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Autore: Blue Eich    20/06/2016    7 recensioni
Vera aveva assistito trattenendosi dal ridere. Che ci fosse in corso una delle tante scommesse di Birch, solito pretendere come pegno in caso di sconfitta l'offerta di una colazione al bar di fianco alla scuola, era divertente quasi quanto gli sguardi sconcertati di passanti e turisti.
[Il racconto della mia ultima gita, un mix di cose vere e inventate, trasformando la gente della mia scuola nei personaggi dei Pokémon.]
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti, Vera | Coppie: Drew/Vera
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Anime
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Angolo Autrice – 1
Ehm, salve. Questa shot è la più lunga e forse la più noiosa che abbia mai scritto. Oggi da me è ufficialmente finita la scuola con gli esami orali della mia classe (se ve lo state chiedendo sì, ho tirato giù tanti santi negli ultimi giorni), perciò ho deciso di “festeggiare” pubblicando questa cosa dove racconto coi personaggi dei Pokémon la mia ultima gita scolastica (il Day one è tutto vero, nel Day two ho dovuto inventare un po'). Ringrazio di cuore la mia disegnatrice Deborah Carta (vi lascio qui il link alla sua pagina Facebook) per il disegno stupendo là sotto, che mi sono presa la libertà di editare
Buona lettura!

 


2017-24-3-08-35-29

 

Day one, Thursday, 5:40 PM

 

Una città così in movimento Vera non l'aveva mai vista. Certo, non che avesse mai viaggiato molto, però non poteva fare a meno di essere sorpresa. Delle costruzioni storiche e delle statue non le importava, preferiva concentrarsi su come scorreva la vita. Vedeva persone in bicicletta ovunque e se non c'era in sella nessuno erano tranquillamente legate con la catena a qualche palo o nei bike sharing; a vederne così tante, la probabilità che qualcuno potesse rubarle sembrava inesistente. Cagnolini al guinzaglio, bimbi in passeggino, negozi di marche famose che coloravano i portici…

Infatti, Ursula si era incantata davanti a una boutique di cosmetici di prima qualità. I suoi occhi, all'osservare gli scomparti di smalti e rossetti che s'intravedevano da fuori, luccicavano come quelli di un bambino dinnanzi a una pasticceria. Fece per entrare con un braccio teso, rispondendo al richiamo della moda, ma prima che fosse troppo tardi Rowan – l'insegnante di storia – le si parò davanti. Prese a trascinarla via per un orecchio, ignorando le sue disperate proteste – prof, ma io devo entrarci, la prego, non mi faccia questo!

Vera era affascinata dai dettagli, come le forme delle abitazioni, il colore dei mezzi pubblici diverso da quello a cui era abituata, i variopinti graffiti sui bidoni dell'immondizia o sulle serrande delle attività chiuse. Però non riusciva a godersi quella passeggiata fino in fondo. Sospirò rassegnatamente e gettò uno sguardo al basso: le sue converse bianche con un motivo floreale, un po' sporche sulla punta, le davano un immenso fastidio. Maledetto il suo cervello quando aveva scelto di metterle, non aspettandosi ingenuamente di camminare così tanto durante la gita.

Avevano finito i colonnati e ora dovevano rifare tutta la strada al contrario per tornare all'ostello, a posare la roba ancora nel bus e prepararsi per la serata. Sperava con masochismo che le succedesse qualcosa del tipo inciampare o svenire per un colpo di calore, così si sarebbe risvegliata in condizioni certamente migliori, magari in un letto, dal momento che sentiva bruciare entrambi i piedi come se avesse taglietti dappertutto.

La sua attenzione venne poi attirata da un gruppetto più avanti.

«Ah, questi giovani d'oggi, non hanno più forza!» commentò Birch, coi sandali e la camicia hawaiana sbottonata per far fronte all'insopportabile calura di maggio.

«Si sbaglia, prof!» esclamò Barry, il ragazzo più esuberante della prima – e forse dell'intera scuola. Si picchiettò sul petto per indicarsi. «Vado in palestra due volte alla settimana, io!»

Il professore di informatica, in risposta, fece spallucce. «È un po' difficile crederlo, ma se lo dici tu…»

«Le dico di sì!» Il biondo voltò furiosamente il capo. «Iris, vieni qui!»

La sua compagna, che stava ridendo con le amiche poco più avanti, le congedò con un gesto cortese per dirigersi verso chi l'aveva chiamata. «Cosa c'è?»

Lui si chinò in avanti. «Su, saltami in spalla!» intimò con impazienza.

Iris inarcò un sopracciglio, non capendo. Tuttavia non si lasciò sfuggire l'occasione di avere un passaggio: prese una breve rincorsa e balzò come un ragno sulla schiena dell'altro. «Oh, sei comodo, sai?» domandò, giuliva.

Barry si girò con un sorriso soddisfatto. «Visto?»

Al che, Birch ridacchiò scuotendo il capo. «Barry, se riesci a portarla fino all'ostello senza mai farla scendere, offro un caffè a tutti e due» dichiarò, anche se la sola ipotesi gli pareva ridicola. Non aveva idea di ciò a cui avrebbe dato il via.

I due si scambiarono uno sguardo d'intesa e non ci fu neanche bisogno di parlare: il biondo prese a correre con un urlo battagliero.

«Oltre i cieli dell'avventuraaaa!» gridò la ragazza, innalzando un braccio come se impugnasse una spada e fosse pronta a combattere. Sembrava stessero andando a conquistare una città o in guerra – anche se più che un cavallo quello era un asino o, dal modo in cui camminava, uno struzzo.

