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Autore: Tielyannawen    22/06/2016    2 recensioni
Sotto il cielo di Arda accade a volte che alcuni cammini si incontrino, legando indissolubilmente destini altrimenti separati.
Dal testo:
«Tu non dovresti essere qui... perché sei tornato indietro?», chiese con un filo di voce, lottando per non lasciarsi avvolgere dalle ombre.
«Perché non potevo abbandonarti. Tu ci hai mostrato la via quando la credevamo perduta e hai lasciato la tua casa, rischiando la vita per salvarci. È ora di pagare il nostro debito».

Dicono che la storia sia fatta da eventi straordinari, ma a volte sono proprio le piccole cose quelle di cui dobbiamo serbare ricordo.
Queste pagine ne sono memoria... perché in fondo tutti cerchiamo la nostra strada nel mondo.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bilbo, Elfi, Gandalf, Nani, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Come le radici della terra

Diversi anni dopo, Bilbo Baggins decise di mettere per iscritto le sue avventure, preoccupato che ciò che era stato potesse presto o tardi svanire nelle nebbie del tempo.
Quando il racconto giunse ai giorni lieti trascorsi a Gran Burrone, il suo cuore si fece più leggero, scaldato dal ricordo della bella dimora di Mastro Elrond. Egli, da buon hobbit quale era, la descrisse come “una casa perfetta, che vi piacesse il cibo, o il sonno, o il lavoro, o i racconti, o il canto, o che preferiste soltanto stare seduti a pensare, o anche se amaste una piacevole combinazione di tutte queste cose”. Tuttavia non aggiunse altro, convinto come molti che i semplici momenti della quotidianità non fossero materiale adatto per una buona storia.

 

*****
 

«Sei sicuro che sia la direzione giusta?».
«Assolutamente sì. Fidati, ci siamo quasi. È impossibile che mi sia sbagliato!».
«Sarà, ma a me questi corridoi sembrano tutti uguali; inoltre ho i miei buoni motivi per dubitare delle tue capacità. La vostra famiglia non è esattamente nota per il senso dell’orientamento».
«Ha iniziato a soffiare il vento?», urlò spaesata una terza voce.
Helan mise da parte le radici che stava tagliando e volse la testa verso l’ingresso dell’Erbario, da cui proveniva un gran vociare, accompagnato dall’eco di passi pesanti. Qualche istante più tardi quattro nani, tra i quali riconobbe l’arciere e il cantante, fecero capolino nella stanza, guardandosi intorno con curiosità. Erano giunti ad Imladris da un paio di giorni, eppure raramente li aveva visti allontanarsi dal Salone del Fuoco. Solo lo hobbit, Bilbo, faceva eccezione: lo si incontrava spesso nei cortili interni, dove gironzolava con le mani strette dietro la schiena e un’espressione estasiata dipinta sul volto.
«Benvenuti nell’Erbario. Ditemi, cosa posso fare per voi?», chiese Helan avvicinandosi ai visitatori.
Fu Kili il primo a parlare, rassicurato che fosse proprio lei ad occuparsi di quel luogo. Era stanco di incontrare elfi di cui non conosceva il nome e di non comprendere le parole che udiva. «Perdonateci per l’intrusione, mia signora. Vi presento Oin, lo speziale della nostra compagnia», esordì indicando il nano alla sua sinistra. «Purtroppo, durante lo scontro nella brughiera, la maggior parte delle erbe e dei medicamenti necessari per il nostro viaggio sono andati perduti. Vi chiediamo quindi la possibilità di rifornirci dai vostri magazzini. In cambio siamo disposti a pagare il giusto prezzo, o a lavorare, se ciò che abbiamo da offrire non fosse sufficiente».
Il giovane nano si lasciò sfuggire un sospiro quando ebbe finito di esporre la loro offerta. Non amava quello stile ampolloso e cerimoniale: non si adattava al suo temperamento e aveva il sospetto che facesse sembrare fasulle le sue parole. Fili invece sapeva sempre come farsi ascoltare.
Una mano affusolata si posò all’improvviso sulla sua spalla, stringendola leggermente, e il suo cuore mancò un battito. Per la seconda volta, Kili si ritrovò a sostenere quello sguardo intenso e gli parve che l’elfa volesse scavargli nell’animo, alla ricerca di qualcosa.
«Non sarà necessario, Cúnir», disse infine Helan, accennando ai ripiani lungo le pareti. «Chiunque bussi alle porte di Imladris troverà aiuto ed ospitalità. Perciò prendete ciò che vi occorre senza timore, perché non vi sarà mai chiesto alcun pagamento».
Un lampo di soddisfazione attraversò il volto serio del nano che rispondeva al nome di Oin. Egli abbassò la tromba che portava accostata all’orecchio e si diresse compiaciuto verso lo scaffale più vicino, iniziando a studiare il contenuto di alcuni vasi di vetro.
Helan lo osservò annusare con cautela polveri e unguenti, la folta barba grigia che vibrava mentre annuiva tra sé e sé, ma presto la sua attenzione fu richiesta altrove da qualcuno che si schiariva la voce.
Il cantante fece qualche passo avanti, il viso rischiarato da un sorriso allegro e cordiale. «Non credo che ci abbiano presentato, mia signora. Bofur, al vostro servizio! E questo è mio cugino Bifur. È un nano di poche parole, ma entrambi vi siamo grati per la gentilezza che ci avete dimostrato».
«È un onore fare la vostra conoscenza», rispose Helan scrutando il quarto nano. Era rimasto immobile e nel più completo silenzio, quasi vi fosse una barriera invisibile a frapporsi tra lui e il mondo esterno. Una terribile cicatrice gli deturpava la fronte e una benda sporca di sangue fresco gli copriva il collo. «Ditemi, vostro cugino è forse ferito?».
«Solo un taglio, ma fatica a rimarginarsi e Oin teme che possa infettarsi», spiegò Bofur.
«Non sono una guaritrice, ma credo di poterlo aiutare», propose Helan tornando verso il tavolo di pietra. «Con il suo e il vostro permesso naturalmente».
Bofur soppesò la proposta tormentandosi i baffi e scambiò un’occhiata titubante con Kili, che gli assestò una sonora manata d’incoraggiamento sulla schiena, per poi rivolgere un festoso cenno d’assenso in direzione dell’elfa.
Ogni suo gesto esprimeva entusiasmo e, prima di mettersi all’opera, Helan si sorprese a pensare che le sarebbe piaciuto vedere una simile spontaneità anche all’interno del suo popolo. Ma per gli elfi il tempo nella Terra di Mezzo stava ormai finendo e gruppi sempre più numerosi decidevano di intraprendere il lungo viaggio verso ovest. Tolse alcune fasce pulite da un cesto e si allungò verso un mazzo di piantaggine [1] che pendeva dal soffitto; le foglie erano ancora fresche e iniziò a pestarle con cura in un piccolo mortaio, per ottenere un composto che avrebbe favorito una rapida guarigione della ferita.
Impiegò diversi minuti prima di ritenersi completamente soddisfatta del risultato. «E ora vediamo questo taglio», disse prendendo il mortaio e chinandosi verso il silenzioso nano, mentre Bofur e Kili si facevano da parte. La benda aderiva strettamente alla pelle lesionata, tanto che Helan ritenne più saggio tagliarla, per poterla togliere con maggior facilità. Estrasse un coltellino dalla piccola borsa che portava sempre al fianco e avvicinò la lama al collo del nano.
Fu questione di un istante.
Gli occhi color carbone di Bifur, fino a quel momento quieti e distanti, si accesero di un furore selvaggio. Iniziò ad urlare e colpì Helan con forza, scaraventandola violentemente contro il tavolo. Nell’impatto il mortaio si frantumò in mille pezzi e diverse anfore rovesciarono il loro contenuto sul pavimento.
Accasciata a terra, l’elfa cercò di calmare i battiti del proprio cuore. La caduta aveva risvegliato i segni ormai sbiaditi lasciati sul suo corpo dalla battaglia contro i mannari, ma non era il dolore a turbarla. In quella stanza si era sempre sentita al sicuro e mai avrebbe pensato di poter essere aggredita tra le mura di Imladris. Eppure si era lasciata cogliere alla sprovvista. Forse avevano ragione Erestor e tutti coloro che ritenevano i nani un pericolo per la valle. Era stata una sciocca a fidarsi di chi non conosceva.
Fece per rialzarsi e sorprendentemente una mano fu subito pronta ad aiutarla. La presa di Kili era salda, ma tradiva una certa esitazione, e l’autunno nel suo sguardo era offuscato dalla preoccupazione. Alle sue spalle, Oin e Bofur erano impegnati a trattenere Bifur, il quale continuava ad agitarsi tra le braccia dei compagni. Quando si voltò verso di lei, la fissò, ma senza l’odio che Helan si aspettava di cogliere. Non c’era alcuna traccia d’ira o rancore in lui, solo paura. E l’elfa capì che l’aveva assalita soltanto perché si era sentito minacciato dai suoi gesti.
«State bene, mia signora?».
La voce nervosa di Kili si fece strada tra i suoi pensieri. Nonostante si fosse rimessa in piedi, il nano era rimasto accanto a lei ed Helan sapeva che stava aspettando di conoscere la sua reazione. Avrebbe gridato per chiedere aiuto? Li avrebbe fatti cacciare dalla valle? Queste e molte altre domande si rincorrevano sulla fronte aggrottata dell’arciere.
«È tutto a posto. Un semplice equivoco dovuto ai miei movimenti bruschi. Come vi dicevo, non sono una guaritrice», rispose infine. Non avrebbe fornito pretesti che potessero dar vita a uno scontro. «Ma ora dovete andarvene, arriveranno presto a controllare e non devono trovarvi qui. Prendete le scale sulla destra e poi seguite il porticato, vi condurrà vicino al Salone del Fuoco. Fate in fretta».
Senza indugiare oltre, Oin afferrò la manica di Kili, che era rimasto immobile con la bocca spalancata, e lo trascinò fuori dalla stanza. Dietro di lui, Bofur raccolse ciò che restava del mortaio e sospinse il cugino verso la porta, fermandosi però sulla soglia. «Birashagimi [2]», mormorò con tristezza, poi si allontanò. Non si era voltato ed Helan non seppe mai se quella parola sussurrata, di cui non conosceva il significato, fosse davvero rivolta a lei.
Qualche mattina più tardi, l’elfa trovò un mortaio di legno chiaro di fronte all’entrata dell’Erbario. Era semplice, ma intagliato con grande abilità. Si guardò intorno e scorse Bifur che la osservava nascosto tra le ombre delle colonne. Gli fece cenno di avvicinarsi, ma il nano scosse il capo con decisione, limitandosi ad eseguire uno strambo inchino. Helan sorrise, ma egli non se ne accorse, perché la sua mente era già altrove, dove nessuno poteva raggiungerlo.

 

Quella notte Kili non riuscì a prendere sonno. Dopo aver udito quanto era accaduto, suo zio non aveva usato parole troppo dure e Fili lo aveva intrappolato in una stretta solidale, ma non era bastato per tranquillizzarlo. Sentiva di aver deluso tutti coloro che lo circondavano. La sua famiglia, i suoi amici, persino l’elfa che li aveva salvati dalle fauci dei lupi selvaggi.
Si mise seduto e fece scorrere lo sguardo sulle figure sdraiate attorno al fuoco. Accanto a lui Fili dormiva sereno, ma mentre infilava gli stivali lo sentì mormorare una frase. Non ne colse il senso, ma riconobbe un certo nome e con un moto d’affetto gli rimboccò la coperta, come faceva loro madre quando erano bambini.
Badando a non turbare il riposo dei compagni, si lasciò alle spalle i suoni familiari e il confortevole calore del salone. Nonostante l’arrivo dell’estate fosse ormai prossimo, all’esterno l’aria era pungente e avvolse Kili in un freddo abbraccio. Il nano rabbrividì e sollevò il bavero della casacca, rimpiangendo di non aver indossato il mantello.
Un passo dopo l’altro, si addentrò nei meandri di quella dimora che pareva sospesa al di fuori del mondo. Le lanterne creavano pozze di luce che illuminavano il suo passaggio e voci invisibili si perdevano nei corridoi, dandogli l’impressione di camminare in un sogno. Nessuno gli venne incontro, anche se in un paio di occasioni credette di scorgere delle sagome slanciate muoversi poco distante da lui; ma ogni volta che tentò di avvicinarsi scomparvero, tanto da fargli pensare di averle immaginate.
Non aveva una meta, perciò quando colse il suono della cascata decise di seguirlo.
Giunse ad un piccolo spiazzo illuminato dalla luna. Lì la timida brezza che accarezzava le aiuole fiorite nei cortili interni soffiava con maggior forza, portando con sé un profumo intenso, che rammentò a Kili i lunghi pomeriggi invernali della sua infanzia, trascorsi a sgranocchiare pane appena sfornato e ad ascoltare racconti di eroi davanti al camino. Sotto i suoi piedi il pavimento di pietra tremava, scosso dall’inarrestabile potenza della cascata. Spinto dalla curiosità, afferrò la balaustra e si sporse verso il basso, trovandosi di fronte uno spettacolo mozzafiato: l’urlo del vento gli riempì le orecchie, gareggiando con la poderosa voce dell’acqua, che cadeva via come lucente argento fuso, perdendosi nel buio sottostante.
«Sembra proprio che tu voglia scoprire tutti i miei segreti».
Kili si irrigidì, voltandosi in fretta. All’inizio non vide nulla e fu solo perché lei decise di mostrarsi che riuscì infine a scorgerla. Sedeva su una sporgenza rocciosa ad un paio di metri d’altezza, nascosta tra le fronde di alcuni arbusti dalle piccole foglie lanceolate, le braccia allungate attorno alle gambe raccolte e il mento appoggiato sulle ginocchia. Stava immobile, simile a una statua solitaria e dimentica dello scorrere del tempo.
«Per un momento ho creduto che la cascata mi stesse parlando e che la ragione mi avesse abbandonato. Voi Elfi sapete essere fastidiosamente silenziosi», borbottò Kili scuotendo la testa.
«E voi Nani siete fastidiosamente permalosi», ribatté Helan.
Erano partiti col piede sbagliato, non c’era alcun dubbio. Fu l’elfa la prima a riprendere la parola.
«Ma forse hai ragione. A volte dimentichiamo quanto il nostro modo di vivere possa apparire diverso e remoto agli occhi degli altri popoli. L’esistenza degli Eldar segue un ritmo a sé stante, per questo tanti tra noi decidono di lasciare questo mondo».
«Beh, quanto all’attaccamento per le proprie tradizioni nessuno può competere con un nano. Siamo gelosi, diffidenti e, sì, anche permalosi di tanto in tanto. Perciò non ti scusare Thalhiril», rispose Kili, stranamente soddisfatto di vederla sorridere al suono di quel soprannome. Gli era parso che il discorso l’avesse resa malinconica, ma avrebbe potuto sbagliare, perché, nonostante si ritenesse un buon osservatore, faticava non poco a decifrare le emozioni degli Elfi. Per la barba di Durin, a volte non riusciva nemmeno a distinguere tra maschi e femmine!
Nel silenzio che seguì, il nano si sedette sulla balaustra con le gambe a penzoloni nel vuoto. «Questo posto è meraviglioso!», esclamò fissando lo straordinario paesaggio che li circondava.
«Lo è davvero», affermò Helan, gioendo di quella genuina ammirazione. «Ogni minuscolo particolare mi è caro e nel corso degli anni ho imparato a conoscere ogni albero e ogni pietra come me stessa. Grande è il mio affetto per Imladris e so che non potrò mai ripagare il debito che ho nei confronti di questa valle, che si è dimostrata una casa accogliente, un rifugio sicuro per un’orfana come me».
«Orfana? Non può essere!».
Sconcertato, Kili si accorse troppo tardi di aver espresso con foga i suoi pensieri. Dal canto suo, l’elfa non lasciò trasparire alcuna reazione, ma quando parlò la sua voce suonò cupa, come se una luce in lei si fosse spenta all’improvviso: «Potrà sembrarti strano, ma persino gli Eldar non sono immuni alla morte. Se trafitti al cuore da una freccia, cadiamo, al pari di un cervo o di qualunque altro figlio di Iluvatar [3]».
«Non è per questo…», tentennò Kili, tentando di spiegarsi, «è che io credevo… Balin riteneva che vista la tua posizione… insomma ero certo che fossi la figlia…».
Helan sospirò di fronte alla confusione del nano e il suo spirito in tumulto si placò, perché egli non poteva conoscere il suo passato. Alzò il viso verso il cielo notturno e prese a raccontare: «Capisco. Ebbene, in realtà hai ragione e torto allo stesso tempo. Mastro Elrond è l’unico padre che io abbia mai conosciuto. Egli mi ha salvata e si è preso cura di me, crescendomi con amore, eppure non appartengo alla sua nobile discendenza. La sola figlia del Signore di Imladris si chiama Arwen, ma ormai da molti secoli dimora presso i parenti materni, sul lato orientale degli Hithaeglir [4]. Quanto a me, coloro che mi diedero la vita non camminano più su questa terra». Pronunciare l’ultima frase riportò irruentemente a galla antiche inquietudini, a lungo sopite, ma mai dimenticate. Le fu difficile trovare la forza per non perdersi nell’amarezza dei suoi pensieri, ma quella fiamma sconosciuta che avvampava nel suo petto la spinse a proseguire. «I miei genitori erano esploratori, curiosi e spensierati, sempre in cerca di sentieri nuovi e luoghi sconosciuti. Nemmeno l’attesa di un figlio li distolse dal desiderio di conoscere il mondo. Quando venni alla luce, mia madre era sola e morì durante il parto; sconvolto dal dolore, mio padre la raggiunse presto e perì pochi giorni più tardi, durante una sortita contro gli orchi che tuttora infestano queste montagne. Una parte di me è convinta che cercasse la morte, sentendosi colpevole per aver abbandonato la moglie nell’ora del bisogno. Questo è ciò che accadde e fu così che divenni un’orfana. Ogni altro particolare sulla mia famiglia mi è ignoto e persino i loro nomi sono avvolti dal mistero, poiché Mastro Elrond non ha mai voluto pronunciarli. Nonostante vivessero fuori dai confini di Imladris, credo fossero legati da una profonda e sincera amicizia, il cui ricordo ancora oggi lo fa soffrire terribilmente. Non riuscendo a sopportare il tormento che leggevo in lui ogni volta che affrontavo l’argomento, ho smesso di domandare. Nessuna risposta me li avrebbe restituiti, così ho scelto di andare avanti ed ho vissuto un’esistenza felice, nonostante non mi sia rimasto nulla di loro, se non questo gioiello e il nome che scelsero per me. Helan, dono del ghiaccio [5]».
Kili aveva ascoltato assorto, stupito che l’elfa volesse condividere con lui le sue origini e soprattutto il segreto del suo nome. Per i Nani i nomi, o meglio i loro veri nomi, i loro “nomi oscuri”, erano qualcosa di estremamente prezioso, da pronunciare di rado e soltanto nelle profondità delle loro dimore di pietra. Costituivano un’intuizione, una scintilla lasciata da Mahal nel cuore delle sue creature, per aiutarle a scoprire la propria natura. «Un nome alquanto suggestivo», concordò, «eppure non ho notato davvero nulla di gelido od inospitale in te».
«Ti ringrazio», mormorò Helan con un sorriso stanco. «Essendo nata durante un rigido inverno, non è così singolare che il mio nome ne ricordi il freddo. E forse per i miei genitori fui davvero un dono, sebbene non passi giorno senza che mi chieda se, in realtà, io non sia stata la causa della loro rovina».
Quelle ultime parole vibrarono nell’aria per un istante, prima d’essere inghiottite e trascinate via dal rombo della cascata, come se non fossero mai esistite. C’era in esse una solida rassegnazione e Kili fu certo di non ingannarsi quando vide una lacrima attraversare la guancia dell’elfa. Per la prima volta da quando l’aveva incontrata, si concesse di osservarla con attenzione, protetto dalla distanza e dalle ombre della notte. Alta all’incirca sei piedi, si muoveva con la grazia di un giunco di palude, flessuoso e sottile, tuttavia pareva possedere una tempra tenace, assai difficile da spezzare; il viso affilato era incorniciato da una folta chioma di boccoli bruni, le cui sfumature ricordavano i mille colori dei tronchi dei pini che crescevano nei boschi ai piedi delle Montagne Blu. Ciò che più colpiva in lei erano però i suoi occhi: antichi e impenetrabili, ma non di quel grigio brillante e intimidente così comune tra il suo popolo, bensì marroni, caldi e profondi come le radici della terra.
Lontano, in uno dei giardini, un usignolo fece udire la sua melodia ed Helan infine si riscosse, simile ad una barca che dopo la burrasca ritrovi finalmente la rotta verso un attracco sicuro. «Suvvia, basta indugiare in tristi discorsi! Mi piacerebbe sentire qualche racconto riguardo la tua gente, ma sospetto che ne esistano ben pochi che gli Elfi possano conoscere».
«Nessun Nano degno di questo nome rivelerebbe le nostre storie ad un Elfo», confermò Kili raddrizzando la schiena con orgoglio.
«Den istannen [6]», esclamò l’elfa scuotendo la testa.
L’arciere non comprese la frase, ma il tono lievemente ironico con cui era stata pronunciata lo divertì. Forse persino tra gli Elfi esisteva il senso dell’umorismo. «Fammi pensare… Credo che potrei parlarti di mia madre, così non verrebbe violata alcuna regola. È una nana fiera, una vera discendente di Durin, e la sua parola è da sempre tenuta in grande considerazione. Sono in molti a cercare il suo consiglio, poiché possiede prudenza ed un infallibile intuito. Somiglia incredibilmente a Thorin nell’aspetto, sebbene con lineamenti più delicati, ma guai a lasciarsi ingannare dalla dolcezza dei suoi tratti. La collera di Dis, figlia di Thrain, potrebbe far tremare un’intera montagna!».
«Sembra una donna determinata», disse Helan, osservandolo animarsi mentre raccontava della madre. Rischiarato dal pallido chiarore lunare, il nano le parve assai più giovane di quanto avesse immaginato ed ella fu conscia dell’ineluttabile fugacità dell’esistenza mortale. Lo vide annuire e portare una mano al petto, per stringere qualcosa che teneva nascosto tra le pieghe della casacca all’altezza del cuore.
«Lo è davvero!», asserì Kili facendosi pensoso. «Mi manca, più di quanto avrei creduto. Ha lottato fino all’ultimo perché non partissimo e temo che la nostra decisione le abbia spezzato il cuore».
«Quando non ero che una bambina, possedevo una spiccata tendenza alla fuga. Non ricordo da cosa scappassi o verso cosa corressi, sapevo solo di doverlo fare. Un giorno Celebrian, Signora di Imladris, disse che era inutile tentare di fermarmi, perché nelle mie vene scorreva il vento selvaggio».
«E poi cos’è successo?», chiese Kili dubbioso. Lui non era fuggito per capriccio, aveva intrapreso una missione che avrebbe portato onore alla sua famiglia.
Helan si alzò in piedi e allargò le braccia, quasi volesse spiccare il volo. «Col passare degli anni ho smesso di fuggire e fortunatamente si è scoperto che nelle mie vene scorreva solo sangue. Eppure, di tanto in tanto, il vento continua a cantare per me. Così la notte vengo qui, ad ascoltare la sua voce!». Detto ciò, si lasciò cadere verso lo spiazzo sottostante, atterrando accanto al nano in un turbinio di seta bianca. «Non pentirti delle decisioni dettate dal cuore, Cúnir. Coloro che ti amano capiranno e col tempo accetteranno le tue scelte. Ne sono certa. Ed ora vai», aggiunse, «perché l’alba è vicina e tu hai bisogno di riposare».
Confortato dalle parole dell’elfa, Kili prese congedo con un inchino e si allontanò, salvo poi ritornare frettolosamente sui propri passi. Lei era ancora là, ferma dove l’aveva lasciata, come se si aspettasse di vederlo comparire di nuovo. «Riguardo a quanto è avvenuto oggi nell’Erbario, che cosa hai raccontato?», le domandò, studiando di sottecchi la sua reazione.
La risposta fu pronta e non tradì alcuna esitazione: «Ho detto di essere scivolata sul pavimento umido».
«E ti hanno creduto?», indagò Kili. Era sempre stato un pessimo bugiardo, ma forse gli Elfi sapevano mentire meglio di lui.
«Non credo proprio», replicò Helan sospirando. «Perché tu lo sappia, di norma gli Elfi non scivolano accidentalmente. Ma non mi hanno fatto altre domande e con un po’ di fortuna la storia non arriverà alle orecchie sbagliate prima della vostra partenza».

