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Autore: MadAka    22/06/2016    1 recensioni
Logan Jackson Miller – a tutti noto come Jack – è un personaggio tormentato. Dipendente da droghe, omosessuale, con una vita sentimentale complicata e con un progetto che desidera portare a termine fin troppo ardentemente. Un ragazzo destinato all’autodistruzione.
A impedire che ciò accada – facendolo a sua stessa insaputa – c’è Riley, la ragazza della porta accanto.
Un’amicizia forte la loro, un legame saldo, che in un momento di duplice debolezza si incrina profondamente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Davanti al Washington Hospital Center Riley si fermò. Scrutò l’ingresso dell’edificio per un lungo momento prima di avviarsi. Il taxi che l’aveva accompagnata fin lì era già ripartito e l’idea di fare dietro front e andarsene, venne allontanata solo grazie a una buona dose di determinazione.

Riley odiava gli ospedali; detestava tutto quello che vi era al loro interno: gli odori, i rumori, i macchinari, le siringhe. Da adolescente aveva dovuto trascorrervi dei mesi poiché la madre era in cura per una leucemia e quando la donna era riuscita a guarire la ragazza aveva ripromesso a se stessa che non avrebbe mai più messo piede in un ospedale se non strettamente necessario. Ogni volta varcare la soglia le richiedeva un grande sforzo e quella sera non fu da meno.

Davanti alle porte scorrevoli dell’ingresso Riley fece mente locale. Le possibilità che l’ambulanza che Benjamin aveva seguito fosse arrivata in quell’ospedale erano molte. Trattandosi del figlio del Segretario di Stato e dell’ex Presidente degli Stati Uniti, le procedure del pronto soccorso erano state certamente scavalcate e con tutta probabilità Jack era già stato ricoverato in una delle numerosissime stanze della struttura. Trovarlo era praticamente impossibile. Eppure Riley non fece caso alle limitate possibilità che aveva di ottenere informazioni sullo stato di Jack e, determinata, entrò nell’edificio.

Mentre si avvicinava a passo sicuro verso la reception si rese conto di non sapere cosa dire. Certamente Jack era stato registrato sotto un altro nome, era impossibile che lo avessero ricoverato con quello vero; era uno scoop troppo grande e i giornali di gossip non aspettavano altro se non sapere come mai Logan Jackson Miller era stato portato via in ambulanza dal night club che aveva appena inaugurato.

Arrivò dalle addette alla reception. Entrambe si voltarono a guardarla.

«Buonasera» disse la prima, dalla meravigliosa carnagione bruna.

Riley costrinse il suo cervello a pensare in fretta, molto in fretta.

«Buonasera» rispose.

Fece quanti più collegamenti possibili, tutti nella speranza di riuscire a indovinare il nome con cui probabilmente era stato registrato Jack appena giunto in ospedale.

«Stavo cercando una persona. È appena stata ricoverata qui» continuò, cercando di prendere tempo.

Improvvisamente la sua mente ebbe un’illuminazione. Una volta, tempo indietro, lei e Jack avevano affrontato una strana conversazione sui nomi. Il ragazzo le aveva rivelato di aver detto al padre che se mai avesse dovuto cambiare identità avrebbe voluto essere Daniel Carter*, definendolo come “il nome giusto per non essere più un Miller”.

«Di chi si tratta?» domandò l’addetta.

«Daniel Carter» rispose Riley, prontamente. Mantenne lo sguardo saldo, cercando di apparire sicura. Non le sfuggì il leggero sussulto che la donna ebbe quando lei smise di pronunciare il nome. Daniel Carter diceva loro qualcosa, lo intuì dalla fugace occhiata che le due si scambiarono. Per quanto poteva sembrare assurdo, Riley aveva fatto centro. Jack era lì come Daniel.

«Lei chi sarebbe?» domandò l’altra addetta, guardandola con diffidenza.

«In che senso?» chiese in risposta Riley, fingendosi ingenuamente colpita dalla domanda.

«Non possiamo dare informazioni sui pazienti se non ai parenti. E comunque qui non è ricoverato nessun Daniel Carter» aggiunse in gran fretta.

Fu la reazione che, al contrario, le diede la conferma di essere nel posto giusto.

Consapevole che non sarebbe riuscita a ottenere informazioni precise, la ragazza sollevò le sopracciglia, fingendosi sorpresa da ciò che le era appena stato detto. «Oh, accidenti. Eppure mi avevano detto che si trovava qui. Proverò a fare una chiamata. Grazie ugualmente.»

Si accontentò del debole “Prego” che entrambe le addette le rivolsero, dopodiché si diresse all’ingresso, fingendo di fare una telefonata. Dovette prestare particolare attenzione, ma appena si accorse che le due erano di spalle, intente a sistemare una voluminosa pila di carte, sgattaiolò in fretta e imboccò il primo corridoio che si trovò davanti.

L’una di notte era passata da un pezzo, ma svariati medici e infermieri incrociarono la strada di Riley. Lei li salutò tutti educatamente, fingendo di essere nel posto giusto e di sapere dove stava andando; se avesse dato nell’occhio poteva scordarsi di proseguire la sua ricerca, l’avrebbero certamente allontanata se avessero saputo chi stava cercando e dell’inesistente legame di parentela che la univa a Jack.

Per sua fortuna Riley conosceva quell’ospedale. I troppi giorni che vi aveva trascorso anni prima, quando vagava per i corridoi nella speranza di distrarre la mente dalla condizione fisica della madre, le avevano permesso di conoscere le ali in cui l’edificio era suddiviso e dove fossero i vari reparti. Fece mente locale senza fermarsi, sempre con lo sguardo alto e il passo sicuro. Salì al terzo piano, quello in cui vi erano i ricoveri d’urgenza. La zona era più trafficata e l’aria sapeva di sterile. Riley continuò a camminare, prestando attenzione a ogni particolare che avrebbe potuto permetterle di identificare in qualche modo la possibile presenza di Jack. Cercava il nome di Daniel Carter ovunque, ascoltava i medici e gli infermieri quando passava loro accanto nella speranza di sentirli pronunciare il suo nome, ma non ottenne nulla.

Le parve di girare a vuoto da un’eternità quando la sua attenzione venne attratta da due uomini, i completi scuri ed eleganti e lo sguardo imperscrutabile. La ragazza aveva imparato a conoscerli proprio grazie a Jack: erano addetti alla sicurezza. Sentendo un improvviso moto di gioia nascerle dentro, Riley osservò i due uomini per un lungo momento, infine si avviò verso di loro con il solo scopo di accertarsi con una fugace occhiata se era riuscita a trovare ciò che stava cercando.

«Signorina.»

Qualcuno la chiamò alle sue spalle, dal fondo del corridoio. Si voltò, notando un infermiere che la guardava, parendo preoccupato. Gli occhi di Riley si mossero in fretta, così come la sua mente, in cerca di qualche appiglio in grado di fornirle una valida scusa.

«Dove sta andando? Non può passare da questo corridoio.»

L’uomo le si avvicinò. Riley cercò di non scomporsi. Notò l’indicazione per la toilette proprio sul punto della parete accanto a cui era fermo l’infermiere e abbozzando un sorriso disse: «Sto… sto solo andando al bagno» si finse sorpresa.

Lui arrossì lievemente. «Oh, mi scusi. È solo che sarebbe meglio non passare da qui. Ma se deve andare solo al bagno faccia pure, mi scusi ancora.»

La ragazza lo ringraziò e consapevole che avrebbe dovuto rendere credibile la sua bugia, si avviò alla toilette. La porta del bagno era a metà del corridoio, ben prima della porta che i due addetti alla sicurezza continuavano a sorvegliare. Tuttavia Riley non ebbe più dubbi. Con il cuore che le martellava nel petto capì di non essersi sbagliata in tutta la sera. Le sue supposizioni, per quanto sarebbero potute apparire assurde e infondate, si erano rivelate vere. Una parte di lei si ritrovò a sperare intensamente di essersi sbagliata; si ritrovò a desiderare di aver pensato il peggio inutilmente, ma l’orrenda sensazione che provava da tutta sera non era mai andata via e in quel momento la fece sentire oppressa.

