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Autore: JCM_    22/06/2016    5 recensioni
[Storia Interattiva. Nove posti disponibili. Iscrizioni aperte sino al 17/06]
Dal Prologo.
« Non vedo perché debba essere colpa mia. Il carro diviene sempre più restio a varcare le porte dell’Aurora e percorrere l’arco del cielo. Eppure io eseguo il mio lavoro alacremente e senza mai lamentarmi. Dovreste lodare il mio zelo, padre,» esclamò Apollo gesticolando animatamente come per scacciare da sé la minaccia.
[...]
« Le Praterie degli Asfodeli sono in subbuglio. Sempre più anime scompaiono risucchiate nella fossa. Thanatos riesce a stento a controllare che chi di dovere rimanga bloccato dall’altra parte.»
[...]
« Il sigillo della Notte è stato rubato,» esplicò Athena.
[...]
Nove semidei sotto lo stesso sigillo dovran partire
Se la Notte senza fine vorranno impedire.
Genere: Avventura, Introspettivo, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Nuova generazione di Semidei
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Primo capitolo
 
 
L'oscurità significa buio. Buio significa notte. E la notte significa che la caccia deve continuare.
Giorgio Faletti, Io uccido.
 
Il Campo Mezzosangue era immerso nel silenzio della notte, un’oscurità permeante e soffocante che non permetteva di scorgere le stelle, timide sentinelle di gioie e dolori mortali. 
La Luna non era che un miraggio, un accenno di colore in un cielo altrimenti nero. Sbuffi di nebbia la avvolgevano, celandola allo sguardo, spire di serpenti malevoli che avvelenavano ogni mite creatura, strisciando e incuneandosi nelle membra innocenti.
Mentre la notte più lunga dell’anno cedeva, titubante ed egoista, il posto al crepuscolo e il mondo ritornava ad illuminarsi di speranza, l’antico centauro trottava in cerchio nella grotta dell’Oracolo, lo sguardo puntato ora sulle pareti dipinte, ora sulla tenda viola che lo separava dalla natura, ora sulla donna che aveva fatto distendere pochi minuti prima.
Rachel s’era abbandonata ad un sonno tranquillo appena dopo aver pronunciato la profezia. Il volto, candido e ancora tempestato di lentiggini, appariva sereno come quello di una bambina, con lunghe ciglia ramate che sfioravano gli zigomi arrotondati. 
I versi della profezia navigavano alla deriva su zattere di ansia e turbamento nella mente del maestro immortale. 
Il sigillo di Nyx perduto.
L’infido reato.
Una nuova Grande Profezia. 
L’ultima aveva gettato gli dei nel caos costringendoli ad affrontare se stessi in una lotta intestina i cui echi ancora minacciavano di riaffiorare, tremendi e spaventosi.
Questa si preannunciava ancora più grave.
Chiron sospirò per poi scuotere il capo riccioluto. Era semplicemente inutile tormentarsi. La profezia era stata pronunciata, gli dei avevano parlato. Nove eroi sarebbero dovuti partire per sgominare la minaccia.
Fili d’argento si intrecciavano ai crini castani mentre rughe marcate gli aggrottavano la fronte e gli occhi. La coda folta spazzava inquieta l’aria circostante mentre gli zoccoli posteriori battevano sul pavimento facendo rimbombare i passi immobili tra le pareti.
Sembrava essere invecchiato di secoli in una notte sola.
Il maestro scosse il capo e si decise a lasciare la grotta dell’Oracolo. 
Rachel non avrebbe potuto mitigare il senso di infinita tristezza che nutriva nei confronti di quei giovani semidei ancora sconosciuti.
Aveva educato centinaia di ragazzi e li aveva amati tutti come figli, con l’amara consapevolezza che no, non avrebbe potuto mai proteggerli dai pericoli che quella vita di cicatrici e morte avrebbe causato loro.
Discese abile tra le rocce, osservando il mondo risvegliare con calma. Le cime delle conifere erano velate dal nevischio e in lontananza poteva udire l’Oceano Atlantico sibilare, abbattendosi con forza contro qualsiasi ostacolo trovasse dinanzi a sé. 
Poteva udire i versi delle fiere del bosco, i mostri sempre in agguato, pronti a sorprendere incauti semidei in fuga.
Percepiva il timido risvegliarsi delle ninfe che scuotevano, stiracchiandosi, le alte fronde gli alberi, e i satiri che intonavano nenie allegre per scuotere la pigra natura invernale.
Il Campo si era notevolmente ingrandito in quegli anni. Nuove dimore per divinità minori erano sorte lungo la spiaggia di Long Island, distanziandosi sempre più dall’omega originaria mentre essa si ampliava verso il padiglione a cielo aperto che s’affacciava sulla baita.
Case meravigliose che i figli avevano costruito in onore dei loro genitori in oziosi giorni d’Estate, tra un allenamento e una gara con le bighe.
La pace, però, era destinata a finire.
I pochi che trascorrevano l’Inverno al Campo erano ancora immersi nel mondo di Morpheus, ignari, inconsapevoli e felici. 
Tranne uno. 
Chirone aguzzò la vista, gli occhi attenti di un arciere abituato a catturare prede su lunghe distanze, e individuò un ragazzo alto, smilzo e con una zazzera di capelli castani aggirarsi nel perimetro della Cabina XIII, quella di Hades, il dio degli Inferi.
Il suo unico occupante si aggirava furtivo e irrequieto, tormentandosi il piercing al naso con dita frementi, borbottando qualcosa che il centauro non riusciva a comprendere.
Orion Parker non era mai stato un ragazzo facile. Arrivato al campo sei anni prima e mai ritornato nel mondo reale, quello dei mostri e dei mortali, era cresciuto tra allenamenti, battutacce e risse per la sua impertinenza.
« Orion,» lo richiamò Chiron, più autoritario di quanto avrebbe desiderato, mentre trottava verso di lui sollevando sbuffi di terriccio e sabbia.
Il ragazzo sobbalzò, sollevando gli occhi azzurri di scatto e puntandoli in quelli scuri del maestro. Erano iridi colme di sofferenza, di urla trattenute, rancore, iridi che facevano tremare, che celavano un passato pieno di privazioni e crimini efferati. 
Gli ricordarono per un attimo quelle del fratello, di Nico di Angelo, il ragazzo troppo solo che aveva attraversato oceani neri di odio e livore.
Orion ridacchiò imbarazzato, scuotendo il capo e facendo ricadere il ciuffo sugli occhi, per poi sciogliersi in sorriso esuberante e pieno di vita, una maschera che stancamente si trascinava per mostrare al mondo l’immagine del ragazzo perfetto.
Solo in quel momento il centauro notò che stava giocando con bic a forma di granata, quasi sicuramente proveniente dallo spaccio di Hermes e sgraffignato a qualche figlio di Ares. 
La fiamma, bluastra e flebile per la brezza invernale, appariva e scompariva ad ogni cenno nervoso del pollice. 
Indossava abiti troppo fini per quel clima e la peluria scura delle braccia era attraversata dai brividi. 
Alla cintura dei jeans scuri e pieni di strappi era assicurata una daga corta di ferro dello Styx, nero e inquietante, che il ragazzo aveva chiamato Arcobaleno. 
« Non stavo viaggiando nell’ombra. Lo giuro, maestro,» esclamò sollevando le braccia e rivolgendogli il suo ghigno più impertinente. 
Chiron sospirò e scosse il capo. 
Abusare dei poteri degli Inferi gli avrebbe fatto solo del male. 
Spingersi al limite soltanto per scommesse e stramberie non avrebbe portato a nulla di buono.
Orion era gracile come una canna di bambù e aveva occhiaie profonde, nere come la pece, che coprivano gli zigomi incavando un volto che già di per sé era asciutto.
« Debbo chiederti di avvertire gli altri capo-cabina che si terrà una riunione dopo colazione,» annunciò con tono greve mentre il campo incominciava ad animarsi con i chiacchiericci dei pochi semidei rimasti.
« Non mi dirà che ha abolito i giochi della morte? È la cosa più divertente che abbiamo qui,» si lamentò Orion mentre un broncio infantile gli arricciava le labbra carnose. 
Sarebbe potuto divenire un ottimo attore se non fosse stato un semidio. 
Chiron avrebbe definito i giochi in molti modi, ma divertente non rientrava tra questi. Pericolosi, folli, degni del più creativo figlio di Hephaestus. Ma non divertenti.
« I giochi si faranno,» commentò a malincuore il centauro.
Un sorrisetto malandrino gli arcuò le labbra carnose e per un attimo la luce nei suoi occhi azzurri sembrò sincera.
Chiron decise di non commentare. 
Che si godano la pace sino a quando la guerra non ci distruggerà tutti.
Si diresse trottando verso la Casa Grande, dopo aver rivolto un sorriso gentile al ragazzo, lasciandosi alle spalle le Case degli Dei e il padiglione della mensa.
Le pareti erano pitturate di un verde acceso, che ricordava il colore dell’erba appena tagliata e umida di rugiada, un verde caldo come la speranza.
L’antico centauro sorrise amaro a quel pensiero.
Rimembrava come se fosse accaduto l’attimo prima il giorno in cui i sette della profezia e i loro più cari compagni l’avevano verniciata, le loro risate che si rincorrevano nel vento mentre giocavano con la tempera, pitturandosi l’un l’altro.
Era stato poco dopo il matrimonio di Annabeth e Percy, il ventre della giovane figlia di Athena appena più accennato del solito. 
Appena entrato in casa, Chiron fu accolto da un ronfo basso e suadente come il rombo di un piccolo trattore. 
Il signor D. aveva gentilmente lasciato Seymour alle cure del campo quando era tornato sull’Olympus dopo aver scontato gli anni della sua punizione divina.  
Per molti era risultata una compagnia ben più piacevole di quella del dio.
« Chiron,» esclamò una voce femminea e autoritaria.
Il centauro si volse verso la fonte, individuandola in una ragazza che non dimostrava più di tredici anni, dai folti capelli ramati e ricci e dagli occhi argentei come la Luna. 
La dea Artemis era incorniciata in una bolla simile ad un arcobaleno appena sopra il tavolo da ping-pong e il paesaggio dietro di lei mostrava una foresta piena di conifere, non molto diversa da quella che circondava il Campo.
« Divina Artemis,» la accolse con un inchino, piegando le candide zampe posteriori e rivolgendole un sorriso accogliente, « In cosa posso esserti utile?»
« Le mie Cacciatrici giungeranno al tuo Campo in questi giorni. Il divino Zeus ha incaricato me e Apollo di investigare,» annunciò laconica la dea della caccia, non un suggerimento nella voce né negli occhi che rimasero distanti.
« Sul sigillo della Notte?» 
Il bel viso fu attraversato da un tremito di disapprovazione, le labbra deturpate da una smorfia che piegava le labbra sottili e rosee.
 « Noto che Rachel Elizabeth Dare ha pronunciato la profezia. L’operato di mio fratello è discutibile come al solito.» 
« Quindi è davvero perduto?» chiese Chiron, un senso di spossatezza estrema a scuotergli le membra.
Per un attimo aveva sperato di essere in errore, di aver sopravvalutato la minaccia, ma gli occhi della dea erano identici ai suoi in quel momento: antichi e preoccupati.
Artemis annuì seria e austera come le statue che erano state scolpite in suo onore.
« Si avvicinano tempi oscuri, antico maestro. Prepara i tuoi eroi.»
 
********
 
La Cabina XVI era immersa nel silenzio dell’alba, le sue pareti di avorio impreziosite da ruote dipinte erano accarezzate dalla luce fievole di un mattino di Dicembre. 
Il suo unico occupante riposava sereno, i capelli simili a un vortice blu sparsi sul cuscino candido, una lieve peluria castana a scurirgli le guance pallide, i tratti del viso distesi come quelli di un bambino. 
Era uno dei pochi semidei a non soffrire di incubi e visioni notturne. 
Come se avesse necessità di un altro motivo per sentirsi diverso. Inadatto. Insicuro. Passivo. 
Quando aveva scoperto di essere un semidio, Rex non voleva crederci. 
Quando una ruota di carro dorata era apparsa sul suo capo, poi, era quasi scoppiato a ridere istericamente. 
Sua madre non poteva essere la dea della fortuna. Era semplicemente ridicolo.
Rex aveva sempre confidato nella legge di Murphy. Se qualcosa può andar male, lo farà. Il toast cade sempre sulla parte imburrata. Se piove, alla fine diluvierà. 
Rex non credeva nella fortuna. 
S’era dovuto ravvedere quando sua madre gli era apparsa in sogno in mezzo alla taiga canadese, il suo luogo preferito al mondo, e gli aveva rivolto i suoi occhi blu addosso, scandagliandogli l’anima. Quello che aveva notato non doveva esserle piaciuto molto e Rex non se la sentiva di giudicarla troppo male. Neanche lui era molto contento di sé. 
Aveva scorto sua madre qualche altra volta, il viso ovale dai tratti delicati e la carnagione rosea di una bambina, gli occhi penetranti così simili ai suoi e insieme così diversi, i crini d’oro che ricordavano il vello sul pino di Thalia. 
Sua madre era reale.
Fin troppo. 
Era solo disinteressata a concedere un pizzico di fortuna al suo unico figlio mortale.