Vera aveva assistito trattenendosi dal ridere. Che ci fosse in corso una delle tante scommesse di Birch, solito pretendere come pegno in caso di sconfitta l'offerta di una colazione al bar di fianco alla scuola, era divertente quasi quanto gli sguardi sconcertati di passanti e turisti.

Continuò a trascinarsi, zoppicando e mugugnando tra sé e sé. Le sue scarpe si alzavano da terra così poco che sembrava strisciassero. Cercava di non perdere d'occhio Iris, comodamente sdraiata sulla schiena di Barry. La corsa l'aveva sfinito dopo pochi metri e lo si sentiva lamentarsi sottovoce, quando lei gli strattonava i capelli come redini per intimargli di muoversi.

Anche Lucinda guardava verso di loro. Immergendosi tra la folla delle tre classi unite, che si confondeva con la popolazione di passaggio, si avvicinò a Gary interrompendo il suo dialogo con un terzino di cui non ricordava il nome. Gli si avvinghiò al braccio e, con un sorrisetto e un guizzo di speranza negli occhi, disse qualcosa che Vera non sentì, però vide le labbra del liceale allargarsi in un sorriso. Si girò di spalle e si chinò leggermente come aveva fatto Barry, ma lei al contrario di Iris salì in modo più delicato e gli abbracciò il collo senza mai lasciarlo.

La bruna li fissò sconvolta e invidiosa, un'invidia malinconica e rassegnata: sarebbe piaciuto anche a lei farsi portare da qualcuno. Era bassa, ma non uno scricciolo come Lucinda – e tra parentesi, le mancava anche il suo fascino che attirava l'altro sesso come le api sul miele senza che avesse bisogno di muovere un dito.

 

Ormai Vera stava imparando a ignorare quel lancinante dolore. Mentre passavano sotto l'ennesimo portico circondato da negozi – quanti ne avevano già superati? Quattro? – si posò una mano sullo stomaco. Forse doveva davvero mettersi a dieta e impegnarsi, truccandosi e vestendosi un po' meglio, così avrebbero offerto un passaggio anche a lei, mentre adesso non era abbastanza interessante. Così pensava e adesso la sua attrazione principale erano diventati Lucinda e Gary, non più l'accoppiata tornado. Lucinda, ancora abbracciata al suo cavaliere; di tanto in tanto gli sussurrava qualcosa accarezzandogli di sfuggita i capelli arruffati, senza fare la minima fatica, nonostante non fosse nemmeno stanca. Non era giusto che avesse diritto a un simile privilegio.

Non era la sola a osservarli: Kenny affiancava Conway senza ascoltare una sola parola del suo noioso discorso, perché non perdeva ossessivamente di vista i due.

«E come ti dicevo, alla fine…»

Prima che l'occhialuto completasse la frase, sentì un tonfo metallico seguito da immediate risatine alle loro spalle: la faccia del suo vicino si era stampata contro un palo.

«Aho…» borbottò lui, barcollando all'indietro. Scrollò la testa, ancora un po' frastornato. Si portò una mano alla nuca e annuì alle richieste delle persone vicine sul fatto che stesse bene, per poi voltarsi e proseguire come se nulla fosse.

«Kenny, ma puoi?» commentò la Waterflower, l'insegnante di diritto, che non sapeva se ridere o essere sconvolta.

«Ti prego, dimmi che l'ha fatto apposta…» disse Birch, girandosi verso la collega che sorrise e scosse il capo, perché forse aveva capito il motivo.

 

Si fermarono ad ascoltare il professor Rowan, che iniziò a raccontare la storia dell'antica stazione che osservavano dalla strada sovrastante, popolata di verde.

Birch, approfittando del momento di pausa, fece cenno a Vera di seguirlo e si sedettero in disparte su una panchina. Dopo aver saputo del suo problema con le scarpe si premurava di chiederle ogni tanto come stesse, ma adesso sembrava aver qualcosa in mente.

«Prof, cosa vuole fare?» domandò la ragazza, leggermente a disagio per la situazione, mentre lo vedeva armeggiare coi suoi lacci per levarli.

«Non preoccuparti, ho fatto il militare» fu la sua sicura risposta, che a lei non rassicurò per niente, soprattutto quando tirò fuori un accendino dal taschino della camicia.

«Prof…» lo chiamò Vera. «Prof, no, no, no, noooo!» gridò, contraendo inutilmente la mano, mentre vedeva una delle sue stringhe rosa bruciare al calore della fiammella e dividersi.

«Tranquilla, lunedì te ne porto una più bella» promise lui, guardandola attraverso le lenti scure degli occhiali da sole. Legò nei buchi appositi la stringa rimanente, in un punto più vicino all'asola dove non avrebbe dovuto causarle male.

La bruna osservò delusa il nastrino rovinato, ma se non altro adesso sentiva meno dolore. Leggermente, ma meglio di nulla.

Nel frattempo, Iris stava parlando con Meringa, ignorando completamente Barry che dentro di sé si sentiva morire ma non voleva lamentarsi per orgoglio. Sentì uno scampanellio impaziente, seguito da un altro e un altro ancora, ma non ci fece troppo caso, perché si confondeva con gli altri mille rumori provenienti dalla strada.

«Allora non ti sposti, eh!» sentì sbraitare.