Uscì dal bagno e si diresse nel corridoio che si intersecava con quello in cui si trovava la stanza dove era ricoverato Jack. Prese posto su una delle panchine sistemate apposta per le persone in attesa e si sciolse i capelli, appoggiando la testa contro il muro. I liquidi occhi verdi si posarono sul pavimento, sferzato di tanto in tanto da qualcuno del personale che lo attraversava.

Si sentiva vuota e non aveva desiderato mai così intensamente come quella notte di avere torto. Jack era stato ricoverato d’urgenza proprio la sera in cui la sua nuova vita avrebbe dovuto avere inizio. Riley lo conosceva fin troppo bene e si chiese come era stato possibile che dopo cinque mesi in cui lui sembrava completamente cambiato, rinato e pulito, il ragazzo fosse precipitato ancora in quel baratro che in più occasioni lo aveva inghiottito, perché era certa che Jack si trovasse in quell’ospedale a causa della droga. Respirò a fondo più volte, rendendosi conto di essere impotente. Non poteva fare altro che aspettare e sperare con tutta se stessa che Jack se la cavasse. I pensieri peggiori la invasero e le fu impossibile scacciarli. Chiuse gli occhi nella speranza di riuscire ad alleviarli un po’ e dopo molti e lunghi sospiri, si addormentò.

 

*

Il sonno irrequieto di Riley venne interrotto dal rumore di numerosi passi che rimbombavano, sopraggiungendo verso di lei lungo il corridoio. Si voltò in quella direzione, sbattendo più volte le palpebre così da mettere a fuoco perfettamente ogni cosa. Rimase stupita da quello che vide. Riconobbe subito la donna che avanzava verso di lei; non ci riuscì solo grazie alle numerose testate giornalistiche su cui il suo volto era spesso riprodotto, né esclusivamente per via di tutte le volte in cui l’aveva vista in televisione mentre la scritta Segretario di Stato splendeva come un monito in sovrimpressione. Nicole Miller era la madre di Jack e furono proprio queste sembianze che permisero a Riley di riconoscerla immediatamente.

La presenza della donna fu l’ennesima conferma del fatto che la ragazza si trovava nel posto giusto al momento giusto e un ulteriore pensiero spiacevole si andò ad accumulare a tutti gli altri che lei aveva raccolto nell’arco della sera e della notte.

Rimase a guardare Nicole sfilarle davanti, l’espressione risoluta, seguita da un uomo, certamente la sua guardia del corpo.

Riley si mosse istintivamente; scattò in piedi. «Signora Miller» disse.

La guardia del corpo si voltò per prima, cominciando a fissare Riley con sospetto. La ragazza notò che si era irrigidita, probabilmente pronta ad agire in caso di necessità. Nicole si girò subito dopo, lo sguardo molto serio rivolto alla ragazza. Riley si sentì a disagio, ma arrivata a quel punto non aveva nessuna intenzione di demordere. Avrebbe saputo cos’era successo a Jack e, soprattutto, come stava.

Distolse un momento lo sguardo da quello di Nicole, facendolo vagare in fretta lungo il corridoio, infine riprese parola: «Signora Segretario» disse insicura, come per correggersi per averla chiamata con il proprio nome solo pochi attimi prima. «Mi scusi se la disturbo ma… vorrei sapere come sta Jack.»

Il cuore le premeva in gran fretta contro la gabbia toracica, come sul punto di schizzar fuori. Riley mantenne gli occhi saldi su Nicole, ma non le sfuggì il lampo che attraversò lo sguardo della donna. Era diffidente e continuava a fissare la ragazza con occhi gravi, come disgustata dal fatto che Riley le avesse rivolto la parola. Quest’ultima prese a tormentarsi le mani all’altezza della vita, innervosita dall’improvviso silenzio.

«E lei chi è?» domandò infine Nicole. Sembrava non avesse degnato di attenzione la domanda di Riley e continuava a fissare la ragazza con sospetto in modo altezzoso.

«Mi chiamo Riley. Non so se Jack le ha mai parlato di me, sono la sua vicina di casa.»

