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Autore: Follow The Sun    19/06/2016    3 recensioni
Sono sopraffatta... Il corpo ridotto al limite, la mente vuota e le mie emozioni sparse al vento. Allunga una mano dietro di sé, toglie l'umido lenzuolo dal fondo del letto e me lo avvolge intorno al corpo. 
La stoffa fredda ed estranea mi fa rabbrividire.
Lui mi circonda con le braccia, tenendomi stretta, cullandomi possessivamente avanti ed indietro.
«Perdonami» mormora vicino al mio orecchio, la voce sciolta e desolata.
Mi bacia i capelli, un bacio, e un altro.
«Scusa, davvero»
Gli affondo la faccia nel collo e continuo a piangere, uno sfogo liberatorio.
Uso un angolo del lenzuolo per asciugarmi la punta del naso e a poco a poco mi rendo conto che quella visione non è poi tanto male.
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Questo è il remake della storia "she's a good girl", quella vecchia è stata cancellata, dati gli scarsi progressi.
Spero che questa versione sia meglio di quella vecchia :)
Se vi va fatemi sapere come vi sembra.
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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"She's a good girl." 
Capitolo 23.
 
Quella notte, dopo il bacio, Ashton cercò di andare oltre. Inizialmente, stanca e bagnata fradicia a causa della pioggia, non gli diedi importanza e stetti al gioco, ma quando me ne resi conto, provai a respingerlo, invano.
Era ancora poco lucido, nonostante fino a pochi istanti prima sembrasse l'Ashton di sempre.
Le sue mani vagavano dalla mia schiena alla mia pancia, sul mio petto e sul mio collo.
Quando mi liberai, finalmente, pensai solo a correre, lontano, sperando che lui non mi seguisse; infatti non lo fece.
Se ne stava là, in piedi, immobile, a guardarmi sotto la pioggia con un'espressione indecifrabile. Teneva gli occhi fissi nel vuoto, la bocca semiaperta e le mani distese lungo i fianchi. Non capivo a cosa stesse pensando, non l'avevo mai visto così.
Quando mosse il primo e lento passo, iniziai di nuovo a correre, e in poco tempo mi ritrovai di fronte al grande cancello della casa di Candice.
 
Mi rannicchiai nel letto, con le coperte fin sopra la testa, e finsi di dormire. Il mio respiro era pesante e accelerato, e nonostante cercassi di reprimerlo e di non fare troppo rumore, quello aumentava sempre di più a causa dell'ansia e della paura.
Le gocce di pioggia sui miei capelli e sul resto del mio corpo stavano spudoratamente bagnando le lenzuola e il cuscino, facendomi provare fastidio. Ma non era il momento adatto per lamentarsi e per fare gli schizzinosi; mi sarei presa un bel raffreddore.
L'importante, in quel momento, era non farsi trovare sveglia da Ashton.
 
La mattina successiva, quando aprii gli occhi, lo trovai seduto al bordo del letto, i capelli ancora umidi sulla fronte e gli occhi semichiusi.
Mi sentivo sopraffatta... Il corpo ridotto al limite, la mente vuota e le mie emozioni sparse al vento. 
Allungò una mano dietro di sé, tolse l'umido lenzuolo dal fondo del letto e me lo avvolse intorno al corpo. 
La stoffa fredda ed estranea mi fece rabbrividire.
Egli mi circondò con le braccia, tenendomi stretta, cullandomi possessivamente avanti ed indietro.
-Perdonami- mormorò vicino al mio orecchio, la voce sciolta e desolata.
Mi baciò i capelli, un bacio, e un altro.
-Scusa, davvero-.
Gli affondai la faccia nel collo e continuai a piangere, uno sfogo liberatorio.
Usai un angolo del lenzuolo per asciugarmi la punta del naso e a poco a poco mi resi conto che quella visione non era poi tanto male.
Restammo abbracciati per alcuni minuti che sembravano durare in eterno.
A quanto pare si era risvegliato dal pessimo stato di quella notte, e poteva finalmente pensare in modo razionale.
-Non volevo farlo, lo sai. Mi sono lasciato andare. Non so cosa mi sia preso-.
Annuii, esausta ormai di tutto.
Non avevo il coraggio di guardarlo negli occhi ma, in cuor mio, sapevo di averlo già perdonato.
 
