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Autore: GirlWithChakram    17/06/2016    1 recensioni
Janice Covington e Melinda Pappas, dopo aver recuperato le mitiche pergamene di Xena, trovano, tra i numerosi appunti di Harry Covington, un indizio che rivela la presenza di altri scritti perduti. Le due amiche dovranno dunque attraversare la Grecia, dilaniata dal conflitto mondiale, nella speranza di sopravvivere anche a questa avventura, tra incontri, scontri ed imprevisti, per portare alla luce l'antico tesoro e forse qualcosa di più.
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altro Personaggio, Gabrielle, Xena
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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The incredibly true story of two friends on a quest

Diario di Melinda P. Pappas
2 Maggio 1942, monte Chortiatis, Grecia
Abbiamo ormai percorso due terzi della strada che ci separava, al momento della scoperta dell’esistenza delle altre pergamene, da Potidaea. Riteniamo che in non più di tre giorni giungeremo al sito, individuato grazie ai testi di Harry Covington, che dovrebbe distare pochi chilometri dal centro di Nea Poteidaia.
 
Un fischiettare familiare mi spinse a tagliare corto. Janice, in piedi di fronte a me, aveva finito di godersi il panorama dalla cima della montagna e mi invitava a darmi una mossa, battendo il piede a ritmo con l’improvvisato motivetto.
Anche se ciò ci aveva allungato il percorso di un paio d’ore, avevamo deciso di scalare la cima, per poter osservare il golfo Termaico. Ai fini della nostra impresa quella deviazione era stata inutile, ma la possibilità di godere del vento fresco, dell’aria pura e della vista mozzafiato ripagava ampiamente lo sforzo.
«Se ti piace tanto, possiamo sempre piantare la tenda» disse la bionda guardandomi storto, dato che non accennavo a volermi alzare «Anzi, perché non ci trasferiamo qui? Costruiamo una bella casa, con un giardino, uno steccato perennemente da ridipingere e una cassetta della posta con i nostri nomi intagliati sul fianco.»
Per quanto fosse chiaramente un’ironica provocazione, non potei fare a meno di sorridere di cuore a quell’idea, al pensiero di vivere in un luogo tranquillo, in una dimora confortevole, in compagnia di una persona tanto speciale.
«Sveglia!» mi riportò coi piedi per terra l’archeologa, iniziando a schioccare le dita davanti al mio naso «Mel? Sei ancora tra noi?»
Le sorrisi e annuii, lasciando che tendesse una mano per issarmi.
Vasilika era la nostra tappa successiva e, sperando non scoppiasse improvvisamente a piovere, vi ci saremmo giunte nel tardo pomeriggio, dopo aver affrontato il lato sud della montagna.
Percorrendo i poco frequentati sentieri, iniziammo la discesa, intrattenendoci coi discorsi più vari.
«Stavo pensando di darmi un soprannome, sai?» mi comunicò la Covington, mentre eravamo intente a sciacquarci mani e viso in un torrente che attraversava il nostro percorso.
Rimasi in silenzio, in attesa di scoprire dove volesse arrivare con quel ragionamento.
«Qualcosa di altisonante» riprese, cercando l’approvazione nei miei occhi «Così che le generazioni future si ricordino di me e delle scoperte che ho portato alla luce. Dopotutto, Xena si faceva chiamare Principessa Guerriera, perché io non posso emularla?»
«Perché lei è la mia antenata» feci presente.
«Sottigliezze…» commentò con noncuranza «Che te ne pare di Tomb Raider, razziatrice di tombe? Suona bene.»
«Non ricorda molto quello che faceva tuo padre?» sottolineai.
La bionda sbuffò, sollevando leggermente una ciocca di capelli che le era finita sugli occhi. «Allora cambierò il mio nome con qualcosa di più memorabile…» meditò «Montana Smith! No, no, anzi, Dakota Williams» stabilì, sebbene non del tutto convinta. Non feci in tempo ad aprire bocca che esclamò: «Oh, Virginia Sanders, questo mi piace!»
«Indiana Jones?» proposi.
Mi scoccò un’occhiata scettica. «Indiana Jones? Sul serio? Che razza di nome sarebbe? Nessun archeologo con un briciolo d’orgoglio si farebbe mai chiamare così.»
Non mi rimase che tacere, mentre lei proseguiva nel suo sproloquio su come le mie idee fossero sempre meno brillanti delle sue.
Era talmente presa dal proprio monologo, che fui io la prima ad accorgermi dell’uomo che ci stava aspettando, imbracciando il fucile, sull’attenti, a distanza di qualche tornante. Mano a mano che accorciammo il divario potei notare diversi particolari: era giovane; indossava una divisa tedesca, piuttosto ben tenuta, nonostante dovesse, ipotizzavo, aver affrontato un’ardua salita per giungere fin lì; aveva i capelli corti, come ci si sarebbe aspettato da un milite qualsiasi, di colore chiaro e non aveva neppure un accenno di barba; i suoi occhi celesti ci scrutavano con finta indifferenza, stava valutando se fossimo un potenziale pericolo. Ciò che mi sorprese di più fu il trovarlo solo. Sospettai che i suoi compagni di pattuglia fossero appostati fuori dal sentiero, ma non c’erano molti nascondigli dato il tratto privo di alta vegetazione.
Quando ci arrestammo di fronte a lui, che non si era mosso di un solo passo, notai Jan portare la mano alla pistola, mentre da sotto la tesa del cappello il suo sguardo guizzava da me allo straniero.
Fissandoci con le iridi glaciali, serrando le dita attorno all’impugnatura dell’arma, il soldato pronunciò una frase in tedesco, che sembrò rimbombare minacciosamente fino a valle.
«Parlagli in greco e digli che non lo capiamo» sussurrai alla mia compagna, nel timore che lui, non vedendoci reagire, decidesse di freddarci senza troppe cerimonie.
«Vuole che gli consegniamo tutti i soldi e gli oggetti di valore che abbiamo con noi» mi rispose l’archeologa senza scomporsi.
«Tu parli tedesco?» domandai incredula «Da quando?»
«Da un po’, lo comprendo e so articolare qualche frase. Imparare gli idiomi locali è importante quando si lavora sul campo, mio padre ed io abbiamo passato quasi un anno in uno scavo in Germania…»
Il militare si schiarì la gola per richiamare la nostra attenzione. «Eseguite l’ordine» ringhiò.
Mi sorpresi di sentirlo parlare inglese. Il suo accento straniero non era molto marcato ed inoltre sembrava capire bene la nostra lingua.
«Non abbiamo niente che ti possa interessare» replicò la bionda, tornando a concentrarsi sul potenziale nemico «Lasciaci passare.»
Vidi il giovanotto vacillare, come se fosse indeciso sul da farsi, ma, con voce stentorea, ribadì: «Non posso. Consegnatemi il denaro.»
«Dov’è il resto del tuo plotone?» tentai di distrarlo, mentre sbirciavo la Covington armeggiare con la fondina.
«Non è affar tuo» fu la risposta secca.
«Io dico che sei un disertore» proseguii «Troppo codardo per appoggiare la causa del tuo Paese. Sei scappato piangendo come un poppante e adesso ti tocca sopravvivere derubando gli sventurati passanti?»
La sua sicurezza si dileguò in un lampo, udendo le mie parole. Decisi allora di dargli il colpo di grazia: «Levati di torno, brigante.»
Il soldato abbassò il capo e il fucile, scostandosi. Quando gli passai accanto, mi afferrò un braccio e mi costrinse a voltarmi verso di lui.
«Vi prego» mormorò «Aiutateci.»
Janice scattò come una molla. Estrasse la pistola e gliela puntò alla testa. «Lasciala andare» ordinò «O ti faccio saltare le cervella.»
Feci scivolare lo sguardo su di lei. Mi sembrava di vedere scintille crepitare nell’aria. Era pronta a lasciare che la sua rabbia si scatenasse. Era pronta ad uccidere. Era pronta a quel gesto solo per proteggermi.
Sentii la presa su di me svanire immediatamente. «Ti supplico, non farmi del male» piagnucolò il giovane, portando le mani a coprire il volto, lasciando che la propria arma cadesse con un lieve tonfo.
«Chi è che dovremmo aiutare?» sbuffò Jan, senza abbassare il revolver.
Il tedesco sollevò la testa, spalancando gli occhi chiari, colmi di stupore.
«Hai parlato al plurale» continuò la mia amica «Chi altro è coinvolto?»
«State viaggiando da sole?» bisbigliò con un filo di voce.
«Non mi hai risposto» sottolineò la Covington, avvicinando la canna di metallo al volto di lui «Le domande le faccio io.»
«Va bene, va bene» cedette lui, alzando le braccia in segno di resa.
«Parla allora!» intimai io.
«C’è un mio amico» cominciò a spiegare «Ci siamo stabiliti in un rifugio non molto lontano da qui, ma qualche giorno fa è stato ferito da una pattuglia in ricognizione, gli hanno sparato ad una spalla e abbiamo bisogno di soldi per permetterci l’intervento di un medico.» Pronunciò quella frase quasi senza prendere fiato, travolgendoci con il fiume di parole.
«Portaci da lui» disse l’archeologa, abbassando un po’ la pistola «Se quello che dici è vero, gli darò una mano. Se dovessi scoprire che ci hai mentito, ti aprirò un’altra bocca in faccia e potrai provare a dirci la verità con quella.»
Lui deglutì rumorosamente ed annuì.
«Facci strada.»
Raccolsi il fucile e li seguii.
Abbandonammo il sentiero principale, iniziando a muoverci nell’erba alta che cresceva rigogliosa su quel lato della montagna.
Dovemmo risalire un po’ la china, inoltrandoci in una macchia boscosa, seguendo il soldato che avanzava rigido, incalzato dal revolver, ancora puntato contro di lui.
Percorrendo quella che poteva essere una pista di cinghiali, giungemmo in vista di una piccola cabina di caccia. Un sottile filo di fumo si levava dal rudimentale camino, disperdendosi poi tra la vegetazione. Se non fosse stato per quel particolare, la capanna si sarebbe mimetizzata alla perfezione.
«Mel» mi chiamò la bionda «Prendi la pistola e dammi quell’affare.»
Le consegnai il fucile e la osservai spalancare la porta con un calcio, pronta a fare fuoco nel caso di una reazione dall’interno.
«Herb, sei tu?»
«Sì, Jason» si fece sentire il tedesco «Ho portato aiuto.»