Ciò che aveva appena detto le suonò ridicolo. Si sentiva più di una semplice vicina di casa, ma era improbabile che a Nicole importasse qualcosa. La donna continuava a osservarla dall’alto, severa, con l’espressione di qualcuno che non ha voglia di perdere tempo.

«Sì, mio figlio me ne ha accennato» rispose Nicole, dopodiché indietreggiò di un passo, cosa che fece intuire a Riley che era in procinto di andarsene.

«Aspetti, la prego» la fermò la ragazza. Respirò a fondo cercando le parole migliori.

Doveva far capire alla donna che lei sapeva ciò che era successo a Jack proprio perché fra di loro c’era un legame molto più saldo di quello che condividono due persone che abitano accanto. Sperò che, così facendo, le venisse permesso di incontrare il ragazzo.

Riley si sentì indagata da due paia di occhi severi, ma nonostante tutto fece il possibile per apparire sicura. «Mi creda, conosco molto bene suo figlio. So tante cose di Jack e conosco…» si interruppe, cercando le parole migliori, infine abbassò lo sguardo. «Conosco quelli che sono i suoi sbagli. Voglio solo sapere come sta, dico davvero.»

Definire sbagli la dipendenza da sostanze stupefacenti le suonava strano, ma non aveva trovato termine migliore. Si morse il labbro in attesa della replica da parte di Nicole, non sapendo che altro aggiungere.

La risposta della donna non si fece attendere. Nicole parlò con voce austera, come Riley l’aveva sentita più volte fare in televisione o ai comizi; incuteva quasi timore. «Mi creda, signorina. Anche ammesso che mio figlio si trovi in questa struttura non permetterei mai a nessuno di vederlo o di sapere del suo stato di salute. Soprattutto a chi dice di conoscerlo bene. Buona giornata.»

Girò sui tacchi e si avviò senza aggiungere altro, seguita dalla sua guardia del corpo. Riley la guardò allontanarsi, sentendo il respiro mozzato. Nicole l’aveva trattata con una tale freddezza che non avrebbe creduto possibile e le informazioni che aveva raccolto su Jack erano vaghe come fumo. Tornò a sedersi sulla panchina, appoggiando nuovamente la testa contro la parete, un senso di delusione e sconfitta brucianti dentro di sé. La sua mente cominciò a ricordare le parole di una canzone a cui ripensava spesso e lei prese a mormorarne le strofe, mentre gli occhi cominciavano a bruciare per via di lacrime che pungevano sempre più insistenti.

«If you gave me a chance I wolud take it. It’s a shot in the dark but I’ll make it»

Non le importava se Nicole non le avrebbe permesso di vedere Jack, lei avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di sapere come stava, anche se ci sarebbero voluti dei giorni. Avrebbe aspettato.

 

*

 

Riley rimase in attesa sulla stessa panchina per tre giorni. Per tutte quelle ore non aveva mai perso la determinazione, né tantomeno la voglia, di sapere come stava Jack. Tuttavia, intorno alle sette di sera del terzo giorno, la sua fermezza cominciò a vacillare.

Ogni giorno era rimasta seduta su quella panchina, in quell’ospedale, uscendo solo al mattina presto per andare a casa a cambiarsi d’abito, a fare colazione e per prendere soldi a sufficienza per più caffè e due pasti alla caffetteria dell’ospedale; dopodiché ripercorreva il tragitto fino alla panchina e vi sistemava di nuovo, sempre in attesa.

Aveva incontrato Nicole ancora. Più volte in una giornata la donna le passava davanti senza degnarla di uno sguardo, mentre la guardia del corpo che la seguiva – sempre la stessa – scrutava la ragazza con diffidenza. Anche Connor e Benjamin passavano spesso, ma anche loro non parevano interessanti a sentire ciò che Riley aveva da dire, né di informarla sullo stato di Jack – sempre ammesso che fossero a conoscenza del perché la ragazza si trovasse lì.

A parte tutto ciò, Riley era piuttosto sicura che Jack si fosse ripreso. Il giorno prima il via vai di medici e infermieri intorno alla sua stanza si era fatto più insistente e la ragazza era rimasta vigile per poter catturare quante più informazioni possibili. Sentire una delle infermiere che diceva a un medico “Si è svegliato. Sì, si è svegliato” le aveva permesso di capire che la condizione di Jack doveva essere migliorata rispetto alla sera in cui lo avevano ricoverato, ma non la tranquillizzò più di tanto.