Un’ombra oscura attraversò la cabina materializzandosi in un angolo in ombra, a pochi centimetri dal ragazzo addormentato. 
Un luccichio azzurro brillò nelle tenebre mentre una risata bassa e sghignazzante permeava l’ambiente, carica di infantile malizia.
Qualcosa si gettò sopra di lui cadendo con tutto il suo peso sullo stomaco sopra le sue coperte calde e accoglienti.
Rex spalancò gli occhi blu di scatto, un mugolio di protesta soffocato ad artigliarli la gola, la fronte aggrottata in un’espressione offesa che fece ridere di gusto l’altro.
Orion era un asso negli scherzi idioti.
Non era la prima volta che il figlio di Hades appariva nella sua Cabina e sceglieva quell’infelice modo di destarlo dal mondo dei sogni.
« Buongiorno,» esclamò Orion con un sorriso folle che gli arcuava le labbra carnose e gli occhi azzurri che brillavano come fari nel buio. Il viso era così vicino al suo che Rex poteva notare l’arco perfetto delle sue occhiaie e l’esatta sfumatura della sua pelle pallida. 
Rex arrossì.
Maledetti figli di Hades.
Il ragazzo dai capelli blu mugugnò qualcosa di indistinto mentre tentava di scacciarlo via da sé agitando le gambe, ma Orion era più forte di lui. 
Se Rex era mingherlino, basso e fragile come un giunco, Orion era un combattente abile e ben piazzato e aveva sviluppato un’ottima resistenza ai viaggi-ombra e alla magia degli Inferi. 
« Orion,» biascicò Rex con la voce ancora impastata dal sonno mentre il moro si scostava dal suo stomaco per lasciarlo respirare. Non ci teneva proprio a mandarlo nel regno del padre.
Rex si portò il cuscino sopra la testa nella vana speranza che fosse soltanto un incubo.
Il ragazzo rise e glielo scostò di dosso mostrandogli ancora una volta che sua madre non gli sorrideva affatto.
Era curioso che un figlio di Tyche e un figlio di Hades fossero in così buoni rapporti.
Ad unirli era stato il fattore cognome. Per un’assurda coincidenza del caso i due ragazzi si chiamavano entrambi Parker.
Era la principale ragione per cui Orion gli s’era avvicinato la prima sera che Rex aveva trascorso al Campo, mentre i figli di Apollo cantavano Laggiù, sulle rive dell’Egeo e l’odore dei marshmallow faceva venire l’acquolina in bocca un po’ a tutti.
Rex, imbarazzato, aveva tentato di parlare, ma Orion poteva farlo per entrambi. 
Quel ragazzo sembrava instancabile e così pieno di vita che era assurdo che Hades non l’avesse ancora ripudiato.
« Chiron vuole parlare con i capo-cabina,» esclamò il figlio di Hades colpendo il suo ginocchio destro sopra le lenzuola. 
Rex tentò di non avvampare per quel contatto e si passò la mancina sugli occhi per allontanare i rimasugli di sonno.
Orion era bello come pochi altri ragazzi al Campo e il fatto che avesse palesemente dichiarato la propria omosessualità non aiutava affatto. 
Rex non ci sarebbe mai riuscito. Se ne vergognava sin troppo.
E, inoltre, sapeva benissimo di non poter essere ricambiato. Non aveva speranze. Non con quel naso tozzo, troppo grande per il suo viso, e quell’aria sempre trasandata come se avesse raccattato i suoi abiti alla mensa dei poveri.
« Che succede?» domandò portandosi a sedere contro la testiera del letto e massaggiandosi lo stomaco.
Pur essendo magro, Orion pesava un bel po’. Lo sguardo del moro volò alle pelle candida dell’addome lasciata scoperta dalla felpa grigia che usava per pigiama, alla linea di peli scuri che conduceva all’elastico dei pantaloni.
Orion si portò l’indice e il pollice al piercing sul naso e cominciò a giocarci mentre si passava la punta della lingua sul labbro superiore.
Rex, con la salivazione azzerata e nel petto un tamburo da guerra, tentò di soffermarsi su qualcos’altro. La chitarra elettrica era amorevolmente chiusa nella sua custodia ai piedi del letto. 
Il plettro azzurro che gli aveva regalato Alex anni prima scintillava sul comodino.
Oh, mille granellini di polvere svolazzavano dispersi nel vento. Che carini.
Quando si sentì sufficientemente padrone di se stesso, tornò a guardare Orion.
Notò in quel momento che indossava una t-shirt nera con sopra il logo dei Nirvana in oro. 
