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Autore: Dihanabi    26/06/2016    6 recensioni
Quell’amore che faceva battere il suo cuore più forte, scaldandolo internamente, liberando così un morbido tepore in tutto il suo corpo.
Invece adesso… adesso sentiva freddo.
Era così freddo, dentro di sé.
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jung Hoseok/ J-Hope, Park Jimin
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Ringrazio la collaborazione di Sarhita (date un'occhiata al suo profilo)



Il campo dell’epilogo




Era quasi surreale, l'odore di tutti quei fiori. Ma allo stesso tempo così vero da invadergli i sensi.

I colori accesi della primavera lo circondavano come macchie brillanti… un caleidoscopio indistinto che lo assuefaceva. A sovrastare ogni colore, vi era il tenue rosa dei petali di ciliegio che, fluttuanti, volteggiavano in un ultima danza.

Faceva caldo. Forse troppo, si trovò a pensare, per essere appena l'inizio della stagione in cui la vita inizia a rinascere, come ogni anno.

Il dolce tepore del sole sulla pelle lo rilassava, così come il cinguettio lontano dei piccoli uccelli che concedevano tregua alle loro ali, sui grandi e accoglienti rami.


Osservava la propria ombra muoversi lungo la strada, placida e rilassata. Sembrava quasi un fantasma, da quanto ella lo faceva appariva sottile e deformato.

Si sentì quasi leggero, come privo di ogni preoccupazione, e lasciò libero di apparire sul suo volto un bellissimo sorriso. Bellissimo, certo, ma non era più lo stesso sorriso di un anno prima. Vi era una velata malinconia, un male di vivere, che riusciva a sfuggire, rimanendo celato agli sguardi meno attenti e disinteressati.


Si fermò solo quando fu giunto alla fine di quella via di campagna, rendendosi conto che la stava percorrendo senza neanche una meta precisa.

Si accorse di essersi fermato proprio davanti a un grande campo, pregno di fiori. Lo osservò, apprezzandone la tavolozza variegata di decine, forse centinaia di sfumature diverse. Non si era accorto di dove i suoi piedi e la sua mente vagante lo stessero portando finché non lo riconobbe. E fece male.

Portava con sé tanti ricordi, quel luogo. Le sensazioni erano le stesse di allora, almeno in parte. La pelle bruciava, la mente era pesante, ma l’animo leggero. Il profumo… quel profumo delicato invadeva ogni cosa.

Eppure, il suo cuore, non era più lo stesso.

Non vi era più quell’amore travolgente, rosso, come rossi sono i papaveri. Quell’amore che faceva battere il suo cuore più forte, scaldandolo internamente, liberando così un morbido tepore in tutto il suo corpo.

Invece adesso… adesso sentiva freddo.

Era così freddo, dentro di sé.


In tutta la sua vita aveva compreso che per lui vi erano solo due modi di scacciare quel gelo assassino, per far sì che la vita tornasse a scorrere, almeno nelle sue vene.

Il primo? La danza.

Non sentiva il bisogno di farsi accompagnare dalla musica. Non questa volta, almeno. Non in quel luogo.



Ballò. Ballò come non aveva mai fatto prima... o forse come faceva sempre, con quel suo sorriso perenne e il cuore infranto, con l’energia di un ragazzo allegro e la tristezza di un animo morto.

Ballò per lui, anche se lui non era lì per guardarlo.

_

I muscoli gli dolevano. Le ossa stavano per cedere. I passi erano terminati. Il cielo stava salutando la sera, con i caldi colori del tramonto. Non voleva smettere. Non gli erano mai piaciuti i finali. Non voleva porre una fine, non in quel luogo, non di nuovo.

Il campo dell’epilogo poteva aspettare.

Mi manchi.” sussurrò, e la sua voce si perse nel vento, il quale portò le sue parole lontano, nell’atmosfera, forse anche nello spazio più profondo. “Mi manchi.”
Due parole che nessuno mai si sarebbe immaginato di sentirlo pronunciare, riferite a lui. Le persone comuni non riuscivano a capire il loro amore. E come avrebbero potuto? Non sapevano di loro, o della loro storia. Loro non conoscevano il suo dolore.

Mi manchi.”

Quelle parole sarebbero arrivate sino a lui?



C'era un unico piccolo fiore che riuscì a catturare la sua attenzione, in quell'immensa distesa colorata. Aveva grandi petali color arancio, che assumevano una posizione lievemente arcuata verso il basso, ai lati, quasi come a rappresentare delle lacrime, illuminate da righe dorate. Sentì con quel fiore come un legame particolare, come se questo avesse potuto capirlo. Era un nucleo che aveva rubato i colori del sole, e che sembrava voler attirare l'attenzione su di sé, brillante ed egocentrico.