Allungai il collo per osservare l’interno del rifugio. Oltre al piccolo fuoco scoppiettante nel caminetto, non c’era gran che. Oggetti di uso quotidiano e attrezzi per la caccia erano accatastati da un lato, dall’altra parte, invece, c’era un letto sfatto, con diverse coperte ammucchiate. Seduto sopra quella pila stava un uomo, circa dell’età del soldato, con una ben visibile fasciatura insanguinata alla spalla sinistra. Aveva il volto pallido e scavato, reso ancora più spettrale dalla scura barba incolta.
«Abbiamo ospiti? Se lo avessi saputo avrei tirato fuori il servizio buono!» esclamò, mettendosi in piedi a fatica «Non ci sarà bisogno di quello» proseguì indicando il fucile «Non siamo pericolosi.»
«Non si è mai troppo prudenti» replicò Janice, ciononostante, abbassò effettivamente l’arma e poco dopo la appoggiò alla parete.
Vedendo quel gesto, lasciai che i due amici potessero riunirsi.
«Stai bene?» domandò Herb, cingendo l’altro con un braccio.
«Peggio di ieri, meglio di domani» rispose Jason «Temo che la ferita si stia infettando.»
Con estrema delicatezza, il biondo sciolse il bendaggio, esponendo una porzione di pelle gonfia e sanguinolenta. La Covington osservava attentamente a pochi passi di distanza.
«La zona è molto calda e mi fa male ogni volta che faccio anche movimenti minimi» si lamentò il ferito.
«Avete estratto il proiettile?» chiese Jan.
I due si voltarono verso di lei e scossero la testa simultaneamente.
«Era la prima cosa da fare» disse, colmando lo spazio che la separava da loro «Dobbiamo rimediare immediatamente.»
Ubbidienti, noi altri ascoltammo le sue istruzioni.
«Non ho nulla con me per sedarti, quindi ti anestetizzeremo la spalla con acqua fredda, dato che non ho visto neve o ghiaccio nelle vicinanze. Arroventerò il coltello per sterilizzarlo e lo userò per levarti la pallottola e poi cicatrizzare più tessuto possibile, per impedire che l’infezione si diffonda. Alla fine vedrò se sarà il caso di ricucirti, ma ti auguro di no perché dovrei fare tutto con strumenti di fortuna.»
All’udire quel discorso, Jason si fece ancora più terreo e crollò seduto sul letto, seguito a ruota da Herb, che aveva paura di vederlo svenire.
«Non sarà un’esperienza piacevole, ma potrebbe salvarti la vita» concluse l’archeologa, incrociando le braccia.
Iniziammo a predisporre il tutto. L’operazione avrebbe avuto luogo dentro la capanna, nella speranza che le pareti attutissero le urla che sarebbero certamente state lanciate. Io fui incaricata di riempire una serie di secchi con la gelida acqua di un laghetto poco distante che solitamente i due usavano per lavarsi e fare scorta di liquidi.
Jason fu fatto sdraiare su una coperta accanto al focolare, Jan era china su di lui.
«Ti disinfetterò con un po’ d’alcol» disse, estraendo la fiaschetta  dalla giacca «Te lo darei da bere per stordirti, ma così sarà più utile.»
Herb, dopo aver sterilizzato il coltello, come gli era stato chiesto, si sedette accanto all’amico prendendogli la mano. «Andrà tutto bene, vedrai» sussurrò per rassicurarlo.
Gli occhi del ferito, lucidi per le lacrime di dolore, brillarono di una luce diversa e le sue labbra si incurvarono in un lieve sorriso, carico di significato.
Fu allora che compresi il profondo, sincero affetto che li legava. Avrei voluto indagare più a fondo, ma la situazione stava per farsi delicata e non era il momento adatto per discutere la natura del loro rapporto.
«Mordi questo» ordinò la Covington, passando una striscia di cuoio al paziente «Dovrebbe aiutare a smorzare le urla.»
Lui annuì e strinse i denti.
Nel silenzio più totale, presi a passare pezze imbevute di acqua fredda attorno alla ferita. Sentivo guizzare i muscoli sotto le mie dita, tormentati da quel semplice contatto.
Quando ebbi concluso di preparare la zona, fissai Janice, tesa e concentrata, pronta ad eseguire l’operazione. Si voltò un istante nella mia direzione, come se cercasse conforto. Mi venne naturale sorridere. Sapevo che nei miei occhi stava brillando la stessa scintilla che avevo scorto in Jason e il mio sorriso si allargò vedendo una reazione simile guizzare nelle iridi color smeraldo.
Senza indugiare oltre, la punta del coltello penetrò la carne arrossata.
L’uomo sdraiato si contrasse come se fosse stato gettato tra le fiamme degli Inferi. In un primo momento tentò di divincolarsi, ma io gli tenevo immobilizzato il braccio sinistro, mentre quello destro era trattenuto da Herb, che gli teneva a bada anche le gambe, serrate in una morsa ferrea con le proprie.
Jason addentò con sempre maggior forza il pezzo di cuoio, ma ciò non bastò a fermare i suoi gemiti che trovarono comunque il modo di proruppero con forza, facendomi a tratti gelare il sangue.
La Covington non parlava, troppo assorta nel delicato compito che si era accollata. Aveva inciso la pelle per allargare leggermente la lesione, per potersi muovere in modo da arrivare alla pallottola.
