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Autore: Sonomi    21/06/2016    8 recensioni
Il suo profilo era vagamente illuminato dalla luce soffusa della lampada, la fotocamera prendeva tutto il suo corpo con una maestria tale da renderlo quasi angelico. Eppure, Alec lo sapeva bene, in lui di angelico non c'era proprio niente.
Solo un'aura distruttiva, come il suo cognome sembrava voler annunciare.
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AU!Malec. In cui un timido ragazzo si ritrova a essere il fotografo di un eccentrico modello.
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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UDITE UDITE! Sonomi è tornata, dopo mesi e mesi e mesi, e mi meriterei di essere picchiata per questo. Vi chiedo scusa, non sto nemmeno a spiegarvi perché ho ritardato così tanto perché non ci sono scusanti. Vi chiedo scccccusa ç___ç 
Anyway, parliamo di cose serie. La FF torna, finalmente, e spero di riuscire ad aggiornare senza ritardi di cinque mesi. Volevo ringraziare tutti coloro che hanno letto e commentato il capitolo 9, siete tantissimi! Spero che tornerete a seguire la ff come un tempo <3 Vi lascio a questo capitolo, chiarificatore su alcune cose che sono state introdotte a indizi(?) durante la storia. :)

PREMESSA DA LEGGERE!(?): in questo capitolo vedremo un Magnus un po’.. diverso. Non abbiate paura, non lo getto nel mare orrendo dell’OCC, ma c’è una piccola spiegazione dare. Qui Magnus è solo un poco più che ventenne con un passato difficile alle spalle, non ha la maturazione psicologica di un uomo di ottocento anni. Perciò è più.. Psicologicamente fragile, come lo sarebbe chiunque. E si aggrappa all’unica cosa in grado di tenerlo in piedi.. Proprio come nei libri. Spero che questa versione di Mag vi piaccia. <3

 





Parte decima

Una settimana dopo c.a.

Mamma. Mamma, dove sei?
Il bambino camminava scalzo lungo il corridoio, la porta del salotto socchiusa davanti ai suoi occhi. La luce soffusa delle plafoniere filtrava attraverso la fessura, insieme ai flash della tv accesa, il volume quasi assordante di un programma di poco conto. Il bambino aveva i piedi coperti dai pantaloni del pigiama, troppo lungo, e le manine sporche di tempera. Gli piaceva disegnare, e sua mamma adorava appendere i piccoli lavoretti al frigorifero con le calamite prese allo zoo. 
-Lurida puttana, sei solo una..-
-Lasciami andare, LASCIAMI ANDARE TI HO DETTO!- 
Un tonfo pesante, e attraverso la piccola apertura della porta il bambino vide sua mamma cadere per terra tenendosi una mano sulla guancia. Piangeva. Il bambino la vedeva spesso piangere, e tutte le volte era sempre colpa di papà. Perché papà la faceva piangere? Continuò a camminare, doveva andare da lei. 
-Sei solo uno stronzo..- gemette la donna, le lacrime che rendevano umido il suo volto stremato. Poi il bambino entrò nella stanza, e i suoi occhi si riempirono di terrore. 
-Mamma?-
-Tesoro esci dalla stanza- esclamò lei, alzandosi in piedi a fatica e asciugandosi la faccia con una mano. Sorrise falsamente e si avvicinò al figlio per fargli una carezza. -Vai in camera a finire il disegno mh? Io arrivo tra poco- 
Il padre rise, una di quelle risate capaci di far rabbrividire più dell’inverno, più del ghiaccio lungo la spina dorsale. Il piccolo lo vide camminare verso di loro, gli occhi infuocati di follia, e lo guardò spingere la mamma di lato, come faceva sempre, tutte le volte, tutte le volte in cui decideva di accanirsi su di lui. Il bambino non si oppose nemmeno quando suo padre lo afferrò per un braccio, strattonandolo, cominciando a trascinarlo lungo il corridoio da cui era venuto. Sua mamma alle loro spalle urlava, provava a fermarli, ma l’uomo riusciva sempre a toglierla di mezzo. 