Ad Hoseok ricordò sé stesso. Il sé stesso del passato, quello pieno di vitalità, e non quel relitto che sentiva di essere diventato, lasciato andare alla deriva nel bel mezzo di un campo.

Si chinò, osservandolo meglio.

Quel piccolo fiore portava con sé il sapore dell'estate. Come se fosse un assaggio della calda stagione, nel tiepido aprile di Busan.

Avvicinò le dita nel gesto di cogliere quella bellezza, ma si fermò subito.

Gli ricordava maggiormente il suo dongsaeng, notò, guardandolo meglio, e immediatamente non ebbe più il coraggio di strapparlo dal suolo, e di privarlo della sua vita.


Hyung”. Si riscosse, con un fremito, al sentire quel sussurro, così flebile da credere quasi di esserselo soltanto immaginato.

Un sorriso amaro gli macchiò il volto. Era diventato più trascurato, segnato dalla stanchezza, quasi arreso alla atroce sorte di respirare ancora, sì, ma da solo.

Trovava ironico che la sua mente gli recasse tali bassezze, che dopo tutto quel tempo portasse con sé ancora le illusioni di una voce che non avrebbe dovuto più sentire, anche se desiderava così tanto riudirla.


Eppure si dovette ricredere quando delle dita sfiorarono il suo braccio, prima di afferrarlo con una presa insicura.

Quelle mani… quelle sole mani erano in grado di scaldargli il cuore.

Chiuse gli occhi, ma ebbe troppa paura di girarsi, sicuro che se lo avesse fatto vi avrebbe trovato solo il vuoto, e non quegli occhi innamorati.

Si beò del ricordo di quelle dita sulla sua pelle, tra i suoi capelli. Godette e soffrì al medesimo tempo di quello scherzo della memoria che riusciva a fargli sentire di nuovo quei polpastrelli che vagavano liberi.


Poi pianse. Pianse piano. E senza far rumore.

Fu un pianto macchiato dal dolore, composto di scarse lacrime solitarie che attraversano silenziosamente le valli di carne del viso. Non era il pianto infantile di chi vuole essere consolato, ma quello di un uomo maturo che ha tenuto troppi segreti in un angolo nascosto del proprio animo spezzato, senza tenere in considerazione che il dolore, prima o poi, deve tornare a galla.

E allora si girò, stanco di quella situazione, stanco di se stesso e della vita. Stanco del sorgere del sole e del suo tramontare. Stanco di vedere la terra girare da solo.

Jimin era lì, con un sorriso preoccupato e lo sguardo triste. Ma era lì.

Era lì.

Era lì.

Era lì.


Cosa ci fai qui?”, chiese sconcertato Hoseok, non riuscendo a trattenere quel pianto, per quanto ci provasse.

Ti cercavo.”, rispose il minore con un'insicurezza che Hoseok non era abituato a vedere su di lui, da molto tempo.

Esitò, infatti, terrorizzato dall’idea di vederlo scomparire sotto i suoi occhi. Non sentiva di avere nulla da dire, la sua mente era persa nella nebbia. O, forse, erano troppe le emozioni per riuscire a metterle in ordine nella sua testa e riuscire a esprimerne anche soltanto una.

Così iniziò a concentrarsi su ogni cosa, per i primi attimi. Su tutto fuorché il viso dell'altro ragazzo.

Sulla pelle poteva sentirsi il vento pizzicare, ancora marchiato da quell'inverno che andava scomparendo…

Come temeva facesse Jimin.

Il vento scuoteva lievemente l’erba, e faceva muovere i sottili filamenti verdi come fossero onde del mare, e il cielo sfumato di arancio riscaldava il suo cuore.

Amava quel cielo, quando i colori caldi e i colori freddi si fondevano insieme, nonostante le apparenti divergenze, per creare un colore più caldo ancora, passionale, tingendo dapprima ogni cosa del colore dei mandarini, per poi lasciare spazio al buio apparentemente freddo della notte. Gli piaceva perdersi nell'osservare come quella luce particolare tingesse il suo mondo, ed era bello vedere tutto brillare.

Quel cielo lo riscaldava, lo calmava, lo faceva sentire vivo, ma allo stesso tempo leggero come se il suo corpo non esistesse più.

Finalmente riuscì a controllarsi, e a posare i suoi occhi su di lui.

I suoi capelli, quei capelli del medesimo colore di quel cielo che aveva ammirato fino a quel momento, lo rendevano più bello che mai.

Un anno. E lui... era esattamente come l’ultima volta che lo aveva visto.

