Davanti
al Washington Hospital Center Riley si fermò. Scrutò l’ingresso dell’edificio
per un lungo momento prima di avviarsi. Il taxi che l’aveva accompagnata fin lì
era già ripartito e l’idea di fare dietro front
e andarsene, venne allontanata solo grazie a una buona dose di
determinazione.
Riley
odiava gli ospedali; detestava tutto quello che vi era al loro interno: gli
odori, i rumori, i macchinari, le siringhe. Da adolescente aveva dovuto
trascorrervi dei mesi poiché la madre era in cura per una leucemia e quando la
donna era riuscita a guarire la ragazza aveva ripromesso a se stessa che non
avrebbe mai più messo piede in un ospedale se non strettamente necessario. Ogni
volta varcare la soglia le richiedeva un grande sforzo e quella sera non fu da
meno.
Davanti
alle porte scorrevoli dell’ingresso Riley fece mente locale. Le possibilità che
l’ambulanza che Benjamin aveva seguito fosse arrivata in quell’ospedale erano
molte. Trattandosi del figlio del Segretario di Stato e dell’ex Presidente
degli Stati Uniti, le procedure del pronto soccorso erano state certamente scavalcate
e con tutta probabilità Jack era già stato ricoverato in una delle
numerosissime stanze della struttura. Trovarlo era praticamente impossibile.
Eppure Riley non fece caso alle limitate possibilità che aveva di ottenere
informazioni sullo stato di Jack e, determinata, entrò nell’edificio.
Mentre
si avvicinava a passo sicuro verso la reception si rese conto di non sapere
cosa dire. Certamente Jack era stato registrato sotto un altro nome, era
impossibile che lo avessero ricoverato con quello vero; era uno scoop troppo
grande e i giornali di gossip non aspettavano altro se non sapere come mai
Logan Jackson Miller era stato portato via in ambulanza dal night club che
aveva appena inaugurato.
Arrivò
dalle addette alla reception. Entrambe si voltarono a guardarla.
«Buonasera»
disse la prima, dalla meravigliosa carnagione bruna.
Riley
costrinse il suo cervello a pensare in fretta, molto in fretta.
«Buonasera»
rispose.
Fece
quanti più collegamenti possibili, tutti nella speranza di riuscire a
indovinare il nome con cui probabilmente era stato registrato Jack appena
giunto in ospedale.
«Stavo
cercando una persona. È appena stata ricoverata qui» continuò, cercando di
prendere tempo.
Improvvisamente
la sua mente ebbe un’illuminazione. Una volta, tempo indietro, lei e Jack
avevano affrontato una strana conversazione sui nomi. Il ragazzo le aveva
rivelato di aver detto al padre che se mai avesse dovuto cambiare identità
avrebbe voluto essere Daniel Carter*, definendolo come “il nome giusto per non
essere più un Miller”.
«Di
chi si tratta?» domandò l’addetta.
«Daniel
Carter» rispose Riley, prontamente. Mantenne lo sguardo saldo, cercando di
apparire sicura. Non le sfuggì il leggero sussulto che la donna ebbe quando lei
smise di pronunciare il nome. Daniel Carter diceva loro qualcosa, lo intuì
dalla fugace occhiata che le due si scambiarono. Per quanto poteva sembrare
assurdo, Riley aveva fatto centro. Jack era lì come Daniel.
«Lei
chi sarebbe?» domandò l’altra addetta, guardandola con diffidenza.
«In
che senso?» chiese in risposta Riley, fingendosi ingenuamente colpita dalla
domanda.
«Non
possiamo dare informazioni sui pazienti se non ai parenti. E comunque qui non è
ricoverato nessun Daniel Carter» aggiunse in gran fretta.
Fu
la reazione che, al contrario, le diede la conferma di essere nel posto giusto.
Consapevole
che non sarebbe riuscita a ottenere informazioni precise, la ragazza sollevò le
sopracciglia, fingendosi sorpresa da ciò che le era appena stato detto. «Oh,
accidenti. Eppure mi avevano detto che si trovava qui. Proverò a fare una
chiamata. Grazie ugualmente.»
Si
accontentò del debole “Prego” che entrambe le addette le rivolsero, dopodiché
si diresse all’ingresso, fingendo di fare una telefonata. Dovette prestare
particolare attenzione, ma appena si accorse che le due erano di spalle,
intente a sistemare una voluminosa pila di carte, sgattaiolò in fretta e
imboccò il primo corridoio che si trovò davanti.
L’una
di notte era passata da un pezzo, ma svariati medici e infermieri incrociarono
la strada di Riley. Lei li salutò tutti educatamente, fingendo di essere nel
posto giusto e di sapere dove stava andando; se avesse dato nell’occhio poteva
scordarsi di proseguire la sua ricerca, l’avrebbero certamente allontanata se
avessero saputo chi stava cercando e dell’inesistente legame di parentela che
la univa a Jack.
Per
sua fortuna Riley conosceva quell’ospedale. I troppi giorni che vi aveva
trascorso anni prima, quando vagava per i corridoi nella speranza di distrarre
la mente dalla condizione fisica della madre, le avevano permesso di conoscere
le ali in cui l’edificio era suddiviso e dove fossero i vari reparti. Fece
mente locale senza fermarsi, sempre con lo sguardo alto e il passo sicuro. Salì
al terzo piano, quello in cui vi erano i ricoveri d’urgenza. La zona era più
trafficata e l’aria sapeva di sterile. Riley continuò a camminare, prestando
attenzione a ogni particolare che avrebbe potuto permetterle di identificare in
qualche modo la possibile presenza di Jack. Cercava il nome di Daniel Carter
ovunque, ascoltava i medici e gli infermieri quando passava loro accanto nella
speranza di sentirli pronunciare il suo nome, ma non ottenne nulla.
Le
parve di girare a vuoto da un’eternità quando la sua attenzione venne attratta
da due uomini, i completi scuri ed eleganti e lo sguardo imperscrutabile. La
ragazza aveva imparato a conoscerli proprio grazie a Jack: erano addetti alla
sicurezza. Sentendo un improvviso moto di gioia nascerle dentro, Riley osservò
i due uomini per un lungo momento, infine si avviò verso di loro con il solo
scopo di accertarsi con una fugace occhiata se era riuscita a trovare ciò che
stava cercando.
«Signorina.»
Qualcuno
la chiamò alle sue spalle, dal fondo del corridoio. Si voltò, notando un
infermiere che la guardava, parendo preoccupato. Gli occhi di Riley si mossero
in fretta, così come la sua mente, in cerca di qualche appiglio in grado di
fornirle una valida scusa.
«Dove
sta andando? Non può passare da questo corridoio.»
L’uomo
le si avvicinò. Riley cercò di non scomporsi. Notò l’indicazione per la
toilette proprio sul punto della parete accanto a cui era fermo l’infermiere e
abbozzando un sorriso disse: «Sto… sto solo andando al bagno» si finse
sorpresa.
Lui
arrossì lievemente. «Oh, mi scusi. È solo che sarebbe meglio non passare da qui.
Ma se deve andare solo al bagno faccia pure, mi scusi ancora.»
La
ragazza lo ringraziò e consapevole che avrebbe dovuto rendere credibile la sua
bugia, si avviò alla toilette. La porta del bagno era a metà del corridoio, ben
prima della porta che i due addetti alla sicurezza continuavano a sorvegliare.
Tuttavia Riley non ebbe più dubbi. Con il cuore che le martellava nel petto capì
di non essersi sbagliata in tutta la sera. Le sue supposizioni, per quanto
sarebbero potute apparire assurde e infondate, si erano rivelate vere. Una
parte di lei si ritrovò a sperare intensamente di essersi sbagliata; si ritrovò
a desiderare di aver pensato il peggio inutilmente, ma l’orrenda sensazione che
provava da tutta sera non era mai andata via e in quel momento la fece sentire
oppressa.
Uscì
dal bagno e si diresse nel corridoio che si intersecava con quello in cui si
trovava la stanza dove era ricoverato Jack. Prese posto su una delle panchine
sistemate apposta per le persone in attesa e si sciolse i capelli, appoggiando
la testa contro il muro. I liquidi occhi verdi si posarono sul pavimento,
sferzato di tanto in tanto da qualcuno del personale che lo attraversava.