 
[…]
 
 
Corsi più veloce che potevo, con il mio trolley ben stretto che saltava ad ogni piastrella, verso coloro che non vedevo da ormai molto, troppo tempo.
Mi erano mancati tanto, così tanto che solo al pensiero di rivederli mi si appannavano gli occhi a causa delle lacrime. 
Sì, stavo piangendo.
Attraversai un lungo corridoio, facendo slalom tra le persone dell'aeroporto e beccandomi anche parecchie occhiatacce, ma non mi importava.
Mi fermai, mentre respiravo affannosamente, e diedi un'occhiata in giro alla ricerca dei miei amici.
Avevo il cuore in gola, la sensazione che provavo, le emozioni e i brividi lungo il corpo mi fecero capire che finalmente avevo trovato il posto adatto in cui avrei voluto trascorrere la vita intera.
 
Appena scorsi la testa bicolore di Michael tra la folla, seduto sulle panchine, mi illuminai e urlai il suo nome a gran voce. Finalmente.
Stavo per rivederli davvero, lo stavo facendo.
 
Quelle due settimane in America sembravano passare troppo lentamente, e ad un certo punto avrei voluto abbandonare tutto e tornare da sola in Australia. 
 
-Michael!- urlai, di nuovo.
Egli, appena mi sentì, scattò in piedi e mi venne in contro a braccia aperte.
 
Michael, sono tornata!
 
Lo abbracciai forte, inspirando il suo profumo e stringendo tra le mani il tessuto della sua camicia a quadri verde.
Nel frattempo il mio trolley era caduto a terra, sotto gli occhi delle altre persone, e non mi importava se tutti ci stavano guardando; finalmente ero a casa.
-Em, mi sei mancata così tanto- sussurrò vicino al mio orecchio, forse pensando che non lo sentissi.
-Stai perdendo credibilità nella tua possibile virilità- lo schernii.
Mi diede un pugno leggero sulla spalla, al quale non reagii, e rise.
-Mi sei mancato anche tu, davvero tanto-.
-Gli altri sono fuori, andiamo?-.
-Certo-.
 
Quando finalmente fummo fuori dall'aeroporto, i nostri amici ci vennero in contro, esultando e chiamando il mio nome.
Calum fu quello ad avvicinarsi per primo, e mi abbracciò.
Non sentivo sulla mia pelle un suo abbraccio da così tanto tempo che per un istante mi parve che fosse un estraneo, ma subito mi abituai di nuovo a quella dolce sensazione.
-Spero tu non mi abbia dimenticato, vero?-.
Ridacchiai, e aumentai il tono della risata quando anche Allison si unì all'abbraccio, facendo arrossire violentemente Calum.
-Ciao Alli- dissi. 
Mi strinse a se scostando l'altro ragazzo, e alcuni dei suoi capelli rosa mi andarono a finire sulla faccia, appiccicandosi alle mie labbra intrise di burro cacao.
-Non puoi capire quanto mi sia mancata. Non andartene più. Iris non sa giocare a Cluedo come fai tu-. 
La rossa si intromise, l'espressione accigliata e le mani davanti al busto in segno di difesa.
-Hey, non è colpa mia se non ci ho quasi mai giocato!-.
Strinsi a me le due ragazze in un colpo solo, e Iris fece finta di soffocare. 
-Credo tu sia mancata a tutti- aggiunse, sistemandosi gli occhiali sul naso.
Ethan e Jake si avvicinarono con dei meravigliosi sorrisi stampati sui loro volti. Mi mancavano anche loro, davvero tanto.
Il primo indossava una camicia blu con dei disegni bianchi terribilmente aderente, invece il secondo sfoggiava una splendida felpa rosa confetto.
-Emma, Evans, oh Dio, hai un'abbronzatura stupenda. Sei andata molto spesso in spiaggia?- disse Jake. Mi prese una mano e mi fece fare un giro su me stessa. Ridacchiai, imbarazzata.
-Jake ha una nuova cotta-.
-Ethan! Ti avevo detto di non dirlo a nessuno!-.
-Ops, pardon-.
Sorrisi alla loro adorabile scenetta e guardai se ci fosse ancora qualcuno, lì per me.
Ovviamente c'erano anche Luke e Jade, in parte a parlare di non so cosa, così li raggiunsi per salutarli.
 
