceva sempre scorrere lo sguardo rapido su ogni lettera che riceveva, sperando di leggerci il suo nome o il nome di Liz che gli portava notizie. Ma niente.

Porthos interruppe il suo ordinario rivangare, entrando nell'ufficio con delle carte in mano. Aveva la pietà dipinta in faccia.

“Cosa?” domandò Athos, alzandosi in piedi, dietro alla scrivania.

“Mi dispiace, io...” mormorò il moschettiere, immobile.

Athos lo squadrò interrogativo. Per quanto fosse più alto del Capitano, in quel momento poteva essere benissimo paragonato ad una formica da tanto si faceva piccolo stringendosi nelle spalle.

“Cosa?” insistette Athos, di poche parole come sempre, alzando leggermente la voce.

Porthos gli tese la lettera. Athos la afferrò e la lesse velocemente; la sua espressione mutava tra le righe scritte a mano in una calligrafia precisa e ordinata.

“Credevo che ti avrebbe di nuovo ridotto... Pensavo che non...” cercò di giustificarsi Porthos, dilaniato dal rimorso.

Athos lo guardò attonito, poi gli rifilò un pugno in pieno viso così forte che fece barcollare l'amico che finì contro al muro, senza replicare. Non ne ebbe nemmeno il tempo: Athos si era già fiondato fuori dall'ufficio.

Era viva. Milady era ancora viva.

Avrebbe trovato il tempo di perdonare Porthos, ma prima doveva trovare lei: sellò il suo cavallo e vi saltò in groppa così velocemente che quando Porthos si affacciò dalla porta dell'ufficio dopo qualche esitazione, l'amico era già sparito per le vie di Parigi.

Non avrebbe cavalcato così velocemente nemmeno se avesse avuto degli uomini armati al suo inseguimento. Raggiunse il villaggio in meno di un'ora, smontò da cavallo e si fiondò alla porta di una graziosa casa bianca.

“Anne!” esclamò, entrando senza nemmeno bussare.

Inizialmente credette di star guardando un angelo, una splendida visione creata dalla sua mente, ma quando i suoi occhi corsero verso l'uscio e si fermarono su di lui, ebbe la conferma che era tutto reale. La reazione sul suo volto fu semplicemente umana, tanto che pensò di essere tornato indietro nel tempo, a quando si erano appena conosciuti.

Gli sorrise, ma i suoi occhi piangevano. Lui le si avvicinò a passo spedito e la prese tra le braccia, la baciò per minuti lunghissimi, senza capire quanto tempo stesse passando. Non gli importava, sarebbe morto così, non gli interessava di nient'altro se non di lei.

“Anne...” sospirò ansante, appoggiando la propria fronte contro la sua e stringendola così forte da farle male. Ma lei non replicava, lo guardava soltanto negli occhi, il viso madido di lacrime.

Rimasero così per parecchio tempo, fronte contro fronte; lui le cingeva la vita nell'abbraccio più passionale, lei stringeva la sua camicia tra le mani per paura che gli scappasse di nuovo.

“Credevo di averti persa per sempre.” confessò Athos, schioccando poi un paio di baci sulle sue labbra carnose, incapace di resistere al contatto.

“Ti ho cercato. Mi hanno detto che te n'eri andato.” ricordò lei con dolore.

“Ero venuto a cercare te. Mi hanno detto che eri morta.” ribatté lui, prendendole le mani tra le sue, senza mai distoglierle gli occhi di dosso, come se temesse che se si fosse distratto per un secondo lei sarebbe svanita in una nuvola di fumo.

“Mi hanno detto che ti eri dimenticato di me.” lo guardò in maniera inquisitrice, per studiare la sua reazione.

“Mai.” rispose lui, fermo. Tirò fuori dalla tasca il guanto, una volta candido, ora logoro e sporco e lo mostrò a lei come un trofeo. Milady sorrise e lo baciò di nuovo, facendoselo scivolare nella propria mano e riappropriandosene dopo tutto quel tempo.

“Mi hai fatto morire di paura. Pensavo fossi malata sul serio.” così c'era scritto nella lettera, ma avrebbe dovuto sospettare che si trattava soltanto del suo ennesimo inganno. Non aveva mai smesso di essere Milady.

“Sapevo che la lettera poteva finire nelle mani di altri. Avevo più possibilità di arrivare a te, in questo modo.” si giustificò lei, come se stesse parlando di ordinaria amministrazione. “Mi dispiace.” aggiunse poi, sotto lo stupore dello sguardo del Capitano. Notandolo, gli mostrò la sua occhiata più sprezzante, pur continuando a sorridere, come a volergli mostrare di non essere cambiata in tutto quel tempo.

Athos chiuse gli occhi e si dondolò come un ragazzino alla sua prima cotta, inebriato dal suo profumo, stordito dalla perfezione del momento.

“Ti amo, Anne.” si lasciò sfuggire dalle labbra. Lei non rispose, proprio come lui si aspettava. “Non ho mai smesso di amarti.” stentava a riconoscersi. Tutto il suo orgoglio era stato annullato da uno sguardo di quella donna, l'unica donna.

“Devi andare, ora.” gli mormorò, un po' fredda, un po' ancora intorpidita dalla passione che l'aveva travolta. Lui riaprì gli occhi e le lanciò uno sguardo gelido, confuso.

“Devo ancora sistemare un paio di cose. Non puoi stare qui. Ti verrò a cercare presto.” sembrava sincera, mentre pronunciava quelle parole guardandolo negli occhi.

“Qualsiasi cosa sia, posso aiut--” si auto-censurò, fulminato da un suo sguardo mezzo ironico mezzo autoritario.

“Ti verrò a cercare. Lo prometto.” ribadì, restituendogli le sue mani, appoggiandogliele sul cuore. “Non smettere di amarmi.” aggiunse poi, donandogli un ultimo sorriso.

Se prima Athos nutriva dubbi sulla veridicità delle sue affermazioni, dopo quella frase si era convinto del tutto.

Ricambiò il sorriso, le baciò le mani che ancora stringeva tra le sue, posate sul proprio cuore, ed uscì dalla casetta bianca.

 

  
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