 

*****
 

I giorni scivolavano via velocemente e anche i più ritrosi fra i nani dovettero ammettere che forse quegli elfi non avevano in animo di tendere loro un agguato durante il sonno. Il solo a fare eccezione era Dwalin, che continuava imperterrito a montare la guardia all’ingresso del salone, una mano sempre stretta intorno all’impugnatura del suo martello da guerra. Anziché rischiararsi, il volto del guerriero si era fatto più cupo ad ogni sorgere del sole, ma Fili non se la sentiva davvero di biasimarlo. Di certo Dwalin aveva i suoi buoni motivi per non fidarsi.
Il nano sbuffò, scostando una ciocca di capelli che gli cadeva davanti agli occhi, e riprese ad affilare le armi sparse di fronte a sé. Molti trovavano quel compito noioso e monotono, ma per Fili i lenti movimenti di una lama sulla pietra umida erano il rimedio perfetto per allontanare i dubbi che gli affollavano la mente. I ricordi dell’ultima notte che aveva trascorso sulle Montagne Blu continuavano a far breccia nei suoi sogni. Era stato troppo avventato.
Per questo ora se ne stava seduto in disparte all’aria aperta, la schiena scaldata dai tiepidi raggi del sole pomeridiano, mentre i suoi compagni inventariavano, in modo assai chiassoso, le loro provviste. L’ennesimo fruscio lo spinse ad interrompere il lavoro e voltarsi verso i cespugli alla sua destra. «Puoi anche uscire da lì, ti assicuro che non ho intenzione di farti del male», esclamò, stiracchiando i muscoli indolenziti.
La siepe parve scuotersi e dal groviglio di foglie sbucò un bambino. Non era un elfo e non poteva aver visto più di una decina di inverni, eppure vi era qualcosa di insolito nei suoi vibranti occhi azzurri, un’aura di nobiltà che non passava inosservata. «Sei tu che hai cavalcato con Helan?», chiese studiando il nano con interesse.
Fili non si aspettava quella particolare domanda. I pochi ragazzini incontrati durante i suoi viaggi gli avevano chiesto come mai fosse così basso e se esistessero femmine tra i nani. «No, è stato Kili, mio fratello minore. Lei lo ha salvato dai lupi selvaggi». “Io invece non sono stato capace di aiutarlo e ho rischiato di perderlo per sempre”, pensò con rabbia.
Il bambino lo fissò per qualche istante, poi sorrise e andò a sedersi accanto a lui. «È stato fortunato! Helan è una buona amica e non esiste cavallo più veloce di Alagos. Un giorno anche io cavalcherò insieme a loro», affermò allegro, protendendosi verso le daghe e i pugnali appena affilati. «Sono tutte tue queste armi? Chi le ha forgiate? Ti ha insegnato tuo padre come usarle?».
Tanta briosa curiosità rallegrò Fili, che si affrettò a rispondere a quella pioggia di interrogativi: «Tutte le armi che vedi mi appartengono e sono state create dai migliori fabbri delle Montagne Blu. Purtroppo mio padre non era un guerriero, ma un architetto, così è stato mio zio ad istruirmi nel combattimento».
«Nemmeno mio padre potrà mai insegnarmi», disse il bambino facendosi serio, «e il cuore mia madre piange mentre mi alleno con le spade».
«È così per tutte le madri», lo consolò Fili.
Prima che riuscisse ad aggiungere altro, si udì uno scroscio d’acqua, immediatamente seguito da una serie di imprecazioni piuttosto colorite. A quanto pareva, alcuni dei suoi compagni avevano intrapreso un’accesa battaglia, scegliendo come terreno di scontro le fontane di Gran Burrone. «Credo sia meglio che vada a controllare», sospirò il nano rialzandosi.
«Anche per me è ora di rientrare, mi staranno cercando ormai», concordò il bambino, tirandosi in piedi e dandosi una manata sulla fronte. «Stavo dimenticando le buone maniere! Il mio nome è Estel».
«E io sono Fili, figlio di Hiali [7], al tuo servizio. È stato un piacere conoscerti, giovane uomo».
«Il piacere è stato mio, non avevo mai parlato con un nano prima d’ora! Novaer [8] Fili!», lo salutò Estel, agitando il braccio mentre si allontanava.

 

Gaellin storse il naso, in una smorfia che mal si addiceva ai suoi lineamenti delicati. Aveva udito delle urla ed era corsa all’esterno, senza riuscire ad impedire che alcuni dei nani si lanciassero in acqua. Prima il dormitorio improvvisato nel Salone del Fuoco ed ora la devastazione delle fontane: non avrebbe sopportato oltre. L’arpista non nutriva particolare rancore nei confronti del popolo di Aulë; certo, considerava i Nani come esseri avidi e meschini, ciò nonostante non li odiava. Tuttavia amava la serenità, quella serenità che derivava da un’esistenza pacifica e ordinata. E negli ultimi tempi si erano verificati fin troppi avvenimenti fuori del comune.
Trovò sua sorella intenta a studiare alcuni spartiti e ovviamente poco lontano scorse la figura di Lindir. Da quando avevano varcato i confini di Imladris, ormai tre secoli prima, il musicista era diventato l’ombra di Uiallin; i sentimenti che lo animavano erano palesi e in molti si domandavano per quale motivo non si fosse ancora dichiarato.
«Nethel [9]», la chiamò Gaellin. «Vieni, dobbiamo parlare con Erestor al più presto».
Uiallin distolse lo sguardo dalle note e sospirò. Conosceva i pensieri che turbavano l’animo dell’altra, ma non li condivideva appieno. «Sei davvero certa che sia necessario?», domandò.
Gli occhi di Gaellin si accesero della fiera determinazione di chi non ammette repliche. «Non si può continuare così. È tempo di fare qualcosa».
La biblioteca appariva placidamente addormentata quando le sorelle la raggiunsero. Erestor sedeva sui gradini più alti di una scala a chiocciola e arrotolava con cura pergamene ingiallite. Alla comparsa delle due elfe non interruppe il suo lavoro, ma con un cenno del capo le invitò a parlare.
Gaellin si fece avanti, mentre Uiallin rimase nella penombra. «Non vogliamo disturbarti nell’adempimento delle tue mansioni Erestor, ma crediamo che tu debba essere informato. La situazione è diventata ormai insostenibile». Incoraggiata dal silenzio del bibliotecario, Gaellin continuò: «Quei nani si fanno beffe delle nostre tradizioni e non hanno alcun rispetto per questo luogo. Gli addetti alle cucine si lamentano e le cantine si stanno svuotando rapidamente. Per quanto tempo resteranno tra noi?».
Erestor sbuffò e abbandonò le pergamene. Lo stesso malcontento cresceva nel suo cuore e le sue spalle si erano tese parola dopo parola; eppure non c’era nulla che potesse fare. «Non è stato ancora stabilito. Spetta soltanto al Signore di Imladris prendere una simile decisione», rispose.
«Naturalmente. Tuttavia sono certa che il Bianco Consiglio gradirebbe sapere che Thorin Scudodiquercia sta viaggiando in incognito verso est», ribatté l’elfa trionfante.