-Uhm, hey!-.
Entrambi si girarono a guardarmi, ma Jade fu la prima a reagire.
-Emma, finalmente sei tornata! Luke è una noia mortale, continua a ripetere che ci vuole qualcuno che suoni la batteria, abbiamo passato tutto il tempo delle prove ad ascoltare le sue lamentele. Non ne potevo più!- finse di mettersi le mani nei capelli, ovviamente troppo perfetti e ordinati per essere rovinati.
-Non è affatto vero…- bofonchiò Luke, con le braccia incrociate al petto e un'espressione contrariata.
-Beh, ora sono tornata. Non avrete più questo problema in ogni caso-.
Io e Jade ci mettemmo a ridere, e potei constatare che non era una ragazza così presuntuosa come pensavo.
 
Mentre mi preparavo a fare domande su cosa fosse successo nelle ultime settimane, Ashton arrivò per salutare il gruppo, e mi feci da parte.
Nonostante lo avessi già di gran lunga perdonato, non mi andava di guardarlo con gli stessi occhi. Qualcosa era cambiato, provavo imbarazzo a stare con lui per troppo tempo.
 
-Dove sono i miei genitori?- chiesi a un certo punto, quando mi resi conto che mancava davvero qualcuno di importante.
I ragazzi del gruppo si scambiarono sguardi complici, balbettando qualcosa a me non comprensibile, infine Iris si fece avanti e mi spiegò che non erano potuti venire a causa di un impegno improvviso. Le credetti.
 
Prendemmo un autobus che ci avrebbe portato dove avremmo dovuto incontrare alcuni amici di Michael, i quali avevano le auto per accompagnarci a casa.
Mi sentii più sollevata quando scoprii di essere in macchina con Iris, Allison, Calum e Michael, e non con Ashton.
 
 
[…]
 
 
Salutai con la mano i miei amici, mentre si allontanavano a tutta velocità sulle auto.
Sospirai, girandomi in direzione di casa mia e assumendo un'espressione malinconica.
 
Casa, finalmente.
 