Dopo una decina di minuti i tentativi di ribellione iniziarono a fiaccarsi, ma ripresero con più tenacia non appena l’improvvisato chirurgo torse lievemente il coltello.
Intuii che dovesse aver trovato il proiettile.
I minuti che seguirono furono interminabili. Jason ringhiava, gemeva e piangeva, ad istanti alterni, ed Herb soffriva con lui nel vederlo in quello stato. Io cominciavo ad essere stanca, ma dovevo resistere per infondere coraggio a Jan che, decisamente più provata di me, era intenta a concludere l’operazione.
Un tintinnio mi fece tirare un sospiro di sollievo, mentre un pezzetto di metallo rotolava lontano da noi.
Sempre senza proferire parola, l’archeologa afferrò una pezza ed iniziò a ripulire la zona dello squarcio, poi vi versò sopra tutto il contenuto della fiaschetta.
Il paziente tentò un’ultima volta di liberarsi, ma infine, devastato da quegli sforzi, si abbandonò sulla coperta senza più opporre resistenza.
Durante quella insperata calma, Janice estrasse da un borsellino un piccolo ago e lo scaldò velocemente sulle fiamme, poi, preso un filo, con precisione ricucì i bordi del taglio. Concluse risciacquando ancora una volta la lesione, prima di abbandonarsi, con uno sbuffo, all’indietro finendo con la schiena a terra.
Scattai per soccorrerla, ma vidi che stava sogghignando.
«Alla faccia di Nancy Green!» gridò prima di scoppiare a ridere.
La studiai con aria interrogativa, prestando molta attenzione alle lacrime di sollievo che avevano iniziato a scorrerle lungo le gote. «Chi sarebbe questa Nancy?» chiesi.
«Quella boriosa insegnante di cucito che diceva che non ero buona a rammendare neppure un calzino» spiegò d’un sol fiato «Dovrebbe vedere che splendido lavoro ho fatto, vecchia megera!»
Lasciando la mia amica rotolarsi ancora tra risate e pianto, portai la mia attenzione sui due giovanotti. Jason era distrutto, forte appena da respirare e non precipitare nell’incoscienza. Al suo fianco, il tedesco lacrimava copiosamente, alternando sussurri di frasi di conforto a delicati baci sulle mani dell’altro.
«Grazie» mormorò quando mi avvicinai «Io vi ho minacciato, ho cercato di derubarvi e voi gli avete salvato la vita.» Le parole erano incerte, biascicate, ma molto sincere. «Non so neppure i vostri nomi.»
Mi resi conto che era vero, era accaduto tutto talmente in fretta che non avevamo avuto modo di introdurci in modo appropriato. «Sono Melinda Pappas» posi immediatamente rimedio «E la coraggiosa donna con me è Janice Covington.»
Il biondo sorrise. «Io sono Herbert Schwarz» disse «E l’uomo che avete salvato è Jason Davies.»
«Io non ho salvato proprio nessuno» sottolineai bonariamente «È Jan che ha fatto tutto il lavoro.»
«Proprio così» si fece sentire l’archeologa, con un rantolo.
«Ad ogni modo» riprese il soldato «Vi saremo eternamente grati.»
Non appena quella frase venne pronunciata, un poderoso tuono rimbombò nell’aria, scuotendo le pareti della cabina. Le nuvole nere che si erano addensate in mattinata avevano deciso di scatenare la furia di un temporale.
«Non potete rimettervi in marcia dopo tutta questa fatica e con questo tempaccio» ci fece notare Herb «Siete più che cordialmente invitate a restare con noi almeno fino a che le condizioni non saranno migliorate.»
«Rimarremo fino a che il tuo amico non si sarà ripreso e gli avrò potuto togliere i punti» intervenne nuovamente Janice, prima che io potessi prendere parola «Non abbiamo fretta di arrivare a Nea Poteidaia.»
«Nea Poteidaia?» mormorò Davies, schiudendo appena le labbra.
«Noi la conosciamo bene» disse il tedesco, stringendo ancora una volta la mano del compagno «Se le circostanze fossero differenti, vi accompagneremmo volentieri.»
Avevo un milione di domande che mi frullavano nella testa, ma la Covington ancora una volta mi zittì. «Prima di metterci a chiacchierare, che ne dite di sistemare un po’? Bisogna mettere fuori tutti questi panni imbrattati di sangue, così la pioggia li laverà per noi. In più, se ci permetterete di restare, dovremo pur ricavarci un buco in cui stare, quindi ci sarà da sistemare quella roba. E qualcuno dovrebbe preparare qualcosa di caldo da mangiare.»
Aveva ragione, così ci industriammo immediatamente per eseguire le sue direttive. Tutti insieme sollevammo Jason e lo coricammo sul letto, coprendolo per bene dopo avergli fasciato nuovamente la spalla. Lo convinsi a bere un po’ d’acqua e gli rimasi accanto mentre le due teste bionde si muovevano come impazzite per rimettere in ordine.
Quando il caos fu in parte marginato, Schwarz sistemò a scaldare un pentolino e vi mise in infusione una piccola garza contenente un pizzico di erbe secche. «Stupido Jay e la sua maledetta ora del the» si lamentò scherzosamente «Quanto odio gli inglesi.»