 

Dopo aver gustato una merenda decisamente abbondante, Bilbo raggiunse uno piccolo frutteto e sedette con la pipa accesa su una panchina che aveva scoperto il giorno prima, godendosi la vista della valle. Sottili nuvole di fumo salirono verso il cielo. Era felice, felice come non si sentiva da troppo tempo. Gli sarebbe piaciuto fermarsi lì e vivere per sempre in quella dimora incantata, anche supponendo che una delle magie di Gandalf fosse in grado di riportarlo dritto nella Contea, proprio di fronte alla porta di casa sua.
Stava iniziando a pensare che l’ora del tè era ormai prossima, quando udì un fruscio, segno che un elfo si stava avvicinando e desiderava avvisarlo del suo arrivo. Si voltò, pronto a salutare il cortese visitatore, ma lo sorprese scoprire che si trattava di Mastro Elrond in persona.
«Mio signore!», esclamò lo hobbit, balzando in piedi e facendo un profondo inchino.
«Bentrovato signor Baggins», lo salutò il Mezzelfo. «Ditemi, per quale motivo sedete qui da solo? Non dovreste essere insieme ai vostri compagni?».
Il volto di Bilbo si rabbuiò. «Non credo che sentiranno la mia mancanza. La verità è che secondo molti di loro non sarei mai dovuto partire per questo viaggio. Mi ritengono un peso inutile».
«Davvero? Eppure ho sempre ritenuto gli Hobbit creature estremamente resilienti».
«Sul serio?», domandò Bilbo incuriosito. «Non sapevo che aveste conosciuto altri Hobbit».
«Solo un paio ed è successo molti anni fa», rispose il Mezzelfo. Il suo tono si era fatto triste e rimase a lungo in silenzio, perso in lontani ricordi. Poi sorrise e aggiunse: «Ho anche sentito che sono oltremodo affezionati alle loro comode poltrone».
«A me invece hanno raccontato che non è saggio cercare il consiglio degli Elfi, perché diranno sia sì che no nella medesima frase», ribatté lo hobbit ridacchiando.
I due si fissarono ed entrambi scoppiarono in una genuina risata. Elrond accarezzò con lo sguardo il frutteto e sfiorò i rami in fiore. Bilbo non poteva certo saperlo, ma quegli alberi erano stati piantati e curati da sua moglie, quando ancora il suo spirito non era stato piegato dalla sofferenza del mondo. Prima di andarsene, il Signore di Imladris si portò una mano al petto e disse: «Sarete sempre il benvenuto tra di noi, signor Baggins, e se un giorno lo desidererete sarò lieto di offrirvi un posto nella mia casa».

 

*****
 

E così giunse il solstizio d’estate, detto Loëndë [10] dagli Elfi in memoria dei tempi lieti del loro risveglio su Arda.
I preparativi per le celebrazioni di Mezza Estate che si sarebbe svolte sulle rive del Bruinen erano quasi terminati, quando lo stregone riuscì finalmente a convincere Thorin della necessità di mostrare la mappa al Signore di Imladris. Il nano si era ostinatamente opposto ad una simile eventualità, determinato a proteggere il lascito della sua stirpe da chi avrebbe potuto profittarne. «Salvatemi dalla caparbietà dei Nani!», aveva urlato Gandalf dopo l’ennesima discussione. «Hai la possibilità di ricevere aiuto e consiglio da uno dei pochi nella Terra di Mezzo che potrebbe carpire i segreti di quella vecchia mappa, eppure la getti al vento come uno sciocco! Ma ricordati di ciò che ti dirò ora, figlio di Thrain: se la missione dovesse fallire e portarvi alla rovina, sarà solo per colpa del tuo orgoglio». Solo allora Thorin cedette, perché quelle dure parole ebbero il potere di rammentargli che non avrebbe lasciato nulla di intentato, pur di riconquistare il regno perduto dei suoi padri.
La luna brillava in cielo quando Elrond li accolse nel suo studio. Prese la mappa con delicatezza e la fissò a lungo, lasciando che silenziosi sospetti trovassero conferma in ciò che vedeva. Scosse la testa e per un momento rivide la distruzione che la sete dell’oro aveva perpetrato nella stirpe di Durin. No, non approvava il geloso e cieco amore dei Nani per la ricchezza, né la loro continua ricerca di nuovi tesori. Non approvava, eppure i margini ingialliti e logorati dal tempo di quella mappa erano i tristi testimoni delle miserie e degli stenti patiti da un intero popolo. No, non approvava, ma ancora più grande era il suo disprezzo per la crudele malvagità dei draghi.
Un pallido raggio argentato filtrò dai vetri e si allungò a sfiorare la pergamena. «E se…», mormorò Elrond  colto da un’improvvisa intuizione. Sollevò la mappa, per lasciare che il bagliore lunare la attraversasse, e accanto ai segni visibili fino a quell’istante ne apparvero di nuovi. «Lettere lunari!», esclamò, «Thror ha utilizzato uno stratagemma davvero molto astuto per celare il suo messaggio».
«Lettere lunari?». La voce sottile dello hobbit si levò da un angolo. In qualità di scassinatore, anche lui era stato invitato a quell’incontro riservato; o meglio, Gandalf aveva insistito perché fosse presente, mentre Thorin si era limitato a squadrarlo contrariato, senza però opporsi.
«Esattamente signor Baggins», confermò il Mezzelfo, col viso rivolto verso la bianca falce che rischiarava la notte. «Le lettere lunari furono inventate dai Nani, che le scrivevano adoperando penne d’argento. Sono rune comuni, ma si possono leggere solo se dietro di esse splende una luna che si trovi nella stessa fase e stagione di quando le lettere furono create. In qualsiasi altro momento, resteranno nascoste alla vista. Queste rune devono essere state scritte in una notte di Mezza Estate, al chiaro di una luna crescente, molti anni fa. Pare che il destino ti arrida, Thorin Scudodiquercia. La stessa luna ci illumina stanotte».
«Cosa dicono?», lo incalzò il nano, stringendo la chiave che teneva appesa al collo.
Ad Elrond non sfuggì il tono insistente con cui la domanda era stata posta, ma finse indifferenza e lesse: «Sta vicino alla pietra grigia quando picchia il tordo e l’ultima luce del sole che tramonta nel Giorno di Durin splenderà sul buco della serratura».
«Una notizia davvero infausta», proruppe Thorin amareggiato. «Nei nostri calendari il nuovo anno inizia in corrispondenza del primo giorno dell’ultima luna d’autunno, alle soglie dell’inverno. Quando in questa data sole e luna compaiono insieme nel cielo, allora viene chiamato Giorno di Durin. Ma è un evento assai raro ed è impossibile indovinare il momento accadrà di nuovo».
«Ben poche sono le imprese impossibili a questo mondo», lo rassicurò Gandalf. «C’è scritto altro?».
«Nulla che possa essere visto con questa luna», affermò serio il Signore di Imladris, restituendo la mappa al legittimo proprietario.