Si
sentiva vuota e non aveva desiderato mai così intensamente come quella notte di
avere torto. Jack era stato ricoverato d’urgenza proprio la sera in cui la sua
nuova vita avrebbe dovuto avere inizio. Riley lo conosceva fin troppo bene e si
chiese come era stato possibile che dopo cinque mesi in cui lui sembrava
completamente cambiato, rinato e pulito,
il ragazzo fosse precipitato ancora in quel baratro che in più occasioni lo
aveva inghiottito, perché era certa che Jack si trovasse in quell’ospedale a
causa della droga. Respirò a fondo più volte, rendendosi conto di essere
impotente. Non poteva fare altro che aspettare e sperare con tutta se stessa
che Jack se la cavasse. I pensieri peggiori la invasero e le fu impossibile
scacciarli. Chiuse gli occhi nella speranza di riuscire ad alleviarli un po’ e
dopo molti e lunghi sospiri, si addormentò.
*
Il
sonno irrequieto di Riley venne interrotto dal rumore di numerosi passi che
rimbombavano, sopraggiungendo verso di lei lungo il corridoio. Si voltò in
quella direzione, sbattendo più volte le palpebre così da mettere a fuoco
perfettamente ogni cosa. Rimase stupita da quello che vide. Riconobbe subito la
donna che avanzava verso di lei; non ci riuscì solo grazie alle numerose
testate giornalistiche su cui il suo volto era spesso riprodotto, né
esclusivamente per via di tutte le volte in cui l’aveva vista in televisione
mentre la scritta Segretario di Stato
splendeva come un monito in sovrimpressione. Nicole Miller era la madre di Jack
e furono proprio queste sembianze che permisero a Riley di riconoscerla
immediatamente.
La
presenza della donna fu l’ennesima conferma del fatto che la ragazza si trovava
nel posto giusto al momento giusto e un ulteriore pensiero spiacevole si andò
ad accumulare a tutti gli altri che lei aveva raccolto nell’arco della sera e
della notte.
Rimase
a guardare Nicole sfilarle davanti, l’espressione risoluta, seguita da un uomo,
certamente la sua guardia del corpo.
Riley
si mosse istintivamente; scattò in piedi. «Signora Miller» disse.
La
guardia del corpo si voltò per prima, cominciando a fissare Riley con sospetto.
La ragazza notò che si era irrigidita, probabilmente pronta ad agire in caso di
necessità. Nicole si girò subito dopo, lo sguardo molto serio rivolto alla
ragazza. Riley si sentì a disagio, ma arrivata a quel punto non aveva nessuna
intenzione di demordere. Avrebbe saputo cos’era successo a Jack e, soprattutto,
come stava.
Distolse un momento lo sguardo da quello di
Nicole, facendolo vagare in fretta lungo il corridoio, infine riprese parola:
«Signora Segretario» disse insicura, come per correggersi per averla chiamata
con il proprio nome solo pochi attimi prima. «Mi scusi se la disturbo ma…
vorrei sapere come sta Jack.»
Il
cuore le premeva in gran fretta contro la gabbia toracica, come sul punto di
schizzar fuori. Riley mantenne gli occhi saldi su Nicole, ma non le sfuggì il
lampo che attraversò lo sguardo della donna. Era diffidente e continuava a
fissare la ragazza con occhi gravi, come disgustata dal fatto che Riley le
avesse rivolto la parola. Quest’ultima prese a tormentarsi le mani all’altezza
della vita, innervosita dall’improvviso silenzio.
«E
lei chi è?» domandò infine Nicole. Sembrava non avesse degnato di attenzione la
domanda di Riley e continuava a fissare la ragazza con sospetto in modo altezzoso.
«Mi
chiamo Riley. Non so se Jack le ha mai parlato di me, sono la sua vicina di
casa.»
Ciò
che aveva appena detto le suonò ridicolo. Si sentiva più di una semplice vicina
di casa, ma era improbabile che a Nicole importasse qualcosa. La donna
continuava a osservarla dall’alto, severa, con l’espressione di qualcuno che
non ha voglia di perdere tempo.