Aspettò che il suo mezzo di trasporto umano si voltasse, per trovarsi a osservare una ragazza dai capelli a caschetto, con un basco sulla testa e degli scaldamuscoli neri con dei teschi fucsia alle braccia. Era sopra una bicicletta da corsa, con il dito che tamburellava nervoso sul freno.

«Ooh, ma cosa vuoi?!»

«Ti levi, idiota?! Sei sulla pista ciclabile!»

«Io non vado da nessuna parte, levati tu!»

«Iris…» tentò inutilmente Barry. «Forse è meglio se…»

«Zitto!» lo ammonì.

La conversazione con la sconosciuta sfociò presto in una serie di insulti poco cordiali del tipo se non te ne vai ti butto sotto le rotaie o ma datti fuoco. Quest'ultima sbuffò e cambiò strada, dandole ancora dell'idiota, con lei che cercava di scendere per metterle le mani addosso e il suo “asino da soma” rischiava pericolosamente di sbilanciarsi.

Ripresero il cammino. Barry sentiva la stanchezza prendere sempre più il sopravvento e la sua ospite emanava negatività da tutti i pori. Come se non bastasse, anche lei era un po' accaldata e stava iniziando a trovare quella posizione faticosa da mantenere.

A quel punto, la Waterflower si avvicinò a loro, accompagnata da Sketchit – quel rammollito che insegnava matematica e scienze. «Iris, raccontami cos'è successo» pregò, sorridendo. Il carattere impulsivo-aggressivo di quell'alunna, una delle più problematiche che le fossero mai capitate, non si smentiva mai.

«Quella tizia non si levava!» si difese lei, ancora nervosa per l'accaduto e pronta a sbranare qualcuno. Gesticolò animatamente nel raccontare la scena, a partire dal suo ooh oltraggiato che fece piegare i suoi ascoltatori dalle risa. Intanto Barry a testa china avanzava, ogni passo pesante come un mattone.

«Con quale finezza lo hai detto?» commentò la rossa, divertita.

«Mai far arrabbiare Iris» le fece eco l'altro, alludendo poi alla sfortuna che aveva avuto quella poveretta a incrociare proprio l'elemento più isterico di tutta la loro scuola.

 

Proseguirono, arrivando nel centro trafficato della città.

Vera aveva pensato seriamente che sarebbe morta o collassata per terra, anche se nessuno attorno a lei sembrava percepire la sua sofferenza. Soprattutto Lucinda, ancora abbracciata al collo di Gary che se era stanco non lo dava a vedere, se non con un intenso rossore sul viso madido. Non li perdeva con lo sguardo, pensando a quanto fosse tenera una cosa del genere e che avrebbe dato di tutto per essere al suo posto. Mancavano ancora venti minuti abbondanti all'arrivo e, a dispetto del suo scarso senso dell'orientamento, riconosceva più o meno il percorso che avevano fatto all'andata. Perché era voluta venire a quella stupida gita dove la stavano consapevolmente torturando? Come se non bastasse, non si erano neanche degnati di portarli in un negozio di souvenir né avevano assaggiato piatti tipici.

Stavano attraversando il marciapiede, con un muretto all'apparenza infinito alla loro destra, tappezzato di fogliettini pubblicitari abusivi e scarabocchi di pennarelli, che cozzavano con la professionalità dei vivaci e occasionali graffiti.

«Dai, Gary» sussurrò Lucinda, apprensiva. «Non ce la fai più, poi stai male…»

Lui scosse il capo. «Non azzardarti a scendere» intimò, rivolgendole un sorriso fiacco ma determinato, per poi tirare di nuovo su la testa e riprendere.

Per quanto fosse assurdo, Vera riusciva a essere dietro di loro, seppur l'unico peso che portava fosse quello di una borsetta a tracolla con una stampa della bandiera americana.

Barry invece rimase per un po' tra i primi, venendo continuamente soccorso da compagni che gli bagnavano la testa e gli asciugavano il viso coi fazzoletti, dal momento che era paonazzo come un peperone e ormai non avvertiva più sensibilità alle gambe che si muovevano da sole, così come era diventato immune alle brusche tirate di capelli di Iris che ripeteva a denti stretti di non voler perdere.

 

«Quasi arrivati, quasi arrivati, quasi arrivati…» Vera ripeteva quelle parole sottovoce, come una nenia per darsi forza, che tanto non sentiva nessuno, dal momento che stava tra gli ultimi. Sì, perché ormai avevano oltrepassato il sacro cancello che portava a una serie di vie di condomini che avrebbero condotto anche all'ostello. Raggiungerlo era diventato il momentaneo scopo della sua vita.

Eccolo. Sembrava un miraggio, ma non lo era: erano davvero giunti all'ampia struttura di un acceso arancio. Nel cortile era anche parcheggiato il loro autobus argenteo, rimasto fedelmente ad aspettarli e a custodire i bagagli.

Quando Gary arrivò in mezzo agli altri, venne accolto da una vera e propria ovazione, forse un po' eccessiva. Lucinda – che si era fatta tutto il ritorno da principessa, senza mai posare gli stivaletti a terra – scese e cominciarono i coretti con tanto di battiti di mani che acclamavano insistentemente un bacio.

Cercò d'ignorarli e, quando la piccola folla si disperse, mentre stavano camminando vicini si sporse verso la guancia accaldata di Gary per sfiorarla fulmineamente con la bocca.

«Me lo darai dopo» le disse l'altro, il cui unico desiderio era lavarsi e cambiarsi, ricevendo un distratto asserimento.