Una volta che la bevanda ebbe bollito abbastanza, il milite la suddivise in quattro improvvisate tazze. Bevemmo tutti avidamente per allontanare il freddo che il maltempo aveva portato con sé. La maggior parte delle coperte era sul letto per tenere al caldo il convalescente, quindi noi altri dovevamo accontentarci del fuoco e delle trapunte rimaste.
Dopo una mezz’ora, Jason crollò addormentato e con lui l’archeologa, la cui testa ciondolava pigramente da svariati minuti. Herb si occupò di verificare che il compare stesse comodo ed io, analogamente, feci coricare la mia amica, poggiandole il prezioso cappello accanto, di modo che potesse riposare meglio, poi entrambi tornammo a sedere davanti al camino scoppiettante.
«Allora» iniziai, curiosa «Posso sapere come vi siete conosciuti?» Non avevo bisogno di spiegare a parole che avevo capito la loro situazione e dal sorriso che il mio interlocutore mi rivolse fu chiaro che avesse inteso.
«Parliamo di molti anni fa» cominciò «Circa una ventina. Dopo la Grande Guerra, il governo decise di fondare Nea Poteidaia nei pressi di dove un tempo era sorta la famosa città antica, così, con la collaborazione inglese, fu dato il via ai lavori. Il padre di Jay, furbo imprenditore, decise di investire un’ingente somma nel progetto e, per assicurarsi che tutto filasse liscio, decise di far venire da Vienna un noto architetto per orchestrare il tutto. Fu così che, quindi, mio padre, mia madre, le mie sorelle ed io ci trasferimmo qui in Grecia. Stiamo parlando del 1922, all’epoca avevo cinque anni e rimasi molto sconvolto dal dover lasciare la mia bella casa in città per venire a vivere in una catapecchia a ridosso del mare, in una terra di cui non conoscevo niente. Iniziai ad imparare il greco e l’inglese, dato che la maggior parte delle persone che mi circondavano parlavano quelle due lingue.»
«Quindi sei austriaco» osservai ad alta voce, interrompendolo «Scusa se fino ad adesso ti ho arbitrariamente immaginato tedesco.»
«Ti ringrazio per queste parole» replicò «Non vorrei mai essere accomunato a quella manica di esaltati che ha dato il via a questa sanguinosa ed insensata guerra.»
Osservai la sua divisa e gli feci un cenno, indicando i simboli del Reich, che, sebbene consumati, erano ancora visibili.
«Arriverò a spiegare anche questo» mi assicurò «Ma torniamo al principio… Dunque, ero ancora piccolo, ma mia madre insistette affinché iniziassi ad essere istruito, così venni inserito in una classe privata in cui un istitutore si premurava di fare da insegnante ai figli dei dignitari stranieri. Tra gli altri allievi c’era anche Jason. Lui era il maggiore dei ragazzi presenti, aveva nove o dieci anni e ormai parlava correntemente sia l’inglese sia il greco dato che viveva là da quasi un anno. Lui e suo fratello minore avevano dato il via a quel programma scolastico e capitava spesso che si prendessero cura degli studenti nuovi e un po’ più incapaci, tra cui naturalmente svettava il sottoscritto.»
Ridacchiai al pensiero di un giovane Herb, intestardito perché non riusciva a comprendere tutte le nuove nozioni.
«Così iniziammo dapprima ad essere compagni di scuola, poi, col passare del tempo, divenimmo compagni di giochi» proseguì nel racconto «Non c’erano molti altri austriaci o tedeschi, quindi, per necessità, fui inglobato dalla cricca inglese e ciò mi permise di trascorrere molto più tempo con i fratelli Davies. Data la costante espansione del piccolo centro, mio padre decise di non fare ritorno in patria e si stabilì permanentemente a Nea Poteidaia e lo stesso fecero i signori Davies, permettendo a me e a Jay di legare ancora di più. Trascorremmo l’adolescenza sempre insieme, forgiando e rinsaldando quel legame speciale che ancora condividiamo.» Pronunciò quell’ultima frase come un bisbiglio, quasi avesse paura che qualche orecchio indiscreto potesse coglierla.
Gli portai una mano sulla spalla e gli sorrisi, pregandolo silenziosamente di continuare.
«Poi, però, giunsero notizie da lontano dei piani della Germania e di ciò che sarebbe potuto succedere a breve. Per nostra fortuna, Jason non fu costretto al sevizio di leva, perché il padre fu abbastanza influente per far sì che proseguisse con gli studi e nessuno gli desse fastidio, ma quando venne il mio momento, dovetti partire, perché l’Austria, soggiogata dai nazisti, pretese che la mia famiglia facesse ritorno e che io mi unissi all’esercito. Concluso il mio anno di addestramento, la guerra era ormai alle porte, così feci pressioni per essere mandato in servizio in Grecia. Giunto qui venni assegnato ad uno squadrone con il compito di esercitare il controllo sulla penisola di Kassandra, quella collegata alla terraferma dall’istmo di Potidaea, appunto. Dunque tornai a casa, dopo quasi due anni che mancavo e scoprii che la maggior parte degli inglesi ormai viveva in un quartiere isolato e cercava di tenersi alla larga dalla vita cittadina per paura di rappresaglie. Il signor Davies era stato arrestato con false accuse ed era tenuto prigioniero dal presidio di Salonicco e Thomas, il fratello di Jason, aveva cercato di ribellarsi a quell’ingiustizia con il risultato di finire in manette a propria volta.»