Quando il bambino vide la porta della cantina cominciò a urlare. Quel posto era brutto, non ci voleva andare. Perché papà lo metteva sempre lì dentro. Era buio. C’era troppo buio…
-Mamma!- pianse, la voce rotta dalle lacrime, ma non fece in tempo a dire o a vedere altro, che l’uomo lo gettò dentro la stanza e la porta si chiuse con un sonoro ‘click’. 
Buio.
Buio.
Buio.



Magnus si svegliò nel pieno della notte, urlando, il cuore che batteva talmente in fretta da sentirlo nelle orecchie. Si portò una mano sulla fronte, trovandola madida di sudore, così come il collo e il busto: la canotta che usava per dormire gli si era appiccicata alla schiena. 
Spostò le coperte, scivolando fuori dal letto, e a piedi scalzi si diresse in salotto solo dopo aver spento la piccola lucina che teneva accesa tutte le notti. La sala era illuminata dalle luci di Brooklyn attraverso la vetrata che dava sulla città, e la visuale della caotica New York fuori dalla sua finestra lo tranquillizzò immediatamente. C’era qualcosa di magico in tutta quella vita, anche alle tre del mattino. New York non dormiva mai. 
Si accasciò sul divano, solo dopo aver preso un bel bicchiere di vino rosso. Quella era l’ennesima notte che passava seduto lì, guardando il vuoto con velata angoscia. Quel sogno lo tormentava da sempre, da che ne avesse memoria, come un chiodo fisso impossibile da sollevare; ad un certo punto aveva quasi smesso di soffrirci, considerandolo come un assurdo e fastidioso regalo del suo passato: provare a gettarlo sarebbe stato inutile, perché si sarebbe presentato ancora. Magnus rise a quell’assurdo paragone, e lasciò scivolare il capo sul bracciolo del divano. Il tavolino in vetro di fronte a lui sembrava una lamina sottile da quella visuale, con le sue sfumature leggere e le secche gambe in ferro. Gliel’aveva regalato Catarina quando aveva deciso di affittare quel loft, con la scusante che “qualcosa di delicato doveva pur esserci nell’ammasso di roba strana che era casa sua”. 
Magnus si alzò, stiracchiandosi, e posò il bicchiere di vino accanto alla busta che stava appoggiata sul tavolino. La afferrò, aprendola delicatamente, pur sapendo già cosa conteneva: dentro c’erano una ventina di fotografie, tutte di Alexander, quelle che avevano fatto di nascosto nello studio fotografico di Vanity. Alec non sapeva che il modello le aveva fatte stampare, e soprattutto non sapeva della dolcissima e stranissima foto in cui erano stati beccati a baciarsi. Magnus non aveva idea del perché volesse tenersi quella foto per sé. Forse perché in quell’immagine vedeva una copia di se stesso talmente spensierata e felice che quasi gli pareva un’altra persona. Sospirò, accarezzando il volto di Alec con i polpastrelli, e una malsana e spiazzante voglia di vederlo gli attanagliò le viscere. Non si vedevano da circa cinque giorni e al modello stavano sembrando decisamente troppi: Alexander era stato richiamato per un servizio a Miami, ed era tornato a New York giusto qualche ora prima. Non poteva di certo chiamarlo in quel momento, alle tre passate del mattino, dopo quel viaggio stancante… ma le dita di Magnus composero il numero del fotografo prima ancora di rendersene conto. 
Voleva sentirlo.
Alec rispose al quarto squillo.
-Ma che.. Pronto? Magnus?- 
Il modello sorrise alla voce impastata del ragazzo, e si morse un labbro per non scoppiare a ridere.
-Ehi principessa.. Scusami per l’ora-
-Sono le tre del mattino passate- sbadigliò attraverso il telefono, il tono tra l’infastidito e il preoccupato. -E’ successo qualcosa?-
Magnus non seppe cosa rispondere. In quel momento si rese conto di aver appena chiamato in piena notte Alec senza un vero motivo. O per lo meno un vero motivo che l’altro potesse capire. Si sentì un idiota. 
-Io.. No, non è successo nulla- disse, passandosi una mano sulla fronte. -Scusami, non avrei dovuto chiamarti. Sei appena tornato da Miami, e..-
-Magnus- Alec lo bloccò di colpo. -Non credo che tu sia il tipo da chiamare la gente in piena notte senza un perché. Cosa è successo, sei a casa?-
Magnus avrebbe voluto rispondere che sì, era a casa, che lo aveva chiamato per sentire la sua voce, che era stanco, che voleva abbracciarlo, ma tutto ciò che uscì dalla sua bocca fu solo un sospiro spezzato talmente improvviso che il modello stesso si portò le mani alle labbra non appena se ne rese conto. 
-Magnus, stai bene?-
Alec sembrava allarmato, e l’altro lo sentì chiaramente muoversi dal lato opposto della cornetta. Si stava alzando?
-No, io.. È tutto ok, davvero- cercò di dire, ma la sua voce lo tradì. -Non..-
-Dammi mezz’ora e sono da te-
Non gli diede nemmeno il tempo di rispondere: Alexander gli chiuse il telefono in faccia, e Magnus non seppe se riprendere a respirare o continuare a rimanere senza fiato. 

Alec suonò al campanello di casa sua in perfetto orario, come da lui ci si sarebbe aspettati. Magnus se lo ritrovò sulla soglia, lo sguardo preoccupato e i capelli sparati in tutte le direzioni: probabilmente non si era nemmeno preso la briga di pettinarsi, ma al modello piaceva così, con quella sua aria costantemente trasandata e i vestiti sformati.
-Magnus, stai bene?- esordì il fotografo, entrando in casa e chiudendosi la porta alle spalle. L’altro annuì e si passò una mano sul volto, come a voler scacciare l’espressione stanca che probabilmente aveva. Alec non avrebbe dovuto essere lì a vederlo confrontarsi con i soliti fantasmi dei suoi incubi. Non voleva gettare dentro anche lui in quella morsa. 
Alexander fece qualche passo verso di lui, e con una mano fredda gli sfiorò la guancia. 
-A me non sembra che tu stia bene-
-Sto una meraviglia principessa- Magnus sorrise e intrecciò le dita della sua mano con quelle dell’altro. -Non saresti dovuto correre qui a quest’ora, non è successo nulla- 
Il fotografo non risposte e continuò a fissarlo con quei suoi occhi blu, come se avesse voluto fargli una radiografia alla testa. Magnus si sentiva scosso da quello sguardo, attirato da quella figura meravigliosa che era quel ragazzo. C’era qualcosa di magico in lui, nel modo in cui, in sua presenza, il modello dimenticasse ciò che c’era nel suo passato. Con Alec davanti vedeva solo il presente, dietro non c’era nulla. 
-E’ inutile che io insista, non è vero? Non mi dirai nulla- disse alla fine il ragazzo, allontanandosi leggermente dal modello. Magnus sorrise, un sorriso di quelli tristi ma pieni di tante parole, e Alec seppe con certezza che avrebbe potuto insistere anche fino al mattino seguente che l’altro non avrebbe aperto bocca. 
-Ho fatto un brutto sogno, principessa, ma ora va tutto bene- affermò Magnus, infilando le dita fra i capelli di Alec. -Averti qui mi ha fatto dimenticare tutto. Oddio, perché ti ho chiamato?-
Il fotografo ridacchiò, scuotendo il capo sconsolato, e decise di non insistere. Per quella volta. Alla fine non si conoscevano da molto, e sapere che comunque la sua presenza stava rendendo Magnus più felice gli bastava. 
-Mi farai impazzire, un giorno o l’altro..-
Il modello sembrò rifletterci.
-Mi piace quando impazzisci. Hai un’aria più sexy- sussurrò, avvicinandosi sempre di più all’altro, fino a quando non si ritrovarono naso contro naso. -Mi sei mancato in questi giorni-
Per tutta risposta, Alec gli gettò le braccia al collo e fece scivolare le proprie labbra su quelle dell’altro. Il fotografo stentava ancora a credere di quanto facilmente riuscisse a gettarsi fra le braccia di Magnus, senza inibizioni e senza l’ansia costante che lo attanagliava dopo la relazione con Adrian. Il modello aveva quella magia, la capacità di canalizzare su di sé ogni cosa, anche il mondo intero. 
-Vedo che ti sono mancato anche io- affermò quest’ultimo e Alec sorrise sulle sue labbra.
-Non sai quanto. C’è troppo sole a Miami. E la gente è insopportabile-
-Solo tu puoi trovare Miami insopportabile- 
Magnus schioccò un altro bacio sulla bocca di Alec, per poi afferrarlo per una mano e condurlo verso il divano. Si sedettero di peso, guardando Brooklyn fuori dalla vetrata, e il modello alzò i piedi per appoggiarli al tavolino. Alec si lasciò scivolare lentamente verso l’altro, sistemandosi contro il suo braccio destro. 
-Allora, come è andato il servizio?-
Il fotografo fece spallucce, e si allungò per prendere il bicchiere di vino che Magnus aveva lasciato quasi pieno. Ne rubò un sorso, schioccando la lingua al gusto amarognolo.
-Al solito. Il direttore della rivista era un tantino petulante, mi ha fatto cambiare il set per ben due volte. Jace voleva affogarlo in mare-. Magnus rise a quelle parole. -Senza contare che la sua assistente ci provava con me talmente spudoratamente che Isabelle ad un certo punto ha dovuto allontanarla-
-Cosa avrebbe fatto questa tizia, scusa?-
Alec ghignò leggermente al tono infastidito del ragazzo, per poi ridacchiare alla sua espressione stizzita. Aveva un sopracciglio alzato e le labbra protese in una smorfia. 
-Tranquillo, ha avuto la decenza di non saltarmi addosso-
-E ha fatto bene- ringhiò Magnus, avvicinandosi ancora di più ad Alec, tanto che il fotografo poteva vedere ogni sfumatura dei suoi occhi. -Non sei più sulla piazza, nessuno deve osare sfiorarti con un dito. A meno che quel dito non sia il mio- continuò poi, facendo scivolare l’indice lungo la guancia del moro. Quello sorrise, sfiorando le labbra del modello in un bacio casto. 
-Questa è una delle cose che dovrebbero ricordarsi le costumiste quando ti preparano per un servizio- 
Magnus sembrò pensarci su. 
-Effettivamente sono stato palpeggiato qualche volta-
-Perché ho la netta sensazione che qualcuno verrà licenziato? Ops- sibilò Alec assottigliando lo sguardo, mentre l’altro rideva.
Un altro bacio a fior di labbra. 
-Menomale che ci sei tu a proteggere la mia virtù, Lightwood-
-Credo che sia la tua che la mia virtù se ne siano andate da un pezzo, Bane..- 
Magnus rise di nuovo, alzandosi in piedi e trascinandosi Alec dietro. Gli afferrò entrambe le mani e se le portò alle labbra. 
-Ti fermi qui? E’ tardi, giuro che non ti salto addosso-
Alec alzò un sopracciglio, ma un sorriso gli stava illuminando il volto. Annuì, lasciando che Magnus lo conducesse verso la propria camera da letto. 
-Domani mi devo alzare presto però, devo pranzare dai miei-
-Percepisco la tua gioia immensa-
Si stesero sul materasso, il moro completamente vestito ma nessuno dei due sembrò farci caso, e il modello sollevò su di loro la coperta sottile. Avrebbe voluto accoccolarsi più vicino ad Alec, ma aveva paura di dargli fastidio: per quanto il loro rapporto fosse molto fisico, temeva che quel gesto fosse troppo intimo per la loro relazione. 
Ma poi, improvvisamente, delle dita gentili presero ad accarezzargli la nuca, il collo, le braccia, e a Magnus prese a battere talmente tanto il cuore che per un attimo pensò che gli sarebbe uscito dal petto. Da quanto era diventato così sentimentalista?
-Buonanotte- sussurrò Alec al suo orecchio, inaspettatamente vicino, e il modello cercò la sua mano per intrecciare le sue dita a quelle dell’altro.
-Buonanotte-
Solo dopo qualche minuto, quando ormai il sonno cominciava ad annebbiare la coscienza di entrambi, Magnus si rese conto che la luce era spenta.
Il buio, stranamente, in quel momento non gli faceva così paura. 

***

Quando Alec entrò in casa dei suoi genitori, per il pranzo del giorno seguente, mai avrebbe immaginato che sarebbe andata a finire in quel modo. O per lo meno, non avrebbe mai immaginato che sarebbe successo proprio in quel momento, a tavola, con delle posate pericolosamente a portata di mano. 
Una volta arrivato, sua madre lo aveva accolto con un enorme sorriso e il suo fratellino minore, Max, gli era saltato addosso cominciando a raccontare di quanto l’esame finale della scuola superiore gli fosse andato bene. Alec rimaneva sconvolto tutte le volte che se lo ritrovava sotto il naso: cresceva a vista d’occhio, sembrava non fermarsi mai, ma per quanto maturasse il viso rimaneva quello di un ragazzino. Robert, suo padre, l’aveva salutato con una pacca sulla spalla, gesto falso come pochi, per poi sparire nel suo studio a terminare chissà quale bilancio per l’azienda di famiglia. Tutto nella norma insomma. Poco tempo dopo erano arrivati anche Jace e Isabelle, e nel giro di mezz’ora di erano riuniti a tavola per pranzare. Ed era cominciato il disastro.
-Allora Alec, come è andato il servizio a Miami?- domandò Maryse, sua madre, versandosi un bicchiere d’acqua. Jace, al suo fianco, ridacchiò.
-Nella norma direi, c’è stato parecchio lavoro da fare ma non me ne lamento-
-Lavoro eh?- borbottò Robert fissando concentrato il vino nel proprio bicchiere. -Immagino l’immane fatica-
Alexander bloccò a metà percorso la forchetta e sollevò lo sguardo costernato sul volto del padre. Avrebbe dovuto immaginare che sarebbe andata così, cosa c’era finito a fare lì? 
-Per quanto tu possa dubitarne, ti assicuro che ciò che faccio non è una passeggiata, papà- ribatté secco il ragazzo, mentre i suoi fratelli lanciavano occhiate preoccupate alla sua espressione glaciale. Lo sapevano, sapevano cosa succedeva quando Alec raggiungeva i suoi massimi livelli di arrabbiatura, soprattutto se si trattava del padre.
-Ha ragione, Robert- intervenne Jace, con tono allegro, cercando di sviare l’attenzione su di sé. -Abbiamo lavorato duro, per ore, senza fermarci. Sia io che Alec avevamo un tremendo mal di schiena a fine giornata. Per fortuna l’assistente del direttore ci ha amorevolmente accudito. Aveva una cotta paurosa per il mio fratellone- ridacchiò, e Maryse sorrise divertita.
-Era carina?- chiese Max, le labbra tese in una smorfia sarcastica. Alec alzò gli occhi al cielo, e scompigliò i capelli al fratello minore.
-Oh Maxwell, non credo che a tuo fratello interessi questo genere di cose, o sbaglio?-
Robert pronunciò quelle parole con un tono talmente giocondo che la falsità sembrava fuoriuscire da ogni sillaba. Isabelle quasi si strozzò con l’acqua, e Maryse lanciò al marito un’occhiata talmente furiosa che chiunque sarebbe scappato a gambe levate. Ma non Robert Lightwood, che fissava il figlio in attesa di una risposta. Alec provava una sorta di placida calma, come se tutto quello detto fino a quel momento non lo avesse scalfito di una virgola. In realtà, quello era il chiaro sintomo che precedeva ogni sua esplosione. Percepì le sue dita stringersi lentamente in due pugni, talmente forte che le nocche sbiancarono, e la mascella irrigidirsi fino a far male. 
-Cosa c’è Alexander?  Vuoi forse dirmi che ho torto?- domandò ancora Robert sporgendosi in avanti sulla sedia. -Vuoi forse dirmi che non ti stai vedendo con un modello di Vanity?-
Maryse mollò la forchetta nel piatto, ed Alec seppe immediatamente che quella, quella era la resa dei conti che suo padre aspettava da sempre. Il momento in cui avrebbe potuto finalmente rinfacciare al figlio il suo orientamento sessuale, per lui così oltraggioso, soprattutto per l’onore della famiglia. 
-E tu come lo sai?- sussurrò il ragazzo alla fine, mentre sua sorella chiudeva gli occhi e si portava una mano alle labbra. Sembrava sconvolta.
-New York è una città più piccola di come sembra, Alexander-
-E a quanto pare qualcuno ha una gran voglia di farsi gli affari miei- 
Alec si asciugò le labbra con un tovagliolo e lo posò delicatamente sul tavolo. Ogni suo gesto era controllato al millimetro, ma dentro stava ribollendo. Non avrebbe dato la minima soddisfazione a suo padre, se quello che voleva era vederlo reagire. Robert sembrava sempre più freddo, deluso, e il fotografo lo vide appoggiarsi alla spalliera della sedia senza smettere di fissarlo negli occhi.
-Non solo hai messo da parte la mia idea di farti gestire la nostra azienda per un lavoro da gay, ma ora ho anche la certezza di avere davvero un figlio frocio. Non so cosa sia più deludente- 
Qualcosa nel cuore di Alec si ruppe, e gli occhi presero a bruciargli con talmente tanta intensità da vedere annebbiato. Maryse sembrava sconvolta, guardava il marito con le palpebre spalancate; Max era una statua di marmo, tanto quanto Jace, che fissava Robert come se non lo avesse mai visto prima. Poi una sedia si scostò, strisciando sul pavimento, e Isabelle si ritrovò davanti al padre nel giro di pochi secondi: aveva i pugni serrati e uno sguardo omicida.
-Prova a dire ancora una volta una parola del genere su mio fratello e giuro su ciò che ho di più chiaro che te la farò pagare- sibilò, sbattendo alla fine la mano sul tavolo, a pochi passi da quella del padre. -Mai come in questo momento mi vergogno di essere tua figlia-
Alexander guardò sua sorella costernato, e una lacrima gli scivolò lungo la guancia, incapace di trattenerla. Si alzò a sua volta, asciugandosela in fretta, e prima che potesse fare altro Isabelle lo afferrò per una mano e lo trascinò fuori dalla sala, lungo il corridoio, fino alla porta d’ingresso. La osservò afferrare la sua giacca e la propria, le chiavi della macchina, e tempo pochi secondi erano in strada.
-Izzy..-
-Zitto, ho bisogno di calmarmi..-
-Iz..-
Alec la bloccò, prendendole delicatamente il volto tra le mani. Sua sorella aveva gli occhi arrossati e le tremava paurosamente il labbro inferiore, come quando da piccola cadeva dai pattini e non voleva piangere per puro orgoglio. La sua sorellina lo aveva difeso, come aveva sempre fatto, come lui faceva con lei. 
-La mia bellissima sorellina..- sussurrò il ragazzo, accarezzandole una guancia, e lei lasciò cadere la testa sulla spalla del fratello.
-Nessuno può trattarti a questo modo, nessuno..- 
-Non preoccuparti di questo- 
Alexander le aggiustò il colletto della giacca, consolandola mentre veniva consolato, e si sentì nel posto giusto, con la persona che amava di più al mondo, felice nonostante tutto. Stava per aprire bocca, per dire qualcosa capace di far sorridere sua sorella, ma dietro di loro la porta di casa si aprì di nuovo e ne uscirono Jace e Max, con le facce sconvolte e l’aria di voler prendere a calci qualcuno. Il biondo guardò Alec, un solo sguardo, e il fotografo capì all’istante ciò che voleva dirgli. Era sempre stato così tra loro due, come se ci fosse sempre stato un sottile legame che riuscisse a connettere le loro menti. Ma ciò che sorprese Alec più di tutto fu l’improvviso abbraccio di Max, alto quasi quanto lui, e il sospiro tremulo che lasciò le sue labbra. Sembrava trattenersi dal piangere.
-Io ti voglio bene Alec. Per me sei sempre Alec-
E lì, con ancora le parole di suo padre che gli risuonavano nella testa, le braccia di suo fratello attorno al collo, la mano di Iz nella sua e quella di Jace lungo la schiena, Alexander capì che non avrebbe potuto chiedere di meglio. Quella era la sua famiglia. 
Per un fugace istante, avrebbe tanto voluto che Magnus fosse stato lì con loro.
  
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