«Sì,
mio figlio me ne ha accennato» rispose Nicole, dopodiché indietreggiò di un
passo, cosa che fece intuire a Riley che era in procinto di andarsene.
«Aspetti,
la prego» la fermò la ragazza. Respirò a fondo cercando le parole migliori.
Doveva
far capire alla donna che lei sapeva ciò che era successo a Jack proprio perché
fra di loro c’era un legame molto più saldo di quello che condividono due
persone che abitano accanto. Sperò che, così facendo, le venisse permesso di
incontrare il ragazzo.
Riley
si sentì indagata da due paia di occhi severi, ma nonostante tutto fece il
possibile per apparire sicura. «Mi creda, conosco molto bene suo figlio. So
tante cose di Jack e conosco…» si interruppe, cercando le parole migliori,
infine abbassò lo sguardo. «Conosco quelli che sono i suoi sbagli. Voglio solo sapere come sta, dico davvero.»
Definire
sbagli la dipendenza da sostanze
stupefacenti le suonava strano, ma non aveva trovato termine migliore. Si morse
il labbro in attesa della replica da parte di Nicole, non sapendo che altro
aggiungere.
La
risposta della donna non si fece attendere. Nicole parlò con voce austera, come
Riley l’aveva sentita più volte fare in televisione o ai comizi; incuteva quasi
timore. «Mi creda, signorina. Anche ammesso che mio figlio si trovi in questa
struttura non permetterei mai a nessuno di vederlo o di sapere del suo stato di
salute. Soprattutto a chi dice di conoscerlo bene. Buona giornata.»
Girò
sui tacchi e si avviò senza aggiungere altro, seguita dalla sua guardia del
corpo. Riley la guardò allontanarsi, sentendo il respiro mozzato. Nicole
l’aveva trattata con una tale freddezza che non avrebbe creduto possibile e le
informazioni che aveva raccolto su Jack erano vaghe come fumo. Tornò a sedersi
sulla panchina, appoggiando nuovamente la testa contro la parete, un senso di
delusione e sconfitta brucianti dentro di sé. La sua mente cominciò a ricordare
le parole di una canzone a cui ripensava spesso e lei prese a mormorarne le
strofe, mentre gli occhi cominciavano a bruciare per via di lacrime che
pungevano sempre più insistenti.
«If you gave me a chance I wolud take it. It’s a shot
in the dark but I’ll make it…»
Non
le importava se Nicole non le avrebbe permesso di vedere Jack, lei avrebbe
fatto qualsiasi cosa pur di sapere come stava, anche se ci sarebbero voluti dei
giorni. Avrebbe aspettato.
*
Riley
rimase in attesa sulla stessa panchina per tre giorni. Per tutte quelle ore non
aveva mai perso la determinazione, né tantomeno la voglia, di sapere come stava
Jack. Tuttavia, intorno alle sette di sera del terzo giorno, la sua fermezza
cominciò a vacillare.
Ogni
giorno era rimasta seduta su quella panchina, in quell’ospedale, uscendo solo
al mattina presto per andare a casa a cambiarsi d’abito, a fare colazione e per
prendere soldi a sufficienza per più caffè e due pasti alla caffetteria
dell’ospedale; dopodiché ripercorreva il tragitto fino alla panchina e vi
sistemava di nuovo, sempre in attesa.
Aveva
incontrato Nicole ancora. Più volte in una giornata la donna le passava davanti
senza degnarla di uno sguardo, mentre la guardia del corpo che la seguiva –
sempre la stessa – scrutava la ragazza con diffidenza. Anche Connor e Benjamin
passavano spesso, ma anche loro non parevano interessanti a sentire ciò che
Riley aveva da dire, né di informarla sullo stato di Jack – sempre ammesso che
fossero a conoscenza del perché la ragazza si trovasse lì.
A
parte tutto ciò, Riley era piuttosto sicura che Jack si fosse ripreso. Il
giorno prima il via vai di medici e infermieri intorno alla sua stanza si era
fatto più insistente e la ragazza era rimasta vigile per poter catturare quante
più informazioni possibili. Sentire una delle infermiere che diceva a un medico
“Si è svegliato. Sì, si è svegliato” le aveva permesso di capire che la
condizione di Jack doveva essere migliorata rispetto alla sera in cui lo
avevano ricoverato, ma non la tranquillizzò più di tanto.
