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Autore: Francine    26/06/2016    5 recensioni
Trema di Yggdrasill,
il frassino eretto,
geme l'antico albero,
lo jǫtunn è libero.
Tutti temono
sulla strada degli inferi,
che la stirpe di Surtr
li inghiotta.

(LJÓÐA EDDA - VǪLUSPÁ, La Profezia della Veggente, v 47)
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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23.




Le braccia lungo i fianchi, l’espressione stanca e qualche ruga attorno agli occhi, il ragazzo resta sulla soglia, lo sguardo speranzoso del cane ubbidiente che attende un cenno del padrone per poter respirare.
Fa caldo, oggi. Un caldo infernale, e giugno è appena iniziato. La Polvere di Stelle resta attaccata alle dita e non sull’Oricalco. È uno spreco, di tempo e di materiali. Converrà lavorare di notte. Alla luce delle lanterne e poi dare gli ultimi tocchi all’alba, quando la luce è pura e assoluta e tutto il mondo sembra nuovo di zecca.
Il ragazzo è una statua di sale. Sion non lo conosce. Ha un aspetto familiare, ma non sa dire quale sia il suo nome, o se, piuttosto, non lo stia confondendo con uno degli abitanti di Rodrio.
Posa lo scalpello, si asciuga il sudore dalla fronte e gli chiede: «Mi passeresti la lima?».
Il ragazzo sembra riaversi.
«Quale?», chiede, afferrandone un paio.
«Quella a grana più fine», gli risponde Sion, indicandogli l’unica lasciata sul tavolo. Un tintinnare sordo, un fruscio e poi la lima giusta appare nel campo visivo del Santo dell’Ariete. «Grazie», dice, afferrando lo strumento dalle mani tremanti del ragazzo.
Lo sente schiarirsi la voce con un colpo di tosse. Si volta.
«Nobