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Autore: HannibalLecter    18/06/2016    1 recensioni
Liam Carter Wright è un giovane avvocato esperto in divorzi e furiosi litigi, tipico topo di città la cui unica idea di contatto con la natura comprende un dissetante cocktail servito in una noce di cocco, calda sabbia bianca e donne dalla pelle dorata dal sole.
Felicity Van Houten, testa tra le nuvole e lentiggini, invece lavora quotidianamente immersa nel verde e ogni sera si rifugia nella sua casetta di campagna alquanto malandata, circondata da un vero e proprio paradiso fiorito, che la tiene impegnata a tal punto da farle scordare di fare la spesa o pagare le bollette.
Il sole stava calando e tutto il giardino aveva assunto una deliziosa sfumatura aranciata. Diressi il getto dell'acqua verso il cespuglio di azalee e mi misi a canticchiare tutta allegra:
«Le rose sono rosse
le viole sono blu
Liam Carter Wright è una testa di cactus
e presto lo scoprirai anche tu!»
Passai al rododendro che tenevo in un bellissimo vaso di terracotta decorata e innaffiai abbondantemente anche lui.
«Miss Van Houten, lei è una poetessa sublime»
Mi voltai di scatto e mi trovai di fronte in tutto il suo splendore Mr. Testa di Cactus meglio conosciuto come Liam Carter Wright.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Liam

 

Per qualche strana ragione, nonostante detestassi con tutto il cuore qualsiasi cambiamento imprevisto apportato alle mie giornate accuratamente organizzate, mi era sempre piaciuto cogliere di sorpresa le persone.

Quella volta poi mi ero impegnato sul serio e lo avevo fatto in prima persona. Diane, negli ultimi due giorni, mi aveva osservato in silenzio mentre bisbigliavo al telefono per poi sparire all’improvviso dall’ufficio dandole l’ordine di deviare tutte le chiamate sul mio telefono cellulare. Più di una volta mi venne la tentazione di chiederle una mano o perlomeno domandarle un consiglio ma poi ritornai sui miei passi, ancor più deciso di prima a terminare il lavoro senza aiuti esterni.

Avevo dovuto recuperare le ore di lavoro perse nell’organizzazione di quella serata durante quella fascia oraria, dalle dieci all’una di notte, durante la quale solitamente mi dedicavo alle mie solitarie sessioni di running ma l’espressione di autentico stupore di Felicity aveva ampiamente ripagato il sacrificio e le ore di sonno in arretrato.

Ammirai soddisfatto il mio lavoro, anche se tecnicamente io mi ero occupato più della parte puramente economica e organizzativa, e abbassai lo sguardo per capire se la mia compagna si fosse ripresa o avesse ancora la bocca deliziosamente aperta a o.

Quello che vidi mi destabilizzò ancora di più: «Stai…stai piangendo?», le chiesi osservando il luccichio sospetto che appannava quegli occhioni e minacciava di dare il via ad una cascata da un momento all’altro.

Dopodiché successe qualcosa di ancora più inaspettato e sorprendente: Felicity iniziò a prendermi a pugni. Con gli occhi invasi dalle lacrime, lacrime che evidentemente non era affatto contenta di star versando, iniziò a colpire alla cieca il mio petto mentre tentava allo stesso tempo di trattenere i singhiozzi e riempirmi dei peggio insulti del suo vocabolario.

«Liam Carter Wright! Come ti permetti? No-non puoi fare…così! Cosa accidenti pensavi di combinare? Testa di un cavolfiore che non sei altro! Io-io…arghhh!», continuò a tempestarmi  di pugni sempre più deboli fino ad arrestarsi e ad abbandonare i palmi delle mani inerti contro il cotone chiaro della mia camicia.

Poi fece una cosa che non mi sarei mai aspettato da Ms. Van Houten, sempre molto allegra ma anche attenta a mantenere le distanze e ad assicurarsi che tutti stessero al proprio posto senza che le si avvicinassero più del dovuto. Fece un passo nella mia direzione e posò il capo contro la mia spalla, le sue mani sempre posate delicatamente sul mio torace.