Il
tempo che trascorreva sola, in un ambiente che non le aveva mai permesso di
fare pensieri felici, l’aveva portata a compiere supposizioni e teorie su come
potevano essere andate le cose prima che il ragazzo fosse portato via in
ambulanza. Le ipotesi plausibili, però, sfociavano tutte nella stessa
conclusione. Erano cinque mesi che Jack pareva rinato. Cinque mesi in cui,
Riley lo aveva capito, alcol e droga non avevano potuto scalfire e abbattere il
suo stato d’animo. La sera dell’inaugurazione, invece, le debolezze di Jack
dovevano aver preso il sopravvento. Il bisogno fisico – o più probabilmente
quello mentale – avevano impedito al
ragazzo di superare l’allontanamento dai suoi vizi e lo avevano portato al
confine fra la sopravvivenza e l’annullamento.
La
ragazza cercò per l’ennesima volta di scacciare quei pensieri, desiderando ardentemente,
ancora una volta, di essersi sbagliata. Poteva essere successo qualsiasi cosa a
Jack, anche un malessere improvviso, un incidente di qualche tipo. Tuttavia una
parte di lei continuava a ripeterle di non farsi illusioni e che quasi
certamente le sue ipotesi non erano campate in aria. Riley lo sapeva, lo aveva
sempre saputo che Jack era instabile, una figura che sarebbe potuta crollare da
un momento all’altro. Aveva sempre voluto fare qualcosa per lui ma, complice
anche quello che era avvenuto fra loro ormai mesi prima, non era mai riuscita a
fare niente se non dimostrargli la sua amicizia e vicinanza quando lui ne aveva
bisogno.
Si
strinse nelle spalle, raggomitolandosi per quanto le era possibile fare stando a
sedere sulla panchina in cui si trovava ancora. Dalle vetrate alle sue spalle
il cielo cominciava a virare, intensificando le sfumature arancioni del
tramonto imminente. Riley rimase a fissare il pavimento che aveva davanti nella
remota speranza di riuscire a pensare ad altro, ma la sua sicurezza era davvero
sul punto di scivolarle di dosso per separarsi definitivamente da lei. Sentì
gli occhi che le si riempivano di lacrime, il respiro sempre più corto. Non
voleva piangere. Non lo aveva fatto nei giorni precedenti, anche se era stata
in procinto più volte e non lo avrebbe fatto neanche quella sera.
Ignorò
completamente i passi lungo il corridoio, ormai ne sentiva così tanti che la
lasciavano indifferente. Un paio di eleganti scarpe nere senza tacco si fermò
sotto agli occhi della ragazza. Riley sollevò subito la testa, sorpresa.
Davanti a lei era ferma Nicole Miller intenta a osservarla severamente come
aveva fatto anche giorni prima. Questa volta era sola, non vi era traccia della
sua guardia del corpo.
Riley
resse lo sguardo, ma si convinse che, a breve, la donna l’avrebbe cacciata da
quel posto – anche se si chiese come mai, se lo avesse veramente fatto, aveva
aspettato tutto quel tempo. I secondi che rimasero a guardarsi rimbombarono
nella testa della ragazza, che non riuscì a muoversi o a dire qualsivoglia
cosa.
Nicole
non staccò mai lo sguardo grave da Riley; tuttavia, improvvisamente, alla ragazza
parve che una leggera sfumatura di tenerezza schiarì i suoi occhi castani. La
donna ispirò a fondo prima di parlare.
«Mio
figlio ha chiesto di te.»
*Daniel Carter : se alcuni di voi hanno già
letto altri miei lavori, sapranno certamente quanto io sia appassionata – se non
addirittura fissata – con il rugby. Lo sono a tal punto che mi piace “infilare”
qualche riferimento a questo sport anche quando non c’entra niente.
Nel caso
di questa storia, il riferimento al mondo rugbistico lo faccio attraverso il
nome di Daniel Carter, ovvero il mediano d’apertura degli All Blacks, la nazionale a XV della
Nuova Zelanda.