Vera, ansante e nei paraggi, riuscì a udire quel piccolo pezzo di conversazione senza che la notassero e accennò un sorriso, contenta per loro.

Tuttavia, c'era ancora qualcuno a dover arrivare: Barry, che aveva un mal di schiena atroce e non alzava il capo. Camminava lento, allo stremo delle forze.

«S-Siamo arrivati, scendi…»

«No che non siamo arrivati» ribatté saccentemente Iris. «Mancano ancora due metri, su!» esclamò, tirandogli una pacca sulla spalla, così forte che il ragazzo non resse: perse l'equilibrio e prese una facciata per terra, arrestando tutti i suoi muscoli sotto sforzo. L'asfalto era così fresco ed era così piacevole stare fermi… Anche se quell'opprimente peso ancora lo schiacciava, come un fastidioso insetto – parlante, per giunta.

«Alzati» sibilò Iris. «Siamo vicinissimi, non possiamo rinunciare!»

«N-Non ci riesco…» sussurrò il biondo, con voce rotta e pietosa.

«Striscia!» ordinò lei, dandogli un altro colpo. Così, tempo qualche altro secondo di riposo e Barry prese davvero a trascinarsi con l'aiuto delle mani come un uomo in punto di morte, incurante della fine che avrebbe fatto la sua povera t-shirt.

Non appena arrivò pochi centimetri dopo l'ingresso, si lasciò cadere, buttando di nuovo la faccia giù. Ora poteva morire in pace.

Iris si alzò tranquilla, spolverandosi e lisciandosi i pantaloni. «Prof, ce lo offre quel caffè, vero?» domandò con aria trionfale rivolta a Birch, che annuì divertito.

«Ecco cosa succede a fare lo splendido» commentò la Waterflower, con un sorriso tollerante e una mano sul fianco. «Dai, Barry, fila a farti una doccia.»

«Io sono splendido, prof, è diverso» replicò il biondo, alzando l'indice tremante: voleva dimostrarsi sicuro di sé fino alla fine. Conway e Kenny, che sarebbero stati i suoi coinquilini durante la notte, lo presero per le braccia come un sacco per rimetterlo in piedi.

In quel lasso di tempo d'attesa, Vera doveva assolutamente sedersi, perché non ce la faceva più. Il problema era che l'unico posto disponibile era sul muretto che contornava la cancellata. Senza farsi vedere provò a salirci, ma al primo tentativo capì subito che sarebbe stato impossibile. Mettersi a terra era un comportamento abbastanza incivile, per cui riprovò dandosi maggiore slancio con le braccia; ancora niente. Sospirò. Perché quel giorno non gliene andava bene una?

«Ti serve aiuto?» domandò con curiosità una voce maschile.

Girandosi, Vera vide Drew, un suo compagno di classe con cui non aveva mai scambiato che poche parole di circostanza. «Non riesco a salire, sono troppo bassa» spiegò, con un sorrisetto imbarazzato.

Lui stette a fissarla, con una mano in tasca e l'altra piegata sulla vita, per poi sorridere. Indossava una semplice maglietta nera e portava in spalla lo zaino scolastico con il necessario per la gita. «Ti aiuto io» dichiarò, avvicinandosi.

«F-Fermo, che fai?!» protestò Vera, sentendosi sollevare con destrezza per la vita. «Sono troppo pesante!» anticipò, allarmata. E invece, nel giro di pochi secondi si ritrovò seduta sul tanto agognato muretto bianco. Sbatté le ciglia, confusa, guardando il ragazzo che non dava cenni di affaticamento come si aspettava.

«Mi piace aiutare gli altri» si giustificò con un altro sorriso più furbo del precedente, sedendosi con un balzo agile accanto a lei. «Non male questo posto, non trovi?»

Vera arrossì leggermente sulle guance e annuì, così presero a parlare del più e del meno finché il professor Rowan non chiamò tutti a raccolta per consegnare i passepartout delle camere ai capogruppo.

 

Al ristorante, la sera, le uniche a non prendere niente furono Vera e Zoey – quindici euro per due portate erano un furto bello e buono. Tuttavia, qualcuno per sbaglio aveva ordinato un piatto di patate al forno in più che andò a carico dei professori e si servirono di quello, insieme agli altri della tavolata, abbondando col ketchup.

Chiara e Ursula abusarono della rete Wi-fi aperta per vedere in diretta l'ultima puntata di un talk show, che non concepivano di perdersi, come se sapere il vincitore fosse una questione di vitale importanza. Infatti furono le ultime a uscire controvoglia e continuarono a seguire la trasmissione fuori, sul gradino della vetrata del locale.

Dopo aver fatto una piacevole e simpatica passeggiata di due ore annunciata dalla Waterflower, per la gioia dei mignoli schiacciati come sardine di Vera in quelle converse malridotte, si fermarono in un bar. Era già mezzanotte, ma che fossero ancora in centro a quell'ora sembrava non turbare nessuno.

Lei arrivò per ultima, quando quasi tutti erano seduti, ma occupò con una corsa disperata la prima sedia libera che vide. Sospirò di sollievo: per un pelo.

«Ops» sentì commentare da Serena, dal lato opposto dello stesso tavolo. «Ti ha fregato il posto.»

Vera si girò curiosamente e vide Iris, con una tazzina di caffè caldo tra le mani, rimasta in piedi a fissarle, un po' indecisa sul da farsi.

«Oh, scusa, non volevo» le disse, alzandosi, mortificata. «Siediti pure.»

«No, fa niente, tranquilla.»

«Dai, siediti, così stai vicino a lui» replicò, dopo aver notato che nel tavolino successivo a quello erano seduti Barry e Kenny.

«Preferisco te a lei» commentò senza esitare il biondo, anche lui con la tazzina che conteneva il frutto di tutti i suoi sforzi che più tardi aveva mascherato definendoli un banalissimo allenamento.

Vera ignorò quella frase falsa, per poi esclamare di nuovo: «Siediti!»

«No, io non…»

«Siete carini insieme, su, siediti tu!»

Dopo quell'ennesima insistenza, Iris sbuffò e l'accontentò, quasi fosse una grandissima concessione.

La bruna era contenta della buona opera fatta. Fece correre lo sguardo agli altri tavolini: niente, era già tutto occupato e nessuno sembrava avere intenzione di spostarsi. Notò subito la Waterflower e Sketchit, su dei gradini appena prima del bar, ciascuno con un cono tra le mani; anche se lei era sposata, il loro rapporto era facilmente fraintendibile per chi non era abituato a vederli ridere e scherzare ogni giorno. Entro poco, per fortuna, la primina si alzò per entrare a comprarsi un gelato e occupò il suo posto in una frazione di secondo.

Fu impossibile che non le cadesse l'occhio anche su Lucinda in braccio a Gary, con quella gonna così corta che a momenti non si vedeva e lasciava scoperte le sue gambe snelle. Certo, a cosa ti serve un posto tuo se puoi sederti sopra quello che nel giro di due giorni diventerà il tuo fidanzato e fa di tutto per farti sentire una principessa?

«Vuoi?» sentì domandare dal tavolo accanto e si vide porgere un sottile biscotto con tracce di gelato al pistacchio da un lato, in segno che era stato tolto da lì. «A me non piace» si giustificò Drew con nonchalance, attendendo che accettasse la sua offerta.

Vera sorrise: di sicuro glielo aveva dato vedendo che non aveva preso niente in mancanza di soldi, un gesto piccolo ma carino. «Grazie» rispose, pensando che non poteva esserci modo migliore di concludere la serata.

 

 

Day two, Friday, 12:45 AM

 

La Waterflower aveva raccomandato più volte a tutte le “fanciulle” – come le chiamava – di non esitare a venire da lei per qualsiasi problema. Anche se era ovvio che nessuna, a meno di essere in preda a forti conati di vomito o altri problemi di salute innegabili, avrebbe minimamente osato bussare alla sua porta nel cuore della notte.

Ormai, sia Leona che Ursula si erano addormentate – la seconda con due fette di cetriolo sugli occhi e il viso coperto di una melma cremosa. A enfatizzare la sua frivolezza c'era anche la vestaglia di fronzoli quasi trasparente che indossava sotto le coperte. Come se non bastasse, non aveva fatto che lamentarsi tutto il giorno di quanto fosse tutto orribile: città troppo vecchia, ristorante schifosamente comune, camera scadente. Era sempre col cellulare con la cover brillantata in mano alla ricerca di linea, per chiamare suo padre e mugugnargli di voler tornare a casa perché quel posto era indecente per una del suo rango. Una compagnia davvero insopportabile, perché non si poteva nemmeno parlare altrimenti Sua Maestà non dormiva abbastanza e avrebbe rischiato di deturpare il suo viso. Adesso che finalmente aveva il becco chiuso, però, russava. E non un russare lieve, ma un russare che Lucinda, dall'altra parte della stanza sul letto di sopra, udiva chiaramente. Leona, in quello di sotto, doveva essere stata proprio stanchissima per addormentarsi nonostante il rumore pari a quello di un trombone. Sorrise al buio, ricordandosi il motivo per cui lei invece era fresca come una rosa e non sentiva male da nessuna parte. Lottò contro il diavoletto dentro di lei che le stava dando la fortissima tentazione di fare un video a quella smorfiosa in un momento ben poco femminile, così da poterla ricattare in futuro.

Ah, lo farò dopo” pensò, togliendosi le coperte di dosso. Cliccò il tasto centrale del suo telefono per controllare l'ora: un quarto all'una. Afferrò l'apparecchio e cominciò a scendere la scaletta, molto piano, per non rischiare di destare Leona dal sonno che l'aveva rapita.

Una volta a terra, coi gambaletti che sfioravano il pavimento freddo, esitò un attimo fissando le sue pantofole riposte nell'angolo. Nah, meglio non prenderle, un po' di freddo non avrebbe ucciso nessuno se serviva a mantenere intatta la sua immagine di ragazzina carina. Con passo felpato si avvicinò al comò di Ursula. Aveva lasciato fuori il phon, l'arricciacapelli e la piastra – su questo non poteva giudicarla, dal momento che li aveva in valigia anche lei – coi fili disordinatamente arrotolati. Per non parlare del tubetto di quella sua orrenda crema e roba varia – tutta in qualche modo collegata alla bellezza, comunque – che rendeva impossibile metterci mano senza far cadere qualcosa. Aguzzò la vista, alla ricerca del passepartout di cui la rosa si era impropriamente appropriata spacciandosi capogruppo al professor Rowan con la promessa di limitare il caos. Eccolo: era sotto una panciuta boccetta di profumo al mughetto, come un fermacarte. Lo sfilò lentamente, per non rischiare di combinare guai.

Tirò un sospiro di sollievo, portandosi una mano al cuore. Poi aprì la porta, lasciando filtrare uno spiraglio di luce nella stanza; guardò a destra e a sinistra, cauta, per poi richiudere piano e dare il via alla sua spedizione notturna.

 

«Era ora» commentò Gary, disinvoltamente poggiato alla parete del secondo piano.

Lucinda sorrise. «Sì, scusami, ho avuto qualche contrattempo.»

Il ragazzo la accolse in un abbraccio a cui si abbandonarono. Inspirò il profumo di aceto di mora e fior di magnolia dei suoi capelli, lisci e puliti, che accarezzò con premura. Ci stava mettendo tanto a conquistarla, ma sentiva di essere sulla buona strada.

«Oggi sei stato dolcissimo» gli sussurrò la blu, stringendosi di più a lui.

«Oh, l'ho fatto con piacere» affermò in un sussurro. La sentì ridacchiare dolcemente contro il suo petto, poi la vide alzare il viso. Non disse nient'altro, ma si alzò sulle punte per arrivare alla sua altezza e lo baciò. Quel bacetto sulla guancia davanti agli altri non era niente, solo un piccolo anticipo affettuoso. Ecco la vera ricompensa: sfiorare le sue labbra, in un'intimità clandestina che avrebbe potuto spezzarsi da un momento all'altro. Era evidente che ormai ci fosse qualcosa di serio tra loro, ma non sentivano ancora il bisogno di parlarne.

A interromperli, però, fu un urlo acutissimo. Lucinda sussultò e si strinse alla maglia di Gary per lo spavento. Lui fu più repentino: si voltò e sbloccò l'entrata alla sua camera con la tessera, trascinando dentro la ragazza con sé.

«Che succede?» mormorò Ritchie, stropicciandosi gli occhi, per poi sgranarli al vedere la figura femminile intrusa. «M-Ma…»

«Zitto» gli intimò Gary che, come Lucinda, spiava dal poco spazio che avevano lasciato aperto per capire cosa fosse successo.

Pochi secondi dopo quell'urlo, la Waterflower era uscita dalla sua stanza – una singola, dato che le sue colleghe donne non avevano potuto essere presenti. Adesso con il cuore a mille e l'ansia che le si leggeva in faccia camminava per il corridoio, pallida e sconvolta. Proprio lei che fino a neanche mezz'ora prima ribadiva: “Mi raccomando, ragazzi, non fate assolutamente casino, qui ci sono anche degli universitari che domattina dovranno dare degli esami”.

«Nasconditi» sussurrò Gary, allontanandosi leggermente e chiudendo la porta. Fiutava aria di guai.

«Dove?» protestò Lucinda in un borbottio. Come se fosse facile trovare un posto in così poco tempo.

«Si può sapere cosa diavolo state combinando?» sbraitò Paul dal letto superiore, visibilmente irritato. «Cosa ci fa lei…»

«Non c'è tempo per spiegare» ringhiò Gary, spingendo l'intrusa per le spalle e indicandole di nascondersi sotto il letto di un Ritchie ancora molto confuso prima che fosse troppo tardi.

In quell'esatto momento, sentirono bussare con impazienza. Andò ad aprire, trovandosi davanti una Waterflower con un sorriso tiratissimo.

«Oak» lo chiamò, ignorando completamente di essere in pigiama dinnanzi a uno studente. «Ero andata a dare la buonanotte alle ragazze e, quando sono tornata, ho visto u-un orribile ragno vicino alla mia finestra.»

«Oh, è terribile» affermò il castano, pregando che non entrasse un centimetro di più o avrebbe potuto accorgersi del corpo minuto e raggomitolato che le lenzuola lasciavano intravedere appena.

Quella gli rivolse un'occhiata dura, come per metterlo alla prova, infine sospirò. «Porta via quell'essere ripugnante dalla mia vista, per favore. Uccidilo, se necessario.»

«Subito» rispose lui, diligente. Scattò fuori, ben attento a non lasciare intravedere il resto della camera non illuminata.

Quando la minaccia entomofobica fu lontana, la blu si concesse di respirare e diede il tempo al proprio cuore di calmarsi. Ancora pochi secondi e rischiava se non una sospensione un'imbarazzante sgridata e di mandare a monte tutto.

La testa spettinata di Ritchie, che arrotolò un po' la coperta giusto per poterla guardare in faccia, spuntò curiosa sotto al letto. «Ma che ci facevi con Gary?»

Lucinda avvampò, portandosi una mano alla bocca. «P-Parlavamo!»

A quel punto, sentì una risata di scherno provenire dall'alto. «Non ti crede nessuno» commentò Paul, sorridendo beffardo, per poi girarsi di lato e riprendere a dormire – o perlomeno a provarci.

 

La mattina seguente, la colazione per Vera fu uno strazio. In mensa era riuscita ad arraffare solo un toast – per sbaglio integrale – e, con un cucchiaino, ci aveva spalmato sopra del cioccolato sciolto, perché le altre marmellate nei vasetti vicini non sembravano invitanti. Quello, insieme a una tazza di latte freddo, fu tutto ciò che riuscì a prendere e mandare giù a morsi forzati. Poi dovette tornare in camera con Chiara e Zoey per portare fuori le valigie, assieme a quelle degli altri, cosicché presto avrebbero potuto caricarle sul pullman.

Passò poco e ripartirono per il centro. Arrivati là, i professori radunarono tutti in un unico punto e Rowan diede a gran voce il tanto atteso annuncio: potevano girare in libertà per ben tre ore, a patto di ritrovarsi tutti all'orario prestabilito nella piazza principale, davanti al duomo. Per Vera era un sollievo: finalmente poteva sedersi per un tempo decente e riposarsi. Aveva scosso il capo con un sorrisino dispiaciuto alla richiesta delle amiche di andare con loro. Così eccola lì, sui gradini di una delle chiese della piazza, a frugare nella borsa. Prima tirò fuori una bottiglietta d'acqua, velocemente riempita quella mattina al lavandino del bagno prima di partire, poi uno dei suoi due tramezzini. Sua madre gliene aveva preparati cinque in totale, tutti uguali, convinta che fossero sufficienti a coprire ogni pasto. Storse il naso, esaminandolo da ogni angolazione: era pronta a giurare che prima di metterlo lì dentro fosse ancora quadrato, invece adesso era diventato un qualcosa di informe, più simile a un cono accartocciato. Stette a fissarlo per un po', chiedendosi come fosse possibile una trasformazione così radicale, poi sospirò. Il profumo di prosciutto e burro di arachidi che emanava era ancora buono, perciò mise da parte il lato schizzinoso di sé e cominciò ad addentarlo.

Era un ambiente tranquillo, dove rumori improvvisi o forti erano estranei. Guardava le diverse persone andare e venire, per riversarsi nelle vie vicine. Non che potesse fare altro. Ammetteva che le sarebbe piaciuto vedere un po' di vita, ma se non voleva altre bolle era meglio che stesse tranquilla. Per tenersi compagnia, tirò fuori il suo nuovo “amichetto”: un simpatico palloncino lilla riempito di sabbia, con due adesivi come occhi e dei ciuffetti arcobaleno come capelli. Era bastato che un venditore ambulante lo mostrasse, scontandolo da due a un euro, purché tutti ne volessero uno.

Si accorse che un gruppetto dei suoi compagni era già di ritorno, anche se con molte probabilità solo momentaneamente. Tra di loro c'erano anche Lucinda e Gary. Avevano tutti in mano qualcosa, perciò la ragazza intuì che si fossero fermati in un bar. Si appostarono in massa sulle scale del duomo e provò un'ennesima punta d'invidia al vedere la sua compagna comodamente seduta in braccio a Gary, mentre masticava il suo pezzo di focaccia bianca e scorreva il pollice sullo schermo del cellulare, poggiata al suo petto come il banalissimo schienale di una sedia.

Sospirò per la millesima volta nell'arco di quei due giorni e frugò alla ricerca dell'ultimo tramezzino fortunatamente sano, sperando di incrociare presto le sue compagne di stanza. Zoey aveva tantissimi panini con salame piccante e ketchup, già sperimentati il giorno prima, da cui si separava senza storie. Anzi, era lei stessa a offrirli a tutti incurante della possibilità di rimanere senza nulla.

 

«Ci siamo persi.»

«No che non ci siamo persi.»

«Barry, dannazione, ci siamo persi.»

Iris si arrestò in mezzo alla fiumara di gente, con le braccia sui fianchi e una smorfia severa che rivolse al biondo poco più avanti di lei.

«Suvvia!» minimizzò lui, allargando le braccia. «Ritroveremo la strada in un baleno.»

La viola sospirò esasperatamente, superandolo con passo nervoso. Perché, tra tutte le persone che poteva scegliere, proprio insieme a lui doveva andare? Era brava a orientarsi in mezzo alla natura essendo cresciuta in un paesino di campagna, perciò tutto quel caos la confondeva. Invece Barry sarebbe stato capace di perdersi in un bicchier d'acqua o con migliaia di frecce lampeggianti che gli indicavano le direzioni giuste, perciò erano fregati.

Di comune accordo si sedettero sul poco spazio offerto dallo scalino della vetrina di un negozio d'abbigliamento, sotto un portico, con la gente che passava in continuazione o attendeva i pullman – ce n'era uno almeno ogni cinque minuti. Visti così, con gli zainetti in spalla e i musi lunghi, potevano benissimo sembrare degli zingari – anche perché i capelli di Iris non ispiravano troppo alla civilizzazione.

 

Il momento che a Paul più piaceva delle gite – anzi, forse l'unico che apprezzasse e il reale motivo per cui ci andava – era quando davano del tempo libero. Così poteva girare, lontano dall'insignificante marmaglia dei suoi coetanei che per lentezza e intelligenza potevano benissimo essere paragonati a un gregge di pecore, visitando ciò che davvero gli interessava. Suo fratello maggiore gli aveva scritto in un biglietto i nomi di alcuni luoghi e anche un ristorante dove si diceva che un famoso motociclista fosse solito pranzare in alcuni giorni della settimana. Infatti era lì che si stava dirigendo, nella fioca speranza di incontrarlo e chiedergli un autografo. Alternava il controllare il foglietto al fermare passanti per chiedere loro conferma sulle direzioni che stava prendendo, con una cortesia che non avrebbe mai mostrato alle odiose persone che doveva vedere ogni giorno.

Dopo soli dieci minuti che si era allontanato dal gruppo e percorreva una delle vie adiacenti al duomo, quasi in fondo, gli squillò il cellulare. Seccato lo tirò fuori dalla tasca per controllare il numero: non iniziava con suffissi strani ed era di dieci cifre, per cui nessuna compagnia telefonica. «Chi è?» domandò, cauto.

