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Autore: miss potter    17/06/2016    4 recensioni
“Non devi nascondere il tuo corpo. Non c’è niente di sbagliato nel suo aspetto o nel modo in cui si muove, in cui lo muovi quando pensi che non ci sia nessuno a guardare…”
La voce di Magnus vantava la musicalità del canto di un usignolo.
“Sì, ma tu non chiamarmi tesoro.”
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Izzy Lightwood, Jace Lightwood, Magnus Bane
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Prese per mano Magnus e, quasi con passo solenne, lo condusse davanti alla porta di camera sua.
Si mordicchiò il labbro inferiore, una mano sulla maniglia di ottone opaco.

“Non è… niente di che. Solo—”

Ma lo Stregone di Brooklyn non gli permise di concludere la frase perché le sue labbra si erano già spostate su quelle del ragazzo appena più basso, la mano morbida e calda del Nascosto su una guancia rovente del Nephilim.

“Fammi vedere, e basta,” sussurrò Magnus sulle labbra di quest’ultimo.

Alec, senza parole né energia per ribattere, aprì la porta con le dita malferme della mano che non stringeva quella di Magnus. La sua camera da letto si presentava tanto spoglia quasi quanto una cella, un letto a una piazza e mezza era addossato su di un lato al muro bianco vicino ad una piccola finestra, poi un comodino con sopra un libro ed una abatjour, una poltroncina di pelle nera lisa, un armadio di ferro graffiato, ed infine una minuscola scrivania cosparsa di fogli bianchi, qualche arma e dei vestiti lasciati sullo schienale della seggiola: un vero carcere per i gusti più sopraffini e meno minimali di Magnus.

“Mi piace,” esordì, nonostante il naso arricciato.

Alec rise malinconico, appoggiando imbarazzato la fronte su una spalla poderosa di lui.

“La detesto anche io. Mamma non mi ha mai permesso di avere… poster, dischi, tanti libri come in qualsiasi stanza di un normale adolescente. Isabelle ha il permesso di tenere quella montagna di vestiti e trucchi in camera sua solo perché è una femmina, ne sono sicuro.”

Ed eccola di nuovo all’attacco, quella nota di soffusa invidia fraterna, che però non sfuggì a Magnus.

“Beh, vedila così. Più spazio di manovra.”

Ed ovviamente tale commento gli fece guadagnare il più che prevedibile scappellotto sul petto da parte di un sempre più disagiato Alec.

Magnus venne accompagnato all’interno della stanza e fatto sedere sul materasso sottile del letto rivestito da ruvide lenzuola bianche. Alec si chiuse la porta alle spalle, raggiungendolo subito dopo con gli occhi piantati sul pavimento in linoleum.

“Senti…”

Magnus lo osservava rilassato, decisamente tutto l’opposto di Alec, al contrario incapace a distogliere lo sguardo dalle unghie dei propri piedi scalzi. Anche questi presentavano diverse cicatrici, ad esempio quella di quando, in seguito ad una caduta durante un allenamento, si era rotto l’alluce a quindici anni.

Chiuse gli occhi, le mani strette a pugno sul grembo.

“Ti… devo essere sembrato maleducato, prima. Mi dispiace.”

Lo Stregone aggrottò le sopracciglia.

“Di cosa stai parlando?”

Alec si morse un labbro.

“Quando… sei comparso dal nulla sorprendendomi a… ballare. Ti ho ordinato di non parlare con nessuno di quello che avevi visto. Mi rendo conto di essere stato scortese. Mi dis—”

“Oh, Alexander…”

Magnus allungò entrambe le mani su quelle contratte del suo ragazzo, che in tutta risposta finalmente sollevò lo sguardo, confuso. Gli occhi felini del Nascosto brillavano di empatia.

“Non ti rendi conto che passi la maggior parte del tuo tempo a scusarti? E anche quando non lo fai a parole, te lo si legge nello sguardo. Sembri… terribilmente mortificato per qualsiasi cosa tu possa fare, o essere.”

Alec aprì le labbra per parlare, e si stupì quando da esse non riuscì a farne uscire nessun suono. Le serrò nuovamente, scegliendo di guardare l’intreccio delle loro dita dove il contrasto tra le due diverse carnagioni gli fece sorridere l’anima.