 

Helan non venne mai a conoscenza di quanto fu detto nello studio quella sera. Non lesse le rune tracciate con mano ferma da Thror, né udì suo padre svelare il segreto custodito dalla candida luce lunare.
Stava raggiungendo gli alloggi di Gilraen, quando scorse Thorin dirigersi a grandi passi verso il Salone del Fuoco. In lui c’era qualcosa di diverso, perché il ghiaccio negli occhi del nano pareva essersi scaldato; dietro ad orgoglio e brama di vendetta, l’elfa vide scintillare la speranza, pura e travolgente.
Sorrise e riprese il suo cammino, le braccia cariche di fiori profumati. Anche la natura era in festa ed ella poteva percepire le emozioni gioiose che dalle radici risalivano fino alle chiome degli alberi, mentre le foglie frusciavano allegre in risposta al canto della cascata. Sarebbe rimasta in ascolto, se voci diverse e a lei ben note non avessero richiamato la sua attenzione.
«Dovevo immaginare che stessi tramando qualcosa. Dimmi, quali sono i tuoi propositi?».
«Ci conosciamo da troppi anni e per l’amicizia che ci lega non ho intenzione di mentirti. Desidero entrare in quella montagna ed aiutare i nani a riprendersi Erebor. E prima che tu me lo chieda, non volevo tenerti all’oscuro, stavo solo aspettando l’occasione opportuna per parlarti dei miei progetti. Fidati di me, sono certo che avremo successo».
Le sagome del Signore di Imladris e di Mithrandir erano poco distanti da lei, rischiarate dai raggi della luna. Poteva vedere le loro spalle tese e i loro profili accigliati. Avrebbe voluto andarsene, ma i suoi piedi parevano ancorati al terreno.
«Ne sei davvero sicuro Mithrandir? E cosa accadrebbe se il tuo piano fallisse? Le conseguenze potrebbero essere disastrose, e non mi riferisco soltanto alla furia di Smaug. È una decisione rischiosa, che molti non riterrebbero saggio appoggiare», disse Elrond con la fronte aggrottata.
«È rischioso anche restare immobili a guardare. Di cosa hai paura amico mio?», ribatté lo stregone.
«Hai dimenticato la vena di follia che scorre nel sangue di colui che reclama Erebor? Suo nonno perse il senno e la sua stessa arroganza lo portò alla morte, suo padre sparì più di un secolo fa e nessuno può dire quale sia stato il suo destino. So bene che quel trono appartiene a Thorin Scudodiquercia per diritto di nascita, ma puoi assicurarmi che non soccomberà al potere dell’oro come coloro che lo hanno preceduto?», chiese il Mezzelfo.
Lo stregone si appoggiò al suo bastone con un sospiro profondo, prima di riscuotersi con rinnovata fermezza. «No, non ho scordato la loro debolezza. Eppure lascia che ti dica ciò: con o senza il nostro aiuto, quei nani tenteranno l’impresa e nulla potrà impedirglielo, perché in fondo la Montagna Solitaria è la loro patria. Non credo proprio che Thorin senta di dover chiedere il permesso a chicchessia e lo stesso vale per me. Del resto, hai un debito nei confronti della stirpe di Durin».
«Non è certo a me che devi chiedere il permesso Mithrandir», mormorò Elrond stancamente. «Simili decisioni non spettano solamente a te o a me, come non tocca a noi due ridisegnare l’aspetto della Terra di Mezzo. Ricorda, tu non sei l’unico guardiano inviato a vegliare su questo mondo. Su insistenza di Erestor mi sono visto costretto ad informare il Capo del Bianco Consiglio del vostro arrivo; secondo le sentinelle, egli sarà qui tra poco e desidera conferire con te quanto prima. Incontrerà i nani domattina, immagino per dissuaderli dal proseguire oltre nei loro intenti».
«Saruman!», esclamò lo stregone con un sorriso forzato. «Ebbene, sembra che mi perderò i festeggiamenti questa sera. Peccato, peccato davvero, il profumo del banchetto era invitante e speravo di assaggiare un bicchiere di quel vino che tieni da parte per le occasioni speciali… beh, sarà per la prossima volta! Del resto, quando desideriamo ardentemente qualcosa è l’universo stesso a mostrarci la via per realizzarla!».
Inspiegabilmente, Helan ebbe la sensazione che le ultime parole di Mithrandir fossero rivolte a lei.

 

Nelle sue stanze, Gilraen osservava l’amica seduta di fronte a lei. Avrebbero dovuto recarsi insieme in riva al fiume, ma, dopo essere entrata ed aver posato i fiori sul tavolo, l’elfa non aveva accennato a muoversi. Da qualche tempo Helan sembrava inquieta e preoccupata, anche se la donna non ne comprendeva il motivo. L’arrivo dei nani spiegava solo in parte tale turbamento e sempre più spesso l’aveva vista stringere con forza il gioiello che portava al collo.
«Tu cosa sai della speranza?», chiese infine l’elfa sorprendendola.
Gilraen non conosceva molto del mondo. Da fanciulla aveva fermamente creduto che nulla l’avrebbe allontanata dal suo piccolo villaggio; lì sarebbe stata la sua vita, una certezza che le dava conforto nei giorni più duri. Poi si era innamorata ed ogni cosa era cambiata, poiché l’uomo che le aveva rapito il cuore portava con sé un fardello ben più grande di lei e della sua esistenza frugale. Non si era mai pentita di quell’amore, che le aveva donato la vera felicità e un figlio. Tuttavia la felicità era stata fin troppo presto oscurata dal lutto e sul capo di suo figlio pendeva un destino incerto. Si sentiva impotente e fragile, una straniera persino per se stessa. Eppure conosceva la speranza, perché l’aveva portata in grembo per nove mesi.
«So che senza la speranza la vita non vale la pena di essere vissuta. Se potrai dare la speranza ad un popolo fallo, qualsiasi sia il prezzo che ti viene chiesto. Fallo, e donerai loro una ragione per sopravvivere».
Così rispose Gilraen la Bella ed Helan l’abbracciò grata.

 

2770 T.E. – MONTAGNA SOLITARIA
Fiamme e macerie erano ovunque. Urla di terrore si rincorrevano lungo i saloni, accompagnate dai gemiti dei moribondi. Thorin avanzava disperato verso l’ingresso, stringendo una mano esile e spaventata nella sua. Sentiva la nana tossire e ansimare dietro di lui, ma non rallentò il passo.
Imboccarono un corridoio che pareva ancora intatto, tanto che Thorin si azzardò a voltarsi e spezzare il silenzio: «Non avere paura, ce la faremo vedrai».
Gli occhi della giovane erano lucidi e sconvolti, ma sul suo viso si aprì un timido sorriso di speranza, che scaldò l’animo del principe.
Proprio in quel momento un nuovo boato scosse la montagna e il soffitto crollò su di loro, separandoli.
«Thorin! Thorin!».

 

«Thorin! Svegliati Thorin Scudodiquercia!».
Una voce lo chiamava con insistenza, ma non quella che ogni notte riempiva i suoi sogni di dolore e tristezza. Quando Thorin aprì gli occhi, si trovò di fronte un volto affilato e senza età. Con un gesto fulmineo si allungò verso il pugnale che teneva sempre accanto a sé, ma la sua mano si strinse sul nulla. Digrignò i denti, frustrato per essersi lasciato sorprendere impreparato, e lanciò uno sguardo gelido all’elfa. Ella rimase immobile nella penombra, per nulla intimorita dalla sua reazione. La dama intrepida, Thalhiril, così l’aveva chiamata suo nipote. E forse lo era davvero per sfidarlo in quel modo.
«Temo che non troverai ciò che cercavi», disse infine Helan, muovendosi con cautela per indicare il pugnale, che giaceva sul pavimento a poca distanza dai suoi piedi nudi. «Schivare i tuoi attacchi sarebbe stata un’inutile perdita di tempo. E in questo momento il tempo è una risorsa molto preziosa».
«Parla dunque, perché ti sei introdotta nelle nostre stanze?», sibilò Thorin, controllando i respiri regolari dei compagni addormentati attorno a lui.
Prima di rispondere Helan si voltò a fissare le stelle, chiedendosi cosa la stesse spingendo a rischiare tanto. Forse non lo avrebbe mai scoperto, ma avrebbe aiutato quei nani a ritrovare la speranza. «Il vostro viaggio non è visto di buon occhio da coloro che vigilano sulla Terra di Mezzo», spiegò a mezza voce. «Non potete più aspettare, dovete andarvene subito, stanotte, prima che vi venga impedito di partire».
«Questo non è possibile! Gandalf ci aveva assicurato…», esclamò il nano con furia.
L’elfa fece un passo verso di lui, zittendolo con un gesto della mano. «Ci sono ordini a cui neppure uno stregone può disubbidire. Mithrandir sta tentando di far udire la sua voce, ma potrebbe volerci troppo tempo. Tempo che voi non avete, se ciò che ho sentito è vero. Seguitemi e io vi guiderò aldilà delle montagne».
«Perché dovremmo fidarci delle tue parole?», ringhiò Thorin allontanandosi irritato.
«Perché non avete altra scelta», ribatté Helan sorridendo, mentre la luce del fuoco le illuminava il viso e le fiamme danzavano nei suoi occhi.






 

NOTE:
[1] La piantaggine ha proprietà cicatrizzanti.
[2] In Khuzdul significa Mi rincresce.
[3] Nome elfico di Eru, l’Essere Supremo, in Quenya significa Padre di Tutto. Tra i figli di Iluvatar sono annoverati Elfi e Uomini, mentre i Nani (creati da Aulë) sono considerati “figli adottivi”.
[4] Nome elfico delle Montagne Nebbiose, in Sindarin significa Catena di picchi nebbiosi.
[5] Nome elfico di mia creazione composto dai termini Sindarin hel < heleg (ghiaccio) e ann (dono).
[6] In Sindarin significa Non ne dubitavo (letteralmente I knew it).
[7] Nano della stirpe dei Broadbeams o Vastifasci, il cui nome in norreno significa Impalcatura. Il personaggio è di mia invenzione, dato che nei suoi scritti Tolkien non cita il padre di Fili e Kili.
[8] In Sindarin significa Arrivederci (letteralmente Be good).
[9] In Sindarin significa Sorella.
[10] Nome elfico del solstizio d’estate o giorno di Mezza Estate, in Quenya significa Centro dell’anno.

DATE:
1000 T.E. 11 dicembre: nascita di Helan.
2941 T.E. 4 giugno: arrivo della Compagnia a Gran Burrone.
2941 T.E. 22 giugno: partenza della Compagnia da Gran Burrone nel giorno di Mezza Estate.

 

ANGOLO AUTRICE:
Salve a tutti,
ebbene sì, non sono scomparsa, non ancora per lo meno! Credo non ci siano parole per scusarmi per questi mesi di assenza, semplicemente sono stata molto impegnata e mi dispiace infinitamente aver lasciato tutto in sospeso.
Avevo diverse precisazioni da fare, ma ovviamente mi sono sfuggite di mente e non le ricordo più tutte quante. In merito alla terminologia “nomi oscuri” per indicare i veri nomi dei Nani, quelli che essi non rivelano a chi non appartenga al loro popolo, ammetto di non ricordare se sia canon oppure no; nel caso assai probabile che non lo sia viene sicuramente dalla lettura di “Sansukh”, storia scritta da determamfidd e tradotta in italiano su questo sito. Il resto l’ho scordato, perciò la smetto di perdere tempo e vi saluto, scusandomi ancora per il vergognoso ritardo.
Come sempre ringrazio di cuore quanti leggono e seguono la storia, se vorrete farmi sapere cosa ne pensate ne sarò felice!

Possa la strada alzarsi per venirvi incontro e possa il vento soffiare sempre alle vostre spalle
Tielyannawen

   
 
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