Sorrise leggermente. Kurt Cobain era il suo chitarrista preferito e sul suo plettro capeggiavano le sue iniziali. Era una delle cose a cui più temeva al mondo.
« Non lo so. Qualcosa di grosso,» replicò il moro passandosi la destra tra i capelli per allontanarli dagli occhi. Aveva ancora quel ghigno sarcastico impresso sulle labbra carnose e per un attimo Rex fu tentato di mollargli un pugno. Soltanto lui poteva trovare qualcosa di divertente in una situazione del genere.
« Fantastico.»
La legge di Murphy non si smentiva mai. 
 
*******
 
Le foglie crepitavano sotto i suoi passi accennati, appena più pesanti di quelli di una piuma.
Angelica avanzava a piedi nudi, il corpo esile di un usignolo scosso dal freddo di una notte senza Luna né stelle a proteggere dall’oscurità.
Gli occhi di un azzurro slavato, ciechi e insensibili, erano serrati, le ciglia frementi che sfioravano gli zigomi. 
I capelli castani, legati in due trecce disordinate e crespe, le sfioravano il volto magro in una carezza quasi paterna.
Avanzava per inerzia, sicura com’era che non avrebbe incontrato ostacoli sul suo cammino.
Il bosco era suo alleato, gli alberi sussurravano profezie e suggerimenti scossi da una brezza innaturale e antica quanto il mondo. La guidavano, la spronavano. Erano i migliori custodi di ogni sua machiavellica manipolazione.
Era il sogno di ogni notte. 
Per arrivare alla caverna doveva passare per il bosco. Per arrivare da suo padre, doveva fidarsi. Doveva abbandonarsi tra le braccia della sorte, senza temere l’ineluttabile. 
Fatale era sinonimo di mortale. E tutto ciò che era mortale, era mutevole. 
Erano le antiche regole del mondo. 
Tutti si inchinavano dinanzi al fato. 
Angelica era la prima adepta di quel credo.
Il suono si interruppe. Le foglie avevano lasciato il posto alla liscia pietra della caverna.
Umido e angusto, l’antro sembrava la bocca degli Inferi, ma Angelica non nutriva alcun timore.
Doveva arrivare sino in fondo per incontrare suo padre e il cammino non era mai lineare.
Un odore muschiato le solleticò il naso e l’umidità le si attaccò alla pelle, ma la ragazza non ci fece caso. 
Ticchettii di gocce cadute sulle pietre accompagnavano i suoi passi e una brezza gelida la incitava ad avanzare verso il centro.
Si lasciò guidare dall’olfatto mentre le piccole mani da bambina accarezzavano la pietra liscia e umida della caverna.
Infine giunse la nebbia. Asciutta e fredda si posò su di lei e Angelica si fermò.
Chinò il capo e si inginocchiò sul pavimento non curandosi del dolore alle ginocchia lasciate nude dal vestito che indossava.
« Papà,» chiamò la fanciulla, la voce esitante e colma di dolcezza, il mento sollevato e il volto che tentava di capire dove fosse la forma indistinta con cui suo padre si palesava dinanzi a lei.
Anche se avesse potuto scorgerlo, Moros non sarebbe stato distinguibile dalle pareti della sua grotta.
Il destino era effimero, non si lasciava sfiorare da dita mortali né immortali.
Sfuggiva persino allo sguardo del padre degli Dei.
« Guidami,» mormorò la ragazza in una preghiera a stento udibile. 
Soltanto le Parche sapevano quanto avrebbe desiderato poter scorgere suo padre anche solo una volta. Potergli parlare. Poter ricevere un segno della sua divina presenza.
Aggrottò la fronte.
Un suono basso e roco sembrava avvicinarsi dai più reconditi anfratti dell’antro.
Una cacofonia di sussurri via via crescenti rimbombavano tra le pietre lisce.
Milioni di mormorii concitati si rincorrevano nell’aria crescendo dall’abisso ed espandendosi sino al cielo.
Accerchiata da quei sibili maligni, Angelica sollevò le mani a proteggere le orecchie, la testa che le scoppiava. 
« Tre sono stati e tre sono ritornati ad essere.»
 
Note dell’autrice.
Ciao a tutti e ben ritrovati nel primo vero capitolo di questa storia. Spero vi sia piaciuto. Ho deciso di presentare i vari eroi un poco per volta per non creare troppa confusione. 
Dovrei riuscire a pubblicare un capitolo a settimana, ma dipende molto dall’ispirazione e dagli impegni universitari che avrò. 
Detto questo vi saluto.
Baci,
JCM_
   
 
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