Mi voltai ad osservare il cumulo di coperte che si sollevava ed abbassava a ritmo del lieve respiro dell’inglese. Anche lui aveva avuto una vita molto travagliata e così sarebbe stata ancora a lungo.
«Jay e la madre passavano le giornate rintanati in casa e quando l’Inghilterra entrò ufficialmente in guerra con il Reich, lui fuggì qui sulle montagne. Appena ebbi la possibilità, scappai anche io, raggiungendolo e marchiandomi a vita come disertore. Siamo rintanati qui da più di un anno e viviamo con poco, lo stretto indispensabile nell’attesa che questo assurdo conflitto finisca. Ogni due settimane circa, vado a fare provviste a Chortiatis o a Peristera, lasciando che Jason nel frattempo piazzi qualche trappola o svolga le faccende qui, perché in città se una pattuglia dovesse catturarlo lo ucciderebbe senza esitare, mentre io posso ancora spacciarmi per un soldato. È stato durante uno dei suoi giri che è stato colpito. Ero andato a comprare un po’ di cibo in scatola» e così dicendo indicò una pila di lattine «E quando sono tornato lui era seduto lì, sorridente, con un braccio imbrattato di sangue. Mi ha spiegato che un piccolo gruppo lo ha sorpreso a piazzare un laccio vicino al sentiero e quando gli hanno fatto una domanda in tedesco, lui, senza pensarci, abituato a dialogare con me, ha risposto in inglese. A quel punto hanno tentato di fermarlo, ma lui si è messo a correre e quando si è voltato per vedere se li avesse seminati, si è beccato la pallottola. Fortunatamente, conosce questi boschi e queste vallate meglio di chiunque altro ed è riuscito a filarsela. Non so cosa avrei fatto se, una volta rientrato a casa, non lo avessi trovato.»
Herbert aveva gli occhi lucidi, sull’orlo delle lacrime. Immaginavo quanto potesse fargli male quel pensiero, anche io avrei sofferto se, per esempio, tornando alla mia ideale casa sulla cima del monte, non avessi trovato Janice.
Vedendomi assorta nei miei pensieri, il biondo sorrise, lanciando una fugace occhiata all’archeologa, e mormorò: «Sono certo che tu capisca quello che intendo.»
«Oh, sì, cioè, no, insomma, più o meno» balbettai, confusa «La situazione è diversa» mi affrettai a spiegare «Ma ho compreso ciò che vuoi dire.»
Lui inclinò lievemente la testa, poi rispose: «Scusa, mi era sembrato che… Insomma, mi sono sbagliato, chiedo perdono.»
Agitai la mano come per allontanare quell’ultimo scambio di battute.
«Allora, cosa porta due giovani donne coraggiose da queste parti, dirette a Nea Poteidaia?» mi chiese.
Gli narrai brevemente come la nostra avventura avesse avuto inizio in Macedonia e come poi avessimo deciso di proseguire insieme per continuare la ricerca delle pergamene di Xena.
«Quando eravamo piccoli, ogni tanto giocavamo tra le vecchie rovine» mi rispose «Sono qualche chilometro a sud rispetto alla città moderna, ma la gente si tiene alla larga, si raccontano le solite storie di templi e maledizioni. Solo i ragazzini testardi si ostinano a gironzolare là attorno, persino i soldati si tengono a debita distanza.»
«Grazie per queste preziose informazioni» sbadigliai, stropicciandomi gli occhi.
Una mano si posò gentile sulla mia spalla. «Si vede che sei stanca anche tu» mormorò il soldato «Vieni, stenditi accanto a Janice.»
Mi aiutò ad alzarmi e mi accompagnò per quei pochi passi che ci separavano dalla biondina dormiente.
«Farò la guardia e metterò su qualcosa per cena, vi sveglierò tra qualche ora.»
I suoi occhi azzurri e il suo sorriso gentile mi rassicurarono e in pochi minuti mi addormentai.
Un profumo invitante arrivò a solleticarmi le narici, riportandomi nel mondo sensibile. Strabuzzai gli occhi notando le mani di Jan, ancora preda del sonno, artigliate al bordo della mia giacca. La sua testa, con i capelli un po’ scompigliati per le vicende appena passate, era appoggiata al mio petto e il resto della sua figura, rannicchiata, le faceva compagnia, incollata ai miei arti intorpiditi.
Herb, notando i segni del mio risveglio, si avvicinò, sussurrando: «Anche Jay dorme sempre così con me.»
«Ti serve una mano?» domandai, iniziando a muovere un braccio nel tentativo di liberarmi.
«No, stai pure comoda» mi tranquillizzò lui, prima di sogghignare.
«Non è divertente» borbottai «Sono prigioniera!»
Disturbata dal tono più elevato della mia ultima frase, la Covington emise un brontolio e si strinse ancor più a me.
L’austriaco scoppiò a ridere, poi mi fece l’occhiolino e tornò ad occuparsi della pentola sul fuoco.
Decisa ad aiutarlo e a sfuggire dalla presa dell’archeologa, facendo estrema attenzione, le schiusi le dita e scivolai qualche centimetro indietro. A quel punto, portai un braccio dietro di me per darmi la spinta necessaria ad alzarmi. Il mio arto funzionò come una molla ed in un lampo fui in piedi. Fu solo allora che mi resi conto del disastro: la mano che mi aveva dato la spinta non si era poggiata su un lembo di coperta, come avevo creduto, ma sul prezioso copricapo della mia amica.