“Forse perché lo sono,” rispose dopo svariati secondi di silenzio.

“Come ti ho già ripetuto, non ne hai alcun motivo,” disse Magnus rafforzando la stretta. “Ti osservo, Alec. Ti osservo sempre. E… non prendermi per uno stalker, ma non posso fare a meno di notare il cambiamento nel tuo atteggiamento a seconda di chi ti sta di fronte.”

Lo Shadowhunter ascoltava con attenzione le parole del compagno, grato che questi avesse preso in mano le redini del discorso capendolo al volo, grato di non doversi spiegare oltre, di non vedersi costretto a mettersi a nudo più di quanto già si sentisse.

“Vedo come guardi Jace.”

Alec sollevò repentinamente lo sguardo, un’ombra di panico in esso.

“Magnus, non…”

“Lo so. Lo so che l’hai superata, quella fase,” gli sorrise sincero Magnus. “Tuttavia, non puoi negare che ti attragga ancora, nel suo… modo d’essere quello che è. E lo stesso con Isabelle. Quando combattono così come quando danzano, o sorridono o semplicemente parlano. Provi invidia nei loro confronti.”

Un pesante sospiro lasciò i polmoni di Alec, che a quel punto ritenne improduttivo e sciocco dissentire. Jace ed Isabelle erano sempre stati i cocchi dell’Istituto, sebbene poco più giovani di Alec. E Alec non era mai stato capace di ignorare gli sguardi di sottile delusione e rimprovero da parte dei suoi genitori quando non riusciva a rispecchiare i canoni e a colmare le aspettative. Sarebbe stato a capo dell’Istituto, un giorno, ed erano questi la sua vita, il suo destino. Avrebbe sposato una Shadowhunter, dato vita a una nuova famiglia. Sarebbe morto in battaglia, la sua persona sarebbe stata ricoperta di ogni onore e le sue ceneri si sarebbero mescolate a quelle dei suoi antenati. Avrebbe portato gloria e rispetto al nome Lightwood. Ma quando Robert e Maryse sorridevano in quel loro modo freddo di sorridere a Jace ed Isabelle, poteva percepire il peso della colpa che sapeva di portarsi addosso come un flagello, la colpa di essere diverso e goffo e insicuro. Immeritevole delle sue rune e del suo nome. Alexander, il protettore. Quando non si era mai sentito così tanto bisognoso di essere protetto, una volta ogni tanto.

“Quando mi guardo allo specchio,” cominciò, a voce bassa e malferma, “vedo una macchina da guerra, disegnata e costruita per massacrare e… ed essere forte, resistente, efficiente. Non riesco a vedere altro oltre questa pelle rovinata, oltre le rune senza le quali probabilmente non sarei nessuno. Non… ho la grazia di Jace, non possiedo il coraggio di Isabelle, e a volte—” e qui la voce si incrinò una volta per tutte, costringendo il ragazzo a guardare il soffitto per arrestare le lacrime. “Invidio persino mio fratello Max, per non esserci più, per non aver dovuto subire la crudeltà che lo aspettava al di là della propria infanzia.”

Magnus serrò la mascella. Non gli piaceva la piega che stava prendendo questo discorso, ma non lo interruppe.

“Non ha mai saputo cosa vuol dire dilaniarsi dentro, rinunciare a una parte di sé pur di appagare le speranze di chi tiene la tua intera carriera, la tua sola vita mortale tra le mani. Non ha mai dovuto incrociare gli sguardi di sospetto, di disgusto talvolta per i corridoi di questa dannata prigione, o i sorrisi falsi di circostanza. E io… ci ho provato, Magnus. Ci ho provato, e ho lottato, mi sono sforzato a…” un altro sospiro soffocato tra cuore e gola, “a guardare le ragazze. A parlare con loro, a… rispondere ai loro sorrisi, a… toccarle. Io non—”

Al che Magnus abbassò lo sguardo, come scottato dall’immagine del suo dolce Alexander così provato da una sofferenza con cui doveva avere a che fare ogni giorno. Era come guardare il sole, una stella avvolta nelle fiamme.

