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Autore: Adrienne    16/04/2009    2 recensioni
Gabriel Reeve è un ragazzo a cui importano solo poche cose: le sigarette, il sesso, il disegno e i Led Zeppelin. E' cinico, freddo, praticamente solo, e non sa cosa voglia dire amare. E se, per caso, si trovasse a scoprirlo?
Genere: Generale, Romantico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo due

Capitolo due.

 

« Hours, hours, were the moments in between. Oh, baby, I couldn't count the times.

I've thought of comin' on a plane an' leavin'. Oh, baby, dry those silver eyes.
Oh, do you know my name? Do I look the same?
»
Led Zeppelin, Sick Again

 

Quel giorno non era per niente diverso, perché avrebbe dovuto esserlo?
Tenendo fra le mani le mie cose, camminai lungo uno stretto e lungo corridoio lugubre, lungo in quale c'erano un'infinità di porte verde scuro. Alcune erano scolorite e altre persino rotte. Quel corridoio mi sembrava sempre terribilmente lugubre, e di certo non contribuiva al mio umore nero – come la maggior parte delle volte.
Finito il corridoio, arrivai in una grandissima sala, molto più luminosa del corridoio, con ampie finestre e con disegni infantili appesi ai muri. Nella sala c'erano tantissimi tavoli rotondi con sedie e panche colorate; regnava il silenzio, poiché non c'era nessuno.
Lentamente mi sedetti ad un tavolo rosso, vicino la finestra.
Posai il blocco e la matita sul tavolo, ed infilai le cuffiette del lettore cd nelle orecchie. Ma prima che potessi fare qualsiasi altra cosa, una donna di mezz'età cicciotta con l'aria furibonda mi si avvicinò, entrando come una furia. Io non la degnai di uno sguardo, osservandola solo con la coda dell'occhio, e quella mi si mise di fronte con aria minacciosa.
“Ragazzo, esci subito di qui. E' ora di colazione, sono tutti lì.”

Con i miei comodi, levai le cuffiette dalle orecchie e le poggiai sul tavolo, per poi alzare lo sguardo su di lei.
“Non ho fame.” esordii con fermezza, e sostenendo il suo sguardo.
La donna mi fissò. Evidentemente mi stava studiando. “Prima o poi sparirai.”
Era quello che volevo, no? “Non ho fame.” ripetei, imperturbabile.
“Questo posto ti offre qualcosa da mettere sotto i denti gratuitamente, il minimo sarebbe accettarlo.”

“Le ho già detto di non avere fame.”
Ci fu un secondo di silenzio. “Se fossi fuori di qui, forse capiresti quel che significa.”
Rivolsi alla donna un'occhiata di fuoco. “Me ne ritorno in camera mia, se è così.”, e feci per alzarmi. Non appena dissi queste parole, la signora mi afferrò per la maglietta e mi spinse bruscamente in avanti.
“Reeve, fila subito in mensa!” urlò con voce stridula. C'erano due cose che fondamentalmente mi davano sui nervi: quando le persone urlavano e quando mi chiamavano per cognome. Con aria più che scocciata mi divincolai e presi le mie cose nuovamente.
“Brutta strega.” dissi sottovoce, non degnando la donna di uno sguardo e uscendo dalla stanza. Con i piedi di piombo, mi trascinai in un'altra sala, accanto alla precedente, ancora più spaziosa. Qui c'erano persone d'ogni età, e nella sala regnava un chiacchiericcio moderato ma non troppo allegro; c'erano dei lunghi tavoli massicci e panche e sedie, e le pareti erano grigie e spoglie, anche troppo lugubri per un posto dove vivevano tanti ragazzi. Evitai con cura di sedermi insieme a qualcuno, e presi posto in un piccolo tavolo ad un angolo della sala, dove poco dopo mi venne sbattuta una tazza di porridge, o qualcosa che gli assomigliava. La guardai per un secondo e l'appetito mi passò definitivamente: presi il cucchiaio e per inerzia lo infilai dentro, giocherellandoci.
Dopo qualche minuto, presi il mio blocco da disegno e lo poggiai sul tavolo, allontanando la tazza del porridge intatto di un bel po'. Aprii il blocco su una pagina pulita e prendendo la matita mi guardai attorno. Notai dei bambini chiassosi in una parte della sala, adolescenti più taciturni dall'altra.
Sembrava quasi che in quella stanza aleggiasse una nuvola di cattivo umore, e naturalmente chi ero io per esserne immune? Sospirai profondamente. Con la matita tracciai sul foglio bianco delle linee, cominciando a definire i tavoli, e guardando di tanto in tanto davanti a me se vedere se avevo continuato a mantenere le proporzioni.
Disegnare era la mia unica e vera passione. Era una cosa assolutamente naturale: non avevo imparato da nessuno, né avevo mai studiato. Era quello che mi spingeva ad andare avanti, era una cosa più fondamentale del mangiare o del bere; era per questo motivo, infatti, che portavo sempre con me il mio blocco da disegno, che avevo già da tanto tempo, talmente era spesso e grosso. Ultimamente, poi, ero preso da un'ossessione: ero in cerca del soggetto perfetto, per il ritratto perfetto. Non sapevo se ero in cerca di un oggetto, di un paesaggio o di una persona, sapevo solo che sentivo il bisogno di fare qualcosa di serio, di speciale, poiché quello che disegnavo di solito erano solo schizzi. Però mi aiutavano.