Del tutto impreparato dall’inspiegabile svolgersi della situazione smisi di pensare alla precisa scaletta che avevo chiara in mente per quella serata e decisi di comportarmi in modo naturale, senza calcolare troppo quali parole avrei detto di lì a poco e quali azioni avrei compiuto. Allungai una mano e iniziai ad accarezzarle i capelli chiari. Li avevo sempre ammirati da lontano: lucenti e sempre costretti in mille acconciature disordinate. Quella sera li portava sciolti, a decorarle il capo come una cascata dello stesso colore del sole e dal dolce profumo di mandorla.

«Non ti piace? Posso riportarti a casa ora, se vuoi…», chiesi piano.

Lei non si mosse ma si limitò a sussurrare piano, solleticandomi il collo con il fiato. «No! Voglio restare. Lo voglio davvero. È solo che…che è tutto troppo bello. Ed è per me. Cioè almeno penso tu lo abbia fatto per me…E io…accidenti, lo sai benissimo che coltivo sogni romantici fin dall’asilo e vedere tutto questo, sembra troppo un sogno che diventa realtà per credere che sia tutto vero»

Abbassai lo sguardo e la vidi fissare con sguardo vacuo la pelle del mio collo prima di scuotere la testa e allontanarsi da me, assicurandosi di rimettere la solita formale dose di distanza tra i nostri corpi. «Liam…io apprezzo davvero tutto ciò ma, per favore, non aspettarti chissà cosa da me stasera. So che ora in teoria sono libera ma con Theo è finita da così poco che io…», aggiunse in modo frettoloso cercando di guardare dovunque tranne che nella mia direzione.

Una scarica di indignazione mi percorse da capo a piedi: con chi diamine pensava di avere a che fare? Non ero certo un animale guidato solo dai suoi istinti e non avevo certamente organizzato quella serata con chissà quale oscuro e perverso proposito.

Lei dovette percepire il mio risentimento, mi si avvicinò di nuovo e mi prese una mano tra le sue, stringendola lievemente. «Scusa, io non intendevo insinuare niente. Mi fido di te, Mr. Liam», mormorò scrutandomi attentamente negli occhi come alla ricerca di un segno di perdono.

La verità era che sembravo incapace di nutrire anche solo un’ombra di riprovazione nei suoi confronti, ci avevo provato ma avevo fallito miseramente. Quella ragazza poteva avere mille difetti eppure emanava una luce così accecante che tutti quelli venivano messi in secondo piano. Una grazia tale poteva essere solo un dono innato; quel suo modo, quasi casuale, con cui si prendeva cura delle persone, così come delle sue piante e del suo amato giardino, era meraviglioso nella sua totale naturalezza. Felicity, senza rendersene conto, col suo disordine e la sua smemoratezza era riuscita a dare un senso a quel caos che era stata la mia vita prima d’ora.

Lei ovviamente non poteva sapere, se non attraverso quello che io o quella pettegola di Judith le raccontavamo, quanto fosse desolata e priva di scopo la mia vita e quanto potente fosse stata la scossa che il suo arrivo aveva assestato a quest’ultima.  Era completamente all’oscuro del fatto che avessi richiesto al giudice minorile di rivedere il tipo di affido di Arabella, per poter ottenere più settimane in sua compagnia anche al di fuori del periodo estivo, o che avessi trovato un affittuario per il mio loft a partire da settembre, mese in cui mi sarei definitivamente trasferito a vivere nella restaurata casa di campagna del nonno. Non aveva idea di quante ore avessi trascorso in quel giardino, sua opera e creazione, a godermi i caldi raggi del sole e a domandarmi perché diamine scoprissi solo a trent’anni suonati la bellezza disarmante della natura e la pace che questa offriva.

 

La cosa divertente di tutto ciò è che era stata Mildred a farmelo notare. Qualche giorno prima, mentre io e Felicity seduti su una panchina del parco cittadino ci assicuravamo che Arabella non si spezzasse l’osso del collo nei suoi giochi scatenati in compagnia di altri piccoli teppistelli, lei mi aveva accennato brevemente al fatto che lei e Theodore si erano lasciati.

Colpa della distanza, o almeno credo. Così aveva detto. Non si era soffermata troppo sui particolari anche se mi aveva colpito il fatto cheavesse concluso dicendo che si sentiva sollevata per aver posto fine a quel rapporto.

Non era cambiato nulla dopo quel pomeriggio. Fino a due sere prima quando ero stato convocato a cena da Queen Mildred.