“Alexander, basta così…”

“No, io…” insistette il giovane, le guance segnate dai pesanti solchi delle lacrime, le mani grandi ma fragili, tremanti tra quelle di Magnus. “Io davvero mi sono impegnato, come fosse una parte di un allenamento, un dovere verso la mia specie, verso la mia famiglia. Una volta… c’era questa ragazza, Sylvia, che mi avevano presentato i miei genitori ad una festa. Indossava un vestito di pizzo bianco, che le ricadeva morbido sulle spalle e corto intorno alle ginocchia. Era bellissima. Bellissima.”

Magnus strinse le labbra assottigliandole in una linea tagliente, come se il pugnale che stava trafiggendo il petto di Alec avesse ferito anche lui.

“Ma mi resi conto che non stavo guardando lei, che non desideravo lei, Sylvia. Mi resi conto che… volevo solo allungare le dita su quel vestito bianco. Desideravo catturarne la leggerezza, provare a pensare a come mi sarei sentito io se… se solo—”

Al primo vero singhiozzo da parte di Alec, Magnus si voltò a fronteggiarlo, il viso a pochi centimetri dal volto sconquassato dalla vergogna del compagno.

Era sicuro – sperava – che da qualche parte ci fosse una pena abbastanza equa per chi facesse soffrire creature tanto belle e delicate come Alexander Lightwood. Se non su questa Terra, almeno all’Inferno.

“Alexander, guardami.”

Il ragazzo aveva perso la facoltà di proferire parola, ridotto a un ammasso di singulti incontrollabili e grosse lacrime ad inondargli le acquamarine incastonate nelle sue orbite. Alec guardò lo Stregone come un naufrago sull’unica scialuppa alla deriva in una tempesta in mezzo all’oceano guarderebbe una lingua di terra.

“Non c’è niente, assolutamente niente per cui tu ti debba vergognare, mi hai capito bene? Niente,” sibilò nervosamente lo Stregone, le dita ingioiellate intrecciate a quelle più spesse e callose, malferme dello Shadowhunter.

Questi strizzò le palpebre da cui colavano in piccoli rivoli le lacrime che ormai non aveva più senso cercare di arginare.

“Tu dici che invidio i miei fratelli perché non hanno paura di esprimere se stessi. Io li invidio perché non hanno alcun motivo per cui non farlo. Jace è l’incarnazione della mascolinità, fuggirebbe solo dinnanzi ad un indumento di colore rosa; Isabelle è… la bambola di casa, una bambola che può permettersi di tutto a parte il non essere notata. Non fanno scalpore le ali dell’eye-liner sui suoi occhi, o l’ombra del rossetto sulle sue labbra. Perché… è normale, è ovvio che una ragazza si trucchi, desideri indossare bei vestiti, come che un ragazzo non voglia altro dalla vita che l’ennesimo pugnale o set frecce di nuovo design per il suo compleanno. È… come se fosse scritto nelle stelle, che così debba essere.”

Magnus si limitò ad un pesante sospiro che tradiva anni, secoli di sopportazione della filosofia della “specie” a cui apparteneva Alec, il quale stava appena cominciando a rendersi conto di quanto fosse profondamente sbagliata e malata. Nessuna novità per l’immortale, una solfa  di cui si era stancato persino di indignarsi, oramai.

Prima di tornare a parlare, Magnus appoggiò la bocca contratta sulla linea della mascella umida di lacrime di Alec, in un bacio che poteva vantare la leggerezza di una farfalla.

“Alexander, dì soltanto una parola e ti porto via di qui.”

Il ragazzo socchiuse gli occhi, seguendo con un minimo movimento del collo quella carezza intima, andandole incontro, lo sguardo fisso nel vuoto dinnanzi a sé.

“Via dove?” Chiese.

“Via,” sussurrò Magnus lambendo con le labbra il mento del compagno. “Budapest, Los Angeles, Adelaide, Palermo… il mio loft.”

Se non fosse stato che un opprimente dolore lo stava strangolando, Alec ne avrebbe riso, di quell’invito. Invece, si limitò a sorridere amaramente, la vista offuscata da un pianto ridotto al silenzio.