Stavo già tracciando alcune linee per i corpi e i visi, quando sentii una voce dietro di me.
“Ehi, Reeve, sempre alle prese con i tuoi disegnini, eh?”

Non mi voltai neanche, riconoscendo quella voce. Era di Lucas, un mio vicino di stanza. Un vero rompipalle: ma facendo un confronto con tutti gli altri miei coetanei, era uno zuccherino.
“Che diavolo vuoi, Smith?” chiesi, continuando a disegnare. Un ragazzo pallido con dei lunghi capelli biondi e occhi azzurri mi si mise davanti, sedendosi sulla sedia vuota di fronte a me.
“Niente. Volevo solo sapere se il porridge ti va ancora.” continuò, accennando alla tazza lì vicino.
Alzai gli occhi dal foglio per un attimo, guardandolo come se fosse pazzo. “E' tutto tuo.”
Lucas Smith avvicinò a sé la tazza e prese ad ingurgitare il porridge a cucchiaiate. Notai con dispiacere che mi oscurava la visuale, ma non glielo dissi. Abbassai di nuovo gli occhi sul foglio, imperturbabile.
“Allora,” continuò Lucas, “che mi dici?”
“Ti sembro uno che ha voglia di intavolare una conversazione con te?” ribattei.
Lucas fece una mezza risata. “Andiamo, Reeve, ti conosco da troppo tempo.”
“E piantala di chiamarmi a quel modo.”
“Come?”

“Reeve.”
“E' il tuo cognome o sbaglio?”
“Mi ricorda quell'infame di mio padre, per carità.”
Lucas rimase in silenzio, facendo tintinnare il cucchiaio nella tazza svuotata a tempo di record. Io, nel frattempo, avevo ultimato qualche viso e stavo ombreggiando, tenendo la matita di lato.
“Ho sentito dire che fra qualche giorno arriverà qualcuno di nuovo.” disse.
“Mi dispiace per loro, se dovranno stare in questa topaia.”
Lucas alzò gli occhi al cielo. “Magari arriverà qualche bella ragazza.”
Risi. “Tu hai in mente solo le donne, e nessuno ti si fila.”
“Beh, e tu hai una matita al posto del cervello.”
“Almeno a me danno retta, le donne, eccome.”
“Che pezzo di merda.” commentò elegantemente Lucas.

Quello che avevo detto, in compenso, non era una bugia. Riscuotevo un certo successo fra le donne, lì dentro, e non sapevo perché. Ai loro occhi, dovevo avere un certo fascino. Di certo, non me ne lamentavo. A chi non piacciono le belle donne? Suvvia.

All'improvviso, la donna cicciotella di prima entrò nella sala con una grossa sacca di tela in mano: sembrava la versione femminile di Babbo Natale, ma senza la lunga barba bianca. Dalla sacca uscì una moltitudine di buste, e si spostò freneticamente ai quattro angoli della stanza per consegnarle ai bambini e, soprattutto, ai ragazzi. Erano lettere di genitori e parenti che venivano consegnate una volta alla settimana. Tornai al mio disegno: non ci sarebbe stata nessuna lettera, per me. Anche Lucas sembrò notarlo.

“Sembra non ti interessi granché.” commentò.
“Ma davvero?” dissi sarcasticamente.
“La tua gentilezza mi sconvolge,” sbuffò Lucas, “comunque, tuo padre non ti manda qualcosa?”
Lo guardai. “Vuoi scherzare? Quel povero disgraziato non si ricorda neanche di avere un figlio. E comunque, non voglio parlare di lui. Mi dà sui nervi.”
Lucas annuì comprensivo, e provai istintivamente un moto di gratitudine per lui. La signora si avvicinò a noi, e schiaffò davanti a Lucas una bella busta bianca, senza proferir parola.
“E' mio padre.” commentò distrattamente lui, dopo aver dato un'occhiata alla busta, come se non gli riguardasse. “Ci si vede dopo, Reeve.” disse.
Lucas si alzò, portandosi dietro la sua lettera. Evidentemente voleva leggerla in pace, pensai. Alzai lo sguardo dal mio disegno quasi finito, seguendolo con lo sguardo. Rimanendo solo, chiusi il mio blocco da disegno decidendo di delineare gli ultimi dettagli più tardi; portando le mie cose uscii da quella stanza, lasciando tutti alle proprie lettere.

   
 
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