Camminai velocemente fino alla porta d'ingresso, levai le scarpe bagnate, lasciandole lì davanti, e suonai il campanello, euforica.
-Chi è?-.
Sentire dal vivo la voce di mia madre mi fece venire le lacrime agli occhi, e dovetti mordermi il labbro inferiore per reprimerle.
Inoltre, ero felice che la casa non fosse vuota, avrei dovuto cercare le chiavi di casa nei meandri della mia valigia se non ci fosse stato nessuno.
-Emma. Sono tornata- dissi, la voce spezzata dall'emozione.
Sentii dei brusii insistenti provenire dall'interno, la serratura scattò un paio di volte, poi potei finalmente rivedere la mia famiglia, mamma e papà.
Mio padre scattò subito in avanti, regalandomi un caloroso e morbido abbraccio, al quale risposi senza indugiare, affondando la testa sul suo petto.
Mia madre ci circondò con le braccia, senza però creare un vero e proprio abbraccio: non era da lei compiere gesti troppo affettuosi, soprattutto negli ultimi tempi.
-Siamo felici che tu sia di nuovo a casa, anche se non ci aspettavamo che tornassi così presto-.
Mia madre annuì.
-Pensavamo che tornassi questa sera-.
Mi spostai da mio padre per evadere dall'abbraccio e aspettai che mi invitassero ad entrare. 
Ero esausta e volevo solo andare in camera mia, posare la mia roba e farmi un bagno rilassante.
Mia madre mi guardò, una nota di nervosismo nei suoi occhi, poi spostò l'attenzione su suo marito, il quale ricambiò lo sguardo con altrettanta ansia.
-Beh, allora,- si interruppe, sfregando tra loro le mani- entriamo?-.
La donna si spostò e per poco non cadde all'indietro sul ciglio della porta, ma non si scompose e aspettò che papà dicesse qualcos'altro.
-Sai, Emma, è difficile per noi, ma…-. Venne interrotto bruscamente da mia madre, la quale mi mise una mano sulla spalla e mi rivolse un sorriso speranzoso.
-Vi volete separare?- sputai, quando non seppi più dove volevano arrivare con quei sorrisi nervosi e gli sguardi disperati.
-Cosa?! No!-.
Sospirai, sollevata. Avevo decisamente pensato che il motivo di quell'atmosfera strana fosse la loro separazione ma, fortunatamente, non era così.
-Abbiamo una notizia importante.- si sistemò le maniche della camicetta. -Dobbiamo presentarti qualcuno-.
Deglutii, mentre il mio respiro diventava più agitato. Un tremolio scosse il mio corpo.
-Eleonora, via il dente, via il dolore-.
Aggrottai le sopracciglia, confusa.
-Abbiamo adottato un bambino-.
 
 
[…]
 
 
 
Mi passai le foto tra le mani, osservando ogni minimo dettaglio del volto presente in ognuna di esse.
Stavo via solo due settimane e succedeva il finimondo.
Posai le foto al mio fianco e alzai lo sguardo sui miei genitori, i quali erano seduti accanto a me sul divano in pelle, scrutandomi attentamente, come per cogliere qualsiasi reazione da parte mia.
-Come si chiama?- chiesi, titubante, rigirandomi ancora le foto tra le mani.
Non riuscivo a fare a meno di notare come il suo viso fosse così triste, un sorriso triste e disperato racchiuso in un mucchio di fotografie. 
-Si chiama Nicholas- si affrettò a dire mia madre. Afferrò una foto, l'accarezzò e sorrise debolmente, come se fosse una delle cose più preziose al mondo.
Un po', lo devo ammettere, mi sentii gelosa di tutte le attenzioni che i miei genitori stavano dando a quel mio presunto fratellastro.
-Sai, questa cosa ti sorprenderà, ma… Lui ha quindici anni-.
Spalancai occhi e bocca.
 
Abbiamo solo due anni di differenza!
 
-Woah, cioè, è strano. Non so cosa dire-.
-Sono certa che saprai gestire al meglio la situazione, tesoro. L'hai sempre fatto-.
Mi domandai a cosa si riferisse, poi pensai ai continui trasferimenti e a tutto il resto, e in risposta abbassai il volto, rivolgendo il mio sguardo sul mio trolley ancora abbandonato sul pavimento.
-L'età non fa differenza. Sopportiamo economicamente quel ragazzo da quando aveva circa nove o dieci anni, e solo ora che siamo qui, in Australia, abbiamo avuto la possibilità di firmare i documenti per l'adozione. Non abbiamo problemi di soldi, e tantomeno di spazio, lo sai- prese parola mio padre.
Pensai alla stanza vuota ancora da sistemare, essendo piena di scatoloni, al piano di sopra e mi chiesi dove avrebbe potuto dormire quel ragazzo.
-Attualmente dorme di sotto, in taverna, in un letto provvisorio che abbiamo comprato all'IKEA, ma sono certo che con il tempo le cose si sistemeranno-.
Non feci in tempo a dire altro, che la porta d'entrata si spalancò, e lo vidi.
Un ragazzo alto circa quanto me, o forse di più, i capelli scuri tirati su in un ciuffo malandato, gli occhi bassi e sottomessi.
Fui la prima ad alzarmi, sotto lo sguardo i mamma e papà, ma a loro dispetto, invece di accogliere a braccia aperte il nuovo arrivato, mi congedai con un "scusate, ho bisogno di un bagno caldo" e salii le scale.
 