Una parte dentro di sé, in fondo, era conscia che quella visione era solo un gioco della sua mente masochista, e che quello che vedeva non era reale... Eppure quel sorriso gli sembrava troppo “il suo sorriso”, e scegliere di seguire la mente e non il cuore, improvvisamente gli sembrava la scelta sbagliata.

Hoseok attese ancora che delle parole uscissero da quelle labbra. Si preparò ad ogni tipo di frase, fremeva dalla voglia di sentire la sua voce… ma niente. Il suo cuore scalpitava, colto dall'ansia, e la sua mente gridava di non sperare, di non battere in quel modo per quel ragazzo, che era tutta finzione… follia… amara, dolorosa, follia.

Non aveva mai imparato a controllarsi, lui. Mai.

Aspettò a lungo.

Aspettò invano.

Nessuna parola, infatti, riempì quel silenzio teso.

La vista però gli bastava, se la fece bastare. Jimin era così reale. Una presenza fin troppo vivida, lì, di fronte a lui. Quelle labbra carnose e lievemente rosate, che migliaia di volte aveva baciato, e che in quel momento erano piegate in quel sorriso timido che lo aveva fatto innamorare per la prima, e sola volta, in tutta la sua fottuta vita. Quei denti perfetti che mordevano piano il labbro inferiore, mostrando il lato timido e insicuro del ragazzo che amava.

Jimin.” disse solo, dopo tutto quel tempo.

Quel nome valeva più di ogni altra parola, infondo. Era il suo nome. Il nome della persona più bella, della persona più gentile... della sua cazzo di fottuta anima gemella.

Park Jimin. Il nome inciso sul suo cuore, marchiato a fuoco in un’ustione dolorosa e cocente, che tutt’ora bruciava.

Aveva bisogno di quelle fottute labbra sulle sue per non incenerire o congelare. Aveva bisogno di quelle loro fottute dita intrecciate e le loro anime collegate.

Hoseok aveva sempre amato l’unione delle loro mani. Lui aveva le dita lunghe e sottili, mentre quelle di Jimin erano più corte e spesse, ma riempivano così bene gli spazi vuoti tra le sue, che si sentiva sempre come se gli mancasse qualcosa quando quest’ultime non erano lì, a colmare quel divario.






Ne avevano superate così tante, loro due insieme. Avevano affrontato gli sguardi di disprezzo, tutte le conseguenze di una società omofoba, che non era ancora pronta al loro amore. Avevano dovuto lottare a lungo per il loro amore e per realizzare i loro sogni. Si erano sempre impegnati in tutto, arrivando a spezzarsi la schiena.

Ma, evidentemente, tutto quello non era bastato.

E alla fine, non aveva più importanza.

La vita aveva riservato loro molte sofferenze, e molte prove da superare. Ingiusta, a tal punto da diventare persino spietata.

Hoseok una volta ci credeva. Credeva che la vita la smettesse, prima o poi, di manovrare crudelmente le loro vite. E con tutta questa fede nel cuore, e con quel sorriso allegro di una volta, aveva sempre detto al più piccolo che, prima o poi, dopo tutti i loro sacrifici, avrebbero ottenuto un po’ di quella pace che tanto bramavano.

Eppure, a un passo dal realizzare i loro sogni, proprio quando erano finalmente riusciti a trasferirsi in quella piccolissima casetta, ma perfetta per loro due, la vita gli aveva giocato un brutto scherzo. Lo scherzo peggiore di tutti.

Lo aveva preso.

Se lo era portato via.


La vita di Jimin era stata spezzata.

E con lei, un po’, anche la sua.


Ti amo, Jimin.”

Ti amo anch’io, Hobi-”

Quel soprannome portava con sé altri ricordi, altrettante notti passate ad amarsi, come il più puro e innocente degli amori.

Fu involontario quel portare le dita in avanti, verso di Jimin.

Fu un involontario, sciocco, stupido, incosciente errore. Sentì per un istante, un solo fuggevole istante, il calore e la morbidezza di quelle guance che amava accarezzare e pizzicare.
Subdola, masochistica illusione.
Nemmeno il tempo di assaporare quella sensazione, e l’altro, semplicemente, sparì.

Lasciando solo il dolore di quell’ennesimo pugnale conficcato nel suo petto.
L’ennesimo tra tanti.

Sparito, come fumo, come se non fosse mai stato lì.

Semplicemente, andato.

Di nuovo.

Ancora.

Quel dolore.

La mente di Hoseok aveva vinto. Quel continuo farsi del male aveva prevalso.
Ormai il fiume era inarrestabile.

I ricordi della sua morte.

La morte di Jimin.

E anche la sua.


Hoseok voleva davvero illudersi. Voleva davvero potergli dire ancora “ti amo”, ancora, ancora e ancora. Per l’eternità.

Poterlo ancora stringere tra la proprie braccia, fare l’amore con lui in quel campo un’altra volta.

Ancora, e ancora e ancora. Per l’eternità.

Voleva vederlo ancora mangiare, in quel suo modo carino, per poi sentirlo lamentarsi di una dieta di cui in realtà non aveva mai avuto bisogno.

Voleva ballare di nuovo con lui, farsi le coccole sul divano guardando qualche anime.

Voleva litigare con lui, discutere, per poi fare la pace, nel modo più dolce possibile. Trovare modi per farsi perdonare.
Restare insieme.

Ancora, e ancora e ancora. Per l’eternità.

Voleva tante cose. Tutte cose che gli mancavano.

Gli mancava Jimin.

Quella voce. Quanto gli mancava quella voce che cantava per lui, nel buio della notte, sotto il candore pallido di una luna ormai spenta.

Gli mancava così tanto Jimin.

Gli era mancato ogni giorno di quell’ultimo orribile anno. Ogni ora, ogni minuto, ogni secondo. Ogni respiro.

La loro piccola casa, a Busan, sembrava troppo grande ora. E vuota. Il mare, invece, gli sembrava troppo vasto e profondo, senza Jimin che faceva il bagno nudo nelle notti d’estate.





Un giorno, un giorno semplice e uguale agli altri, Hoseok sparì, senza lasciare traccia.

Sparito, come fumo, come se non fosse mai stato lì.


Forse nessuno se ne accorse... o forse, in realtà, se ne accorsero tutti, senza però arrecare al fatto nessuna importanza.

Quelle pillole... sembravano una scelta così comoda e logica in quel momento.


Era lucida, la sua mente. Questa volta lo era davvero. Non lo era mai stata dalla morte di Jimin, ma in quel momento… mentre se le versava tutte in una mano sentì, finalmente, di fare la cosa giusta.
Quali ragioni aveva per restare in quella casa da solo? In quella vita da solo?

Molte caddero nel lavandino bianco. Lo stesso lavandino che aveva sorretto il suo peso più volte nei momenti in cui Jimin, affamato, gli suggeva il collo con le labbra.

Si voltò, pronto a uscire dalla stanza, ma lo sguardo, crudele, si soffermò sulla grande vasca che li aveva accolti stretti insieme, tra risate bassi e gemiti soffocati da labbra gemelle.

La stanza principale, composta da una piccola cucina con un tavolo e un grande futòn che ne occupava metà portava ricordi in ogni singolo angolo.

Gli sembrava quasi si rivederlo, il corpo del suo amato, contorcersi tra le coperte e sussurrare il suo nome, pervaso dal piacere. Ogni angolo parlava di lui. Aveva vissuto con quei ricordi per troppo tempo… si chiese come fosse riuscito a non impazzire…
C’era riuscito, no?

Uscì senza preoccuparsi di chiudere la porta.


Ormai non ce ne era più bisogno.


Il mare di Busan sembrava cantare.

Le onde placide che si muovevano lente, per via di un vento che portava con se centinaia di voci e sussurri rubati.

Sembrava una bella immagine.

Perfetta, per essere l’ultima, no?


Si chiese cosa gli avrebbe detto Jimin, in un momento come quello.


Probabilmente niente.

Gli avrebbe sorriso, però.

Di quel sorriso dolce.

E Dio quanto la amava.

Quanto gli mancava.


Non avrebbe più sofferto, mai più, lo stava per rivedere.

Il suo Jimin.

Sarebbero stati insieme.


Ancora, e ancora e ancora. Per l’eternità.


Un ultimo sussurro, mentre stringeva tra le dita quel fiore di campo ormai privo di vita. Un pensiero al suo amore, e un pensiero alla danza. Mentre la vita lo abbandonava, il sorriso di Jimin diventava sempre più reale, come l’odore di salsedine che gli riempiva le narici, fondendosi con il profumo della pelle di Jimin e dello shampoo profumato che usava sempre.

Un sorriso felice apparve sul suo volto. Quel sorriso innamorato che cercava sempre di trattenere, senza mai riuscirci, quando guardava quel ragazzo ai suoi occhi bellissimo. Quel sorriso di pura felicità, privo di ogni preoccupazione o dolore che non mostrava più da tempo.

Sorrise.

E chiuse gli occhi per l’ultima volta.

Siamo come quei petali caduti,

di quel fiore senza vita.

Eppure, insieme.















  
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