Il tempo che trascorreva sola, in un ambiente che non le aveva mai permesso di fare pensieri felici, l’aveva portata a compiere supposizioni e teorie su come potevano essere andate le cose prima che il ragazzo fosse portato via in ambulanza. Le ipotesi plausibili, però, sfociavano tutte nella stessa conclusione. Erano cinque mesi che Jack pareva rinato. Cinque mesi in cui, Riley lo aveva capito, alcol e droga non avevano potuto scalfire e abbattere il suo stato d’animo. La sera dell’inaugurazione, invece, le debolezze di Jack dovevano aver preso il sopravvento. Il bisogno fisico – o più probabilmente quello mentale – avevano impedito al ragazzo di superare l’allontanamento dai suoi vizi e lo avevano portato al confine fra la sopravvivenza e l’annullamento.

La ragazza cercò per l’ennesima volta di scacciare quei pensieri, desiderando ardentemente, ancora una volta, di essersi sbagliata. Poteva essere successo qualsiasi cosa a Jack, anche un malessere improvviso, un incidente di qualche tipo. Tuttavia una parte di lei continuava a ripeterle di non farsi illusioni e che quasi certamente le sue ipotesi non erano campate in aria. Riley lo sapeva, lo aveva sempre saputo che Jack era instabile, una figura che sarebbe potuta crollare da un momento all’altro. Aveva sempre voluto fare qualcosa per lui ma, complice anche quello che era avvenuto fra loro ormai mesi prima, non era mai riuscita a fare niente se non dimostrargli la sua amicizia e vicinanza quando lui ne aveva bisogno.

Si strinse nelle spalle, raggomitolandosi per quanto le era possibile fare stando a sedere sulla panchina in cui si trovava ancora. Dalle vetrate alle sue spalle il cielo cominciava a virare, intensificando le sfumature arancioni del tramonto imminente. Riley rimase a fissare il pavimento che aveva davanti nella remota speranza di riuscire a pensare ad altro, ma la sua sicurezza era davvero sul punto di scivolarle di dosso per separarsi definitivamente da lei. Sentì gli occhi che le si riempivano di lacrime, il respiro sempre più corto. Non voleva piangere. Non lo aveva fatto nei giorni precedenti, anche se era stata in procinto più volte e non lo avrebbe fatto neanche quella sera.

Ignorò completamente i passi lungo il corridoio, ormai ne sentiva così tanti che la lasciavano indifferente. Un paio di eleganti scarpe nere senza tacco si fermò sotto agli occhi della ragazza. Riley sollevò subito la testa, sorpresa. Davanti a lei era ferma Nicole Miller intenta a osservarla severamente come aveva fatto anche giorni prima. Questa volta era sola, non vi era traccia della sua guardia del corpo.

Riley resse lo sguardo, ma si convinse che, a breve, la donna l’avrebbe cacciata da quel posto – anche se si chiese come mai, se lo avesse veramente fatto, aveva aspettato tutto quel tempo. I secondi che rimasero a guardarsi rimbombarono nella testa della ragazza, che non riuscì a muoversi o a dire qualsivoglia cosa.

Nicole non staccò mai lo sguardo grave da Riley; tuttavia, improvvisamente, alla ragazza parve che una leggera sfumatura di tenerezza schiarì i suoi occhi castani. La donna ispirò a fondo prima di parlare.

«Mio figlio ha chiesto di te.»

 

 

 

 

 

*Daniel Carter : se alcuni di voi hanno già letto altri miei lavori, sapranno certamente quanto io sia appassionata – se non addirittura fissata – con il rugby. Lo sono a tal punto che mi piace “infilare” qualche riferimento a questo sport anche quando non c’entra niente.

Nel caso di questa storia, il riferimento al mondo rugbistico lo faccio attraverso il nome di Daniel Carter, ovvero il mediano d’apertura degli All Blacks, la nazionale a XV della Nuova Zelanda.

 

  
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