“Magnus…”

“Vieni con me,” insistette lo Stregone, e finalmente il viaggio delle sue labbra trovò porto sicuro sulla bocca bagnata e corrugata in una smorfia di sofferenza del ragazzo dai tristi occhi blu. “Ti mostro la mia collezione di ombretti.”

Nonostante il groppo alla gola, questa volta Alec ridacchiò, genuinamente divertito dal disperato tentativo di Magnus di spolverare ilarità laddove non ci sarebbe stato spazio nemmeno per un nuvoloso sorriso. E quello di Magnus, posato sulle labbra distese del suo ragazzo, era il sole.

“Il mio scemissimo Stregone.”

Alec gli circondò le spalle con entrambe le braccia, spingendoselo addosso prima di accendere la miccia di uno di quei baci che ubriacano più di un falò estivo sulla spiaggia, il sapore di sale e alcol sulla lingua, il canto del mare dentro le orecchie, la notte stellata dietro le palpebre.

Magnus non poté che assecondarlo: gli assalì la bocca in un bacio assetato che avrebbe placato l’arsura delle parole che nemmeno in un altro secolo di vita avrebbe trovato per convincere Alec della sua sfolgorante bellezza. Come descrivere la sabbia ad un cieco? Non può capire che cos’è finché non gli si permette di affondarci le dita dentro.

“Alexander…” mugolò Magnus, mordicchiandogli l’arco di Cupido, il glamour nei propri occhi che lentamente calava. Alec si separò da lui solo per non perdersi lo spettacolo delle sue pupille che si assottigliavano. “Ti amo per quello che sei, e ti amerei anche se domani decidessi di indossare solo… gli orrendi tubini di tua madre, o continuassi a metterti magliette scolorite e jeans strappati. Ti amerei anche se mi rubassi i lucidalabbra, se ti tingessi capelli di verde, o se volessi bucarti le orecchie. Non capisci che ti amerei da morire che tu rimanga uguale a come sei ora o che tu voglia portare le scarpe di tua sorella?”

A quel punto, Alec abbassò lo sguardo, troppo imbarazzato, nonostante fosse appena più a proprio agio solo per il fatto di starne discutendo con la persona più importante della sua vita. Che poi, cosa aveva appena detto? Lo amava?

“Io amo il tuo corpo,” continuò Magnus portando due dita sotto il mento di lui, avvertendo il suo stupore. “Ogni… sua particolarità. Voglio conoscere ogni suo segreto, voglio memorizzare ogni costellazione di nei e cicatrici, intendo apporre segni miei su questa pelle…”

Il più giovane rabbrividì quando l’altra mano di Magnus si insinuò sotto l’orlo della sua maglietta, sfiorandone la porzione del fianco spigoloso e dunque la linea dura del costato. Troppo dura. Non come quella morbida e sensuale di Isabelle.

“Magnus… io—” balbettò lo Shadowhunter, la gola improvvisamente secca, le mani arpionate alla camicia setosa dello Stregone di Brooklyn.

“Cosa vuoi, Alexander? Qualsiasi cosa, io posso dartela.”

E all’improvviso, lo sguardo di Alec venne attirato da una piccola fiamma cobalto che cominciò ad ardere tra le dita del compagno, quelle stesse dita sepolte sotto la stoffa ruvida della propria t-shirt nera, rilucendo sotto di essa.

Gli si strinse lo stomaco.

“No,” disse deciso afferrando la mano dello Stregone e tornando a guardarlo negli occhi, serio. “Non voglio… cambiare quello che sono.”

Magnus aggrottò le sopracciglia curate, ed estinse la fiamma che bruciava fredda sui propri polpastrelli all’istante; ma se possibile, assunse un’espressione ancor più confusa quando Alec allungò una gamba per sedersi a cavalcioni su di lui, le braccia intrecciate dietro al suo collo.