 
[…]
 
 
Misi una maglietta comoda e larga, probabilmente rubata a mio padre qualche settimana prima, e mi buttai a peso morto sul mio letto.
Non era cambiato nulla, se non la disposizione di alcuni oggetti dopo che mia madre era passata a fare la polvere sugli scaffali.
Avevo la mente completamente in subbuglio, ogni pensiero, sia insignificante o importante, mi riportava a Nicholas.
 
Nicholas.
 
Sbloccai il mio telefono e andai su WhatsApp, mandando una nota vocale sul gruppo che condividevo con tutti i miei amici.
 
«Attenzione, emergenza “Non sapevo di avere un fratello”.»
 
Non avevo molta voglia di stare a leggere tutti i messaggi che stavano mandando nel mentre, così li liquidai con un “vi spiego tutto domani” e spensi il telefono.
 
Quando scesi di sotto per bere un sorso d'acqua, mi accorsi che la tavola era apparecchiata solo per due persone, e non per tre, o meglio dire quattro.
Non pretesi di avere un posto a tavola, pensai semplicemente che i miei avessero rinunciato ad aspettarmi per la cena.
 
Prima che potessi appoggiare un solo piede fuori dalla cucina, mia madre emerse porgendomi un piatto fumante straboccante di pasta al sugo.
 
Finalmente si mangia.
 
-Emma, per favore, potresti portare questo piatto di sotto a Nicholas?- mi implorò.
La mia danza interiore cessò, lasciando spazio ad un urlo straziante e pieno di rabbia.
Stavo per rispondere con un secco e deciso “No”, ma lo sguardo di mio padre, seduto su una delle sedie della cucina, stanco e speranzoso, mi fece cambiare idea.
Dovevo farlo per loro.
Dovevo farlo per la loro felicità.
 
Scesi le scale per la taverna lentamente, come se il tempo avesse potuto rallentare e rendere tutto meno doloroso e tremendamente difficile.
Percorsi anche l'ultimo gradino, poi, con molta esitazione, bussai alla porta di metallo.
Avrei voluto non provocare così tanto rumore.
Un fruscio, poi un altro, ed infine udii la sua voce.
-Avanti-.
Aveva il classico tono di voce di un ragazzino in piena fase ormonale, quella fase in cui sei passato dal “bambino dolce e gentile” al “da domani faccio il soprano” in così poco tempo che neanche te ne rendi conto.
Aprii la porta, sempre molto lentamente, ed entrai in quella che era diventata la sua stanza.
Aveva un piccolo tavolo che gli faceva da scrivania. Alcuni quaderni erano adagiati su una sedia di plastica, mentre il suo letto era completamente disfatto, con alcuni libri sparsi qua e là.
Appena mi vide, da sdraiato scattò seduto, coprendosi più che poteva i boxer con la maglietta.
-Io, uhm, ti ho portato la cena-.
Appoggiai sul piccolo tavolo in legno il piatto, ancora fumante, e rimasi lì a guardarlo per alcuni istanti.
D'un tratto, non so come, mi feci coraggio e mossi alcuni passi verso lui, allungai la mano e gliela porsi.
-Comunque, sono Emma. Piacere di fare la tua conoscenza-.
Guardò la mia mano, davanti al suo viso dipinto dagli ormoni, con sospetto; forse si sentiva intimorito da me.
Quando si alzò in piedi, sovrastando la mia altezza, per poco non spalancai la bocca: era davvero alto.
-Nicholas, ma forse lo sai già-.
La strinse, ma solo per poco, poi prese il suo piatto e lo esaminò con la forchetta.
-Grazie-.
  
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