Come sempre aveva cucinato, o meglio aveva fatto cucinare, piatti tanto elaborati quanto poveri di grassi e di sapore e si era presentata a cena fasciata in un abito più adatto ad un incontro alla Casa Bianca che ad una semplice serata tra ‘amici’ ma stavamo parlando di Mildred quindi niente riusciva a stupirmi.

Gabriel, ormai esperto camminatore, aveva tentato per tutta la sera di sfuggire dal radar materno senza però riuscirci. Matt, leggermente alticcio a causa del vino ad alta gradazione che avevo portato, parlava un po’ a vanvera con l’unica conseguenza di irritare oltre misura la sua astemia consorte. Malefica, terribilmente stizzita dopo l’ennesima battutaccia del marito, aveva spedito Matt e il pargoletto a dormire e mi aveva rapito con la scusa di offrirmi un caffè. Mi aveva invece scortato in giardino dove si era accomodata su un divanetto in vimini  facendomi poi segno di seguire il suo esempio e sedermi accanto a lei. In segno di ribellione mi sedetti sì, ma di fronte a lei. Mai farle intendere di poterti comandare a bacchetta, il povero Matthew ancora ne pagava le conseguenze.

Dopodiché aveva accavallato le sue lunghe ed eleganti gambe e si era lanciata nella proclamazione dell’Ode a Felicity, brano poetico che a quanto pareva era caro a tutte le persone a me più vicine. Mildred, sempre avara in fatto di complimenti e lodi, mi raccontò come la sua iniziale opinione su Ms. Van Houten fosse cambiata radicalmente dopo averla conosciuta grazie al progetto di mettere a nuovo il giardino.

Effettivamente, cosa che avevo colto ancor prima di varcare la soglia d’ingresso ed unirmi alla loro tavola, il mio sguardo non aveva potuto fare a meno di notare come, dopo il piccolo intervento di Felicity, ogni singola fogliolina di quel verde giardino raccontava qualcosa della ragazza. Solo lei avrebbe potuto selezionare dei delicati vasi di terracotta smaltata dai colori dell’oceano, riempirli con le più rigogliose ed odorose piante officinali e disporli in una graziosa composizione che adornava il portico anteriore. Come solo un suo intervento avrebbe potuto trasformare lo spoglio muro di cinta in una cascata dalle tinte accese, grazie ad una serie di cassette in legno pensili contenenti una profusione di surfinie fucsia.

«Tu sai, Liam caro, che nonostante i tuoi mille difetti non ho mai mancato di apprezzare il tuo buongusto e il tuo indiscutibile stile. Perciò comprenderai la mia sorpresa quando, due martedì fa, si presentò alla mia porta colei che dichiarava di essere la giardiniera da te consigliatami. Portava una salopette di velluto tagliata al ginocchio, perdio! Una salopette, capisci? E aveva un modo di fare senza dubbio fin troppo brioso e pieno di entusiasmo. Chi mai si infervorerebbe in quel modo all’idea di sporcarsi di fango ed essere divorata da stupidi insettuncoli? Ho avuto poi modo di offrirle una limonata e scambiare con la signorina due chiacchiere riguardanti argomenti che esulassero da sementi e travasi. E sai cosa mi ha sorpreso? L’ho trovata terribilmente franca. Non parlo di una schiettezza che rasenta l’impertinenza ma piuttosto di un candore quasi infantile che le impedisce di nascondersi dietro un qualsiasi tipo di comportamento artificiale o costruito ad arte per compiacere altri. Ti sei accorto di come guarda sempre fisso negli occhi il proprio interlocutore? È sempre attenta, in un modo quasi premuroso, eppure, nonostante questa sua dolcezza l’ho trovata senza dubbio sveglia e dalla risposta sempre pronta. Ci credi che io stessa non ho potuto trovare nulla, vestiario a parte, che me la facesse risultare sgradita come mi succede praticamente con quasi tutte le persone con cui faccio conoscenza? E così dannatamente amabile quella creatura! Tutta sorrisi e capelli dorati. Non riesco proprio a capire perché tu non l’abbia ancora rapita e sposata!». Mildred pareva terribilmente infastidita e mi guardava con muto rimprovero. Leggevo nelle sue iridi chiare una palese accusa. Liam, zuccone che non sei altro, perché non ti accorgi mai delle cose che sono proprio sotto al tuo naso?

Le sue parole mi avevano lasciato interdetto, non solo per il loro contenuto ma piuttosto per il fatto che fossero state pronunciate proprio da quella donna. Donna a cui si potevano imputare molte mancanze ma certamente non quella di essere alquanto arguta. Mildred, nonostante tutto, era una persona molto realistica, che non amava girare per lungo tempo intorno ad una faccenda, preferendo piuttosto affrontarla di petto e risolverla. Qualunque fosse poi il risultato. Era una donna forte dopotutto. Forse fin troppo.

Mi passai stancamente una mano tra i capelli e allungai le gambe di fronte a me. Sospirai, non avevo ancora ben capito dove la mia interlocutrice volesse andare a parare alla fine. Quale era lo scopo ultimo di quel bel discorso?

«Potresti anche avere ragione ma non capisco cosa ti aspetti che faccia…», le risposi in modo interrogativo. Speravo potesse chiarirmi quel piccolo punto mancante che sembrava sfuggirmi. Felicity era un piccolo concentrato di virtù, questo era assodato, ma non capivo davvero come ciò potesse condurmi ad attenderla presso un altare nel bel mezzo di una natava adorna di fiori.

Mildred sbuffò e roteò gli occhi con fare esasperato, un comportamento decisamente poco da lei, sempre rigida ed attenta ad esercitare un controllo ferreo nei confronti dei suoi muscoli mimici. «Te lo devo davvero dire io?», esclamò guardandomi come per comprendere se fossi diventato idiota in quel momento o più semplicemente lo fossi sempre stato.

La verità era che quel pensiero lo avevo già accarezzato anche io. Forse solo nell’angolino più recondito della mia mente, forse solo in sogno, forse solo per una frazione impalpabile di tempo. Non ero certo saltato subito all’idea di metterle un bel diamante all’anulare, prenotare un volo per le Fiji e contattare un giudice di pace. Diciamo che avevo immaginato una vita insieme a quella donna dalla testolina tanto bionda quanto sbadata. O perlomeno mi ero interrogato riguardo ad una possibile quotidianità condivisa. Come avrebbe potuto essere? Impossibile? Facile? Felice?

Quella pallida idea, dopo le parole di Mildred, acquistò colore e spessore e iniziò a prendere pian piano possesso della mia mente. Quelle ultime settimane, dal punto di vista lavorativo, si erano rivelate estremamente improduttive. La presenza di Arabella e il pensiero di Felicity mi avevano distratto in un modo che, ne sono certo, Montgomery Van Houten non aveva mai permesso a sé stesso.

Ecco, Arabella poi non mi aveva di certo aiutato a semplificare quel già complicato quadro. No, perché sua figlia, notoriamente molto volubile e poco avvezza a mostrarsi cordiale con persone che non fossero i suoi genitori, e talvolta neppure essi, aveva adorato Felicity. La bambina pareva non aspettare altro se non le ore passate in compagnia della giovane donna e si era rabbuiata quando le avevo spiegato che la ragazza doveva lavorare e non poteva trascorrere tutto il tempo a mangiare fragole e rincorrere farfalle con lei. E quest’ultima si era comportata in maniera esemplare; era stata spontaneamente affettuosa, pronta a dedicarle generosamente il proprio tempo libero, senza però arrogarsi il diritto di comportarsi a mo’ di madre surrogata. Le aveva spazzolato i capelli soffici, avevano cantato insieme Lei it go piroettando a piedi nudi sull’ampio prato che separava la mia casa dalla sua, e aveva voluto bene alla mia bambina. E quest’ultima cosa non aveva potuto fare altro se non conquistarmi.

 

«Ti prometto che non verserò più una sola lacrima di coccodrillo questa sera. Ora possiamo avvicinarci?», mi domandò Felicity, un timido sorriso a curvarle le labbra.

Per un attimo rimasi a fissare quella bocca rosea e piena domandandomi se mai avessi avuto occasione di assaporarla. Anche solo per una volta. O anche per tutta la vita.

Invece di risponderle intrecciai le mie dita alle sue e mi diressi verso l’ingresso dell’orto botanico segnato da un arco di rose rampicanti, attorno a cui era stato delicatamente avvolto un lungo filo formato da tante piccole lucine iridescenti che brillavano nella penombra della sera e davano il benvenuto in quel piccolo paradiso di cui era il fiero custode.

Avevo insistito a lungo affinché il risultato fosse di sobria eleganza e l’atmosfera fosse leggermente fatata senza scadere in una messinscena pacchiana e palesemente costruita per apparire romantica. La presenza di romanticismo, ai miei occhi, dipendeva dall’attitudine delle due persone coinvolte piuttosto che da tappeti di petali di rose o striscioni con plateali dichiarazioni.

Il semplice vialetto d’ingresso, modestamente illuminato ai lati, conduceva al laghetto circolare e alla piccola pagoda rialzata, dietro alla quale si ergeva fiero un enorme salice piangente.

«Posso già dirti che finora tutto mi sta piacendo tantissimo e che sono contenta di essere stata rapita?», mi sussurrò all’orecchio, prima di ritrarsi veloce e lasciarsi andare ad una risata cristallina.

Era proprio questo che mi attraeva di lei, Felicity non lesinava complimenti od apprezzamenti e se qualcosa le piaceva non faceva altro che ammetterlo candidamente. Altre donne avrebbero atteso fino al momento finale, tenendo il proprio compagno sul filo del rasoio fino all’ultimo, prima di manifestare la propria opinione al riguardo. Felicity no, lei non aveva ancora visto il vero traguardo di quella serata, eppure si era già dichiarata felice e contenta di quello che finora era successo, riuscendo in un sol colpo a rassicurarmi e a regalarmi parte della sua gioia.

Mi sentii strattonare gentilmente e così mi decisi ad accelerare il passo per accontentare l’impazienza della mia accompagnatrice.

«Quel salice risplende come di luce propria. Caratteristica sospetta, non trovi?», mormorò tra sé prima di adeguare la direzione dei suoi passi in modo da raggiungere l’ampia e fitta cortina di fronde del salice in pochi passi. Attese un attimo e poi allungò lentamente la mano che non stringeva la mia e scostò con cautela quella rigogliosa cascata verde.

Uno spiraglio di luce si ritagliò sulle nostre figure mentre Felicity, con mio grande disappunto, abbandonava la mia mano e scompariva oltre la coperta di rami, escludendomi così all’esterno. Un paio di passi e anche io entrai in quel magico cerchio che avevo con tanta cura creato.

E successe di nuovo. Questa volta a parlare non fu un’esplicita frase della ragazza ma la sua espressione. Assoluto rapimento. Ruotava piano su sé stessa, come per assicurarsi che fosse tutto vero. Ed era tutto vero: quell’intima cupola all’ombra dell’antica pianta, quelle tante lanterne color crema che creavano giochi di calda luce tutt’attorno, quel semplice tavolo decorato con ogni sorta di prelibatezze.

«So che rimangiarsi le proprie parole non è propriamente un comportamento esemplare ma, accidenti Mr. Liam, dopo tutto questo io non ho quasi più fiato e non so se posso davvero fidarmi di te. O di me…», concluse, un tremore quasi impercettibile nella voce.

Non potei trattenere un sorriso nell’udire quelle parole. Immediatamente le dozzine di furiose telefonate con il servizio catering o quell’incompetente di un guardiano dell’orto botanico, le ore di lavoro perdute e gli appuntamenti posticipati, lo stress accumulato, i troppi caffè, tutto ebbe senso.

Un impertinente brontolio disturbò quel momento e mi resi conto con divertimento da chi provenisse. «Che ne dici se ci accomodiamo?», le proposi, scostando per lei la sedia dal tavolo e aiutandola a prendere posto.

Si lasciò andare ad un sospirò, «Sei così galante», commentò civettuola.

«E tu sei così adulatrice», ribattei prontamente, mentre andavo ad occupare il mio posto di fronte a lei.

La osservai sistemarsi i lunghi capelli dietro le spalle e dispiegare il candido tovagliolo in pregiata stoffa sul suo grembo. «Allora: cosa prevede il menù?»

 

Saziati nostri stomachi entrambi concordammo sulla necessità di una bella passeggiata al chiaro di luna. Lasciammo la nostra piccola bolla e ritornammo sotto il cielo stellato. Felicity si attardò un attimo a lanciare un’ultima occhiata alle sue spalle e a passare la mano tra le foglie fruscianti del vecchio salice. Pareva quasi un saluto.