Come svegliata dall’improvviso malessere del sacro cappello, Janice spalancò gli occhi e si trovò davanti il corpo del reato.
«Mel!» tuonò, fiondandosi con tutte le proprie forze contro di me «Questa è la volta che ti ammazzo!»
Arrivò a mettermi le mani al collo, poi si gelò, rendendosi conto di dove si trovava e soprattutto notando che il giovane Schwarz la stava fissando terrorizzato.
«Maledizione» ringhiò, lasciandomi andare e chinandosi a recuperare il suo tesoro «Guarda come lo hai ridotto…» si lagnò, risistemandolo.
«So che non sarà sufficiente» mugolai «Ma ti chiedo scusa ancora una volta…»
Lei mi lanciò un’occhiata obliqua, accompagnata da una smorfia severa.
Spalancai gli occhi e sbattei le ciglia, supplicandola in silenzio di perdonarmi.
Le labbra, incurvate verso il basso, si strinsero un momento, prima di schiudersi in un’ombra di sorriso. Le iridi verdi, brucianti d’ira, tornarono calme.
«Prepariamo la cena» sbuffò, superandomi in direzione del cuoco.
Herbert la lasciò passare e le affidò il cucchiaio con cui stava rimestando nel tegame. Ceduto il posto come chef, si avvicinò a me e mi diede un pizzicotto sul braccio, dato che mi ero incantata a fissare Jan che, persistendo in una finta arrabbiatura, si giostrava tra la pentola e la tovaglia che aveva steso per terra.
«Voi potete non esserne consapevoli, ma io so riconoscere una lite tra innamorati quando la vedo» mormorò, andando poi a svegliare dolcemente Jason.
«Tieni questa» mi ordinò la Covington, consegnandomi una padella «Vedi di non far del male anche a lei.»
Annuii, perdendomi nel riflesso argentato che brillava tra le mie mani.
Dai recessi più oscuri della mia memoria, emerse un ricordo legato ad un oggetto simile, qualcosa che aveva anche a vedere con una frusta. Parole ed immagini presero a mescolarsi, confondendomi. C’era anche Janice o qualcuno a lei molto somigliante in quella bizzarra danza senza senso. Mi domandai se, potendo essere ricordi di Xena, la biondina presente fosse Gabrielle, l’amica e compagna di avventure della Principessa Guerriera, nonché antenata della mia amica.
«Hai scambiato la mia frusta con una padella per friggere?» mormorai.
«Mel, hai detto qualcosa?» disse una voce, che giunse come un’eco distante alle mie orecchie.
Sbattei le palpebre, per trovarmi davanti una fanciulla dai lunghi capelli biondi, armata di bastone, con un luccichio divertito nei grandi occhi verdi.
Uno scappellotto mi fece ripiombare coi piedi per terra.
«Ouch» mi lamentai, massaggiandomi la nuca.
«Finalmente sei tornata tra noi» sbuffò Jan, strappandomi di mano la padella e poggiandoci dentro quattro spesse fette di un tocco di carne acquistato il giorno addietro «La prossima volta il colpo te lo darò più forte, sei avvisata.»
Rimasi imbambolata qualche attimo ancora, fino a che non fui affiancata da Herb, che mi sorrise con complicità.
«Non dire niente» sibilai, andando a disporre le posate per la cena e poi accomodandomi.
«Sono proprio carine» lo udii bisbigliare a Jason.
«Quasi più di noi» gli rispose lui.
«E voi due, signorine!» li chiamò all’ordine l’archeologa «Prendete posto e fate le brave.»
«A qualcuno piacciono le donne autoritarie» ridacchiò l’inglese, sedendosi accanto a me.
Alzai gli occhi al cielo, comprendendo che quella battaglia non avrei potuto vincerla.
Dopo una decina di minuti, tutti e quattro ci trovammo attorno alla tovaglia, con la bocca piena. Herbert aveva preparato una zuppa di verdure che, con il suo calore, ben si addiceva a quella serata gelida. La Covington aveva aggiunto ad ognuno un pezzo di affettato scaldato così da farne sciogliere il grasso per renderlo croccante.
«Una vera prelibatezza» commentai, pulendo il piatto con un pezzo di pane. Era un po’ secco, ma immerso nel fondo della minestra, acquistava una nuova e deliziosa vita.
Quando ebbi spazzolato la mia razione fino all’ultima briciola, diedi una mano a Davies che, con enorme fatica, stava tentando di spezzare la propria pagnotta sforzando anche il braccio ferito.
Concludemmo il pasto con una tazza di infuso, sempre ad opera dell’austriaco.
Una volta che le stoviglie furono lavate in un catino e riposte in attesa del giorno seguente, i due uomini uscirono per qualche minuto, con la scusa di dover svuotare la vescica e liberarsi dell’acqua insaponata.
Rimasta sola con Janice, ancora turbata da tutte le frecciatine lanciatemi dai nostri nuovi amici, cercai di evitare qualsiasi tipo di interazione, ma non potei sfuggire a lungo al suo sguardo indagatore, da cui traspariva che avesse intuito che qualcosa mi impensieriva.