«Paul, amico mio!» esclamò una voce fastidiosamente allegra e fastidiosamente familiare. «Dove sei?»

Paul fece una smorfia, chiedendosi chi diavolo avesse passato il suo contatto a quell'imbecille. «Affari miei» rispose seccamente. «Perché?»

«Oh, niente, ero solo preoccupato per te!» si giustificò Barry con la sua solita esuberanza. «Sei da solo, no? Dai, perché non vieni un po' con-»

Prima che potesse portare a termine quella proposta semplicemente ridicola, lui lo interruppe parlandogli sopra: «Grazie, ma no. Ciao.» Riattaccò, ficcando nuovamente il telefono nella tasca della giacca. Voleva un po' di pace, niente seccatori.

Dopo altri minuti di tragitto, quando ormai stava iniziando a immergersi nel caos della grande città, sentì nuovamente la suoneria. A questo giro avrebbe messo il silenzioso, si disse, senza trattenersi in borbottii offensivi nei confronti di quell'idiota. Al leggere il nome sullo schermo, però, la sua espressione mutò.

«Pronto?» rispose con fermezza.

«Ehi» si sentì rispondere da una voce che conosceva bene, ma non era affatto irritante, bensì matura e melodiosa. «Hai mangiato?»

«Non ancora.»

«Sicuro che non vuoi stare un po' con noi? Sei ancora in tempo… Te ne stai sempre da solo» riprese con un pizzico di premura e malinconia la voce.

«Ho già dei programmi; so quello che faccio e so come tornare indietro. Tranquilla, Zoey.»

«Oh, d'accordo, come vuoi. Allora a dopo!»

Non rispose al saluto, riattaccò semplicemente: lei non si sarebbe offesa, sapeva com'era fatto. Quella fu l'ultima chiamata importunante del giorno, per sua fortuna.

 

 

Qualche ora dopo, finalmente, risalirono sul pullman per tornare a casa. Erano tutti visibilmente stravolti. Iris e Barry avevano incontrato miracolosamente Paul, che aveva rinunciato all'occasione irripetibile di vedere il suo motociclista preferito, e si erano accollati a lui così da poter tornare in tempo al duomo. Per quanto riguarda Vera, la prima cosa che fece in pullman fu levarsi le scarpe e accettò di buon grado la compagnia di Chiara, ascoltando le sue chiacchiere allegre solo distrattamente. Gettò un'occhiata a Paul nella fila opposta e si accorse che aveva gli occhi chiusi, le braccia incrociate e gli auricolari nelle orecchie. Se stesse veramente dormendo o solo cercando d'ignorare il caos e quella musica degradante che qualcuno negli ultimi posti aveva messo in sottofondo non lo sapeva.

Non poteva vedere cosa accadeva più indietro, essendo troppo morta per pensare anche solo di girarsi a sbirciare. Ursula si ravvivava i capelli specchiandosi sul vetro e si passava il burro cacao con la mano libera; la testa di Leona sbucava nell'incavo tra i due sedili, perché stava parlando con Lucinda. Lei usava tranquillamente la gamba di Gary come un bracciolo, accoccolata sulla sua muscolosa spalla, mentre lui le avvolgeva placidamente il collo con un braccio. Riguardo a Iris e Barry, erano forse la cosa più tenera dell'intero veicolo, tralasciando la Waterflower e Sketchit naturalmente vicini che parlottavano sorridenti. I compagni di guai russavano con le teste l'una contro l'altra, esausti e inconsapevoli, come bambini troppo cresciuti.

Vera ignorò le chiacchiere di cui Chiara ancora la sommergeva per la noia, rivolgendo lo sguardo al vetro per salutare tacitamente la città mentre tornavano in autostrada. Dopotutto, era stata una bella gita, di cui voleva ricordare solo i momenti belli. Come quelli con Drew, ad esempio… Formulato quel pensiero, le sue guance si tinsero lievemente di rosso e non riuscì a togliersi un sorrisetto dalle labbra.

 

 

 

 

Angolo Autrice – 2
Rieccoci!
Come avrete notato ho tramutato Vera in me, però nella mia vita non c'è nessun Drew: i gesti sono stati fatti da altri (uno pseudo-amico per il muretto e una pseudo-amica per il biscotto).
Iris rappresenta una mia compagna un po' isterica (la scena dell'ooh è reale e la ragazza in bici sarebbe Georgia), però è stata un'altra a fare il tragitto sulle spalle di un compagno e si sono fermati a metà, ma siccome lei e Barry mi divertivano (ho creato la crack più epica del secolo) ho deciso di cambiare enfatizzando il tutto. Ah, non hanno davvero gridato Oltre i cieli dell'avventura, ma non ho resistito lol
Anche il mio dolore era reale, così come la Cavalier che ha interpretato la mia nuova OTP a scuola (la scena della sedia al bar era con loro, non con l'altra coppia, solo che non ci stava la battuta scema del ragazzo altrimenti)… Li ho invidiati tantissimo, dal momento che io stavo morendo.
Nel secondo giorno molte cose sono frutto di fantasia, in quanto l'ho trascorso con una mia amica a distanza dolcissima e non ho visto cosa facevano gli altri (perciò in quel pezzo mi ha rappresentata più Paul, chiamate scoccianti comprese).
Per voi non sarà divertente quanto lo è per me, ma spero ugualmente vi sia piaciuta.
Alla prossima!
-H.H.-

 

   
 
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