Si diressero verso la riva, dove il laghetto silenzioso e buio abbracciava la sottile ghiaia che precedeva il dolce pendio d’erba che conduceva al giardino.

«Vedi quella pagoda? Ho sempre pensato che sarebbe stata perfetta per un matrimonio. Così esposta alla luce, così vicina all’acqua…», commentò indicandomi la piccola struttura in legno.

Ci avvicinammo lentamente, le nostre mani intrecciatesi quasi senza pensarci a non permetterci di allontanarci l’uno dall’altro.

Osservai le piccole guglie lignee che decoravano il tetto dalla forma a pagoda e aggrottai la fronte. Cosa c’entrava quello spigoloso particolare puramente gotico con le morbide curve del resto della struttura? Appesantiva la costruzione e la rendeva cupamente minacciosa, costellata di punte aguzze come appariva. «Mi pare più adatta ad un funerale. Si trova rivolta a nord, prospicente verso il lago in modo da riversare in esso le ceneri del defunto senza troppo disturbo. C’è persino un teschio intagliato nel legno del parapetto, guarda qui…», le mostrai, passando piano le dita su quel disegno abbozzato.

Una testolina bionda fece capolino da dietro la mia spalle e si sporse ad osservare la piccola figuretta macabra. «Uff, Mr. Liam, sei terribilmente pessimista! Diciamo allora che questo pare il posto adatto a celebrare i passi più importanti che caratterizzano i cicli della vita degli uomini?», mi concesse lei.

«Com’è magniloquente, Ms. Van Houten! E mi dica noi cosa vogliamo festeggiare?», le domandai cingendole la vita con un braccio e avvicinandola a me. Posai la guancia sul suo capo mentre sentivo le sue mani avvolgermi i fianchi e carezzarmi piano la schiena con fare distratto.

Alzò di colpo il viso e mi fissò, un ghignetto malefico stampato in volto. «Il tuo funerale? Pensa, c’è un teschio inciso da un qualche delinquente, chissà quale oscuro e funesto significato potrà mai avere! Secondo me è un segno premonitore, Mr. Liam, stai attento…», mi soffiò in pieno volto, prendendosi chiaramente gioco di me.

Mi finsi offeso e feci per allentare la mia presa sul suo corpo ma lei non me lo permise, alzando le braccia per circondarmi il collo e imprigionarmi. «Hai degli occhi enormi, Signorino Due Cognomi. Non li avevo mai osservati da così vicino…», mormorò poco dopo spezzando il silenzio.

Abbassai il capo per avvicinarmi al suo volto e le chiesi soffice: «Così come sono?»

Lei sorrise divertita e mi sussurrò lieve: «Giganteschi»

Diminuii ulteriormente la distanza che separava i nostri nasi e le posi la medesima domanda.

«Immensi. Ora chiudili…», mi ordinò dolcemente poco prima di chiuderli lei stessa.

Rimanemmo qualche secondo così, abbracciati, gli occhi chiusi e il frinire delle cicale tutt’attorno.

Poi in un soffio mi ritrovai a baciare quella bocca morbida che tanto avevo osservato, ascoltato e desiderato.

Non so chi fece il primo passo ed immagino resterà per sempre un mistero.

Anzi lo spero.

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo breve  ma l’ho scritto di getto in questi due giorni e terminato proprio ora, un occhio che si chiude memore dell’alzataccia di stamattina, e l’altro troppo stanco per trovare eventuali errori. Eh sì, carissimi lettori miei, che posso dire? Fatto il misfatto!

Ringraziamenti ed abbracci a voi, che leggete, commentate (cuori miei) e mettete in preferiti e vari. Attendo impaziente le  vostre opinioni!

Ormai ho perso il controllo del livello di miele per capitoli. E pensare che non sono neanche innamorata e perciò giustificata nel mio vedere e nello scrivere in una nuvola rosa di tanto ammmore.

Notte a tutti e alla prossima!

S.

P.S. Potrò non aggiornare per un bel mesetto ora perché, ragazzuoli miei, la sessione estiva è qui ormai e minaccia di farmi soccombere.

 

 

  
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