“Quello che voglio è… essere guardato, veramente essere notato, voglio smetterla di essere una comparsa, il satellite oscurato dal sole” disse a bassa voce, le labbra appoggiate sulla conchiglia dell’orecchio di Magnus. “Voglio potermi muovere…”

E detto questo, lo Stregone dovette sopprimere un gemito quando Alec parve voler riprodurre sul suo grembo i movimenti su cui lo aveva sorpreso ad indugiare quella sera, però più lentamente e con una punta di pudore.
Gli accarezzò le anche sotto la maglia mordendosi il labbro inferiore, vinto dalla bramosia.

“Voglio potermi guardare allo specchio, ed amare quello che ci vedo riflesso,” continuò il ragazzo sforzandosi a non cedere alla vergogna. “Non voglio essere solo un soldato addestrato ad obbedire tutta la sua vita, che ha dimenticato la tenerezza e che non è in grado di sostenere lo sguardo della passione.”

“Alexander, tu giochi col fuoco,” lo avvertì Magnus, che ben conosceva i propri limiti. Dopotutto, nelle sue vene scorreva sangue di demone.

“Ed è per questo…” proseguì Alec, come se lo Stregone non avesse aperto bocca. “… che solo con te riesco veramente a sentirmi me stesso, nonostante l’imbarazzo e la paura di non essere abbastanza per i tuoi standard.”

E a quel punto, nemmeno Magnus parve più interessato alle parole del più giovane, mormorate con voce roca e inconsapevolmente seducente: gli baciò il collo, avvertendo sotto la pelle la carotide, pulsante e viva. Era commovente il pensiero di avere tra le braccia una creatura così viva, dopo tutti gli esseri sovrannaturali con cui era stato, che in un certo senso aveva anche amato. Ed i pensieri galopparono incontrovertibilmente su Camille, e alle loro notti assieme… Rammentava quegli abbracci ruvidi, la pelle liscia, ghiacciata come i loro baci che finivano per avere tutti lo stesso sapore, il sesso come routine ed i sentimenti ridotti all’osso.

Perché allora si stupiva di quanto con Alec gli sembrava di tornare a respirare dopo una eterna apnea?

“Ma guardati, guardati…” miagolò sulla linea della sua trachea, non sapendo più dove mettere le mani, dove posare lo sguardo. “Sei un angelo ribelle. E non potresti eccitarmi di più, sì?”

Alec deglutì aggrappandosi al corpo di Magnus con le membra tremule, un fiore che teme di sbocciare perché ciò significherebbe essere davvero ammirato; è ciò che vuole dopotutto, no? Finalmente maturare, cominciare a liberare la sua vera essenza.

Dopo qualche istante di tentennamento, le labbra tanto strette da perdere il loro color rosato, lo Shadowhunter si distanziò da Magnus tanto bastava per potergli restituire lo sguardo, e gli sprofondò il cuore nelle viscere non appena allacciò il suo con gli occhi di lui, simili a quelli di un felino a caccia. Si portò le dita, che ora tremavano visibilmente, sull’orlo della maglietta, facendo per sfilarsela…

Alec,” singhiozzò Magnus, impotente di fronte allo spettacolo del petto ora nudo del suo ragazzo, che sarebbe sempre rimasta una sua grande debolezza.

“Cosa vuoi, Mags? Qualsiasi cosa, io posso dartela…” disse Alec in una tenera e oscenamente insicura imitazione della proposta dello stesso Stregone di Brooklyn. Appallottolò la tshirt trattenendola tra le dita, come a coprire parte del proprio petto esposto; un piccolo rash cutaneo macchiava la zona pallida sotto una delle clavicole, a testimonianza dell’ansia e della difficoltà nell’affrontare questo enorme ostacolo che era abbassare la guardia.

Magnus abbassò lo sguardo, abbagliato, e tutto d’un tratto si sentì inconcepibilmente sporco, quasi indegno di posare gli occhi su una creatura così pura, innocente ed irresistibilmente ingenua.

Sollevò un palmo e lo fece aderire alla zona di epidermide sotto cui poteva quasi sentire il cuore di Alec martellare, impazzito, all’unisono col proprio.

“Non capisci, non immagini neanche le cose che fai alla mia testa, Alexander…” Il tono di voce era quello di un uomo sofferente, un affamato posto davanti ad un banchetto che sapeva di non poter nemmeno sfiorare senza rimanerci soffocato. “Mi farai diventare pazzo.”

  
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