Nel momento in cui vidi le sue labbra muoversi, pensai che avesse intenzione di mettermi alle corde, invece mi sorprese: «Sono davvero simpatici, due gran bravi ragazzi.»
Sgranai gli occhi, incredula. Non l’avevo mai sentita dire qualcosa di positivo su un altro essere umano, esclusa la sua famiglia e Xena.
«E si vede che si amano tanto» aggiunse, accennando un sorriso.
Cercai di celare quanto fossi sconvolta, annuendo.
«Ma noi due insieme siamo molto più carine di loro.»
All’udire quelle parole sentii le ginocchia cedere. Non c’era stata nessuna risata, nessun tono scherzoso, nessun indizio di sarcasmo. Sembrava un’affermazione e pure molto convinta.
«Non lo pensi anche tu?» domandò con aria apparentemente innocente, ma potevo immaginare gli ingranaggi del suo cervello girare come impazziti sotto il cappello ingegnandosi per farmi credere che quel quesito venisse posto con leggerezza.
Mi trovai confusa, disorientata. Non capivo se si aspettasse da me una risposta.
«Oh, andiamo!» esclamò, rompendo il mio persistente silenzio. Scattò in avanti, raggiungendomi ed agguantandomi le mani.
Sbiancai e spalancai la bocca nel tentativo di articolare un qualche pensiero coerente. Era accaduto tutto in una frazione di pochi secondi, non avevo idea di come comportarmi.
Il suo viso, così vicino, non aiutava i miei tentativi di concentrazione. Le sue splendide iridi verdi potevano leggere nel fondo della mia anima senza che riuscissi ad opporre resistenza ed ancora una volta provai quella sensazione familiare, come se tutto ciò fosse già accaduto in passato.
Non riuscivo a conciliare la furia che mi aveva assalito appena un’ora prima per averle pestato il cappello con quella figura quasi angelica che mi stava facendo perdere la testa.
«Te l’avevo detto io che dovevamo lasciarle sole un po’ di più.»
Mi voltai per vedere sulla soglia Herb e Jay che ci osservavano ridacchiando. Il biondo, che aveva parlato, mi fece nuovamente l’occhiolino.
Janice, con molta calma, si staccò da me e si concesse una risata lieve, come se le avessero appena raccontato un fatto spiritoso.
Tutto ciò non aveva senso, esigevo delle spiegazioni, ma fu subito chiaro che non le avrei ottenute. Lasciammo che il fuoco nel caminetto si andasse estinguendo e ci preparammo per la notte.
Uscii per prendere qualche boccata d’aria fresca, benché satura di umidità. Speravo che il gelo mi avrebbe aiutato a fare chiarezza, ma rimasi delusa e con la mente tanto ingarbugliata quanto prima. La Covington era tornata ad essere un enigma ambulante. Non potevo capire cosa volesse, perché si comportasse in quel modo o cosa avesse scatenato quel suo comportamento.
«Alle volte rifletti troppo.»
La voce alle mie spalle aveva ragione e ancora una volta mi chiesi se quella donna potesse leggermi nel pensiero.
«Forza, vieni a letto» mi disse la bionda, tirandomi gentilmente una manica.
«Chiamalo letto» brontolai «È una coperta stesa sul pavimento.»
Rientrammo ed augurammo la buonanotte ai nostri ospiti, dopodiché io mi sfilai la giacca, come al solito, e mi sdraiai rivolta verso l’archeologa.
La osservai levarsi gli stivali ed il cappello, secondo un rituale che ormai avevo imparato a memoria e che non potevo fare a meno di osservare incantata.
«Allora» sussurrò prendendo posto di fronte a me «Buonanotte, Mel.»
Deglutii, cercando di allontanare l’improvviso nodo alla gola nel trovarla di nuovo così vicina. Non potevo fare a meno di immaginare cosa sarebbe potuto succedere se non fossimo state interrotte.
«Basta rimuginare» ridacchiò la bionda «Ci saranno altre occasioni.»
Il mio cervello subì l’ennesimo blocco, che si sciolse non appena Jan scivolò tra le mie braccia e mi poggiò un delicato bacio sulla guancia, prima di lasciarsi dolcemente cullare nel sonno dal mio respiro.
«Questa è pazza» stabilii tra me e me, ma inspirando la fragranza dei suoi capelli e sentendo la mia pelle solleticata dal calore del suo fiato non potei fare a meno di pensare che quella sua imprevedibilità, forse, era il tratto di lei che più mi piaceva.
Mi addormentai tormentata da un’altra domanda: mi stavo forse innamorando della mia compagna di viaggio?

NdA: salve, cari lettori e lettrici, ben ritrovati. Spero che la storia fino ad ora vi sia piacuta e mi auguro che questo capitolo si sia dimostrato all'altezza del resto. Personalmente mi sono emozionata molto nello scriverlo, creare i personaggi di Jason ed Herbert è stato un vero spasso, mi auguro siano riusciti bene come spero. Ora, i miei soliti ringraziamenti: a chiunque stia continuando a seguire la storia, leggendo di volta in volta nonostante l'attesa delle due settimane, a wislava per tutto ciò che lei sa e a Stranger in Paradise, per essere sempre pronta a commentare imperterrita. Questo è tutto, gente, al prossimo aggiornamento, nel frattempo buona lettura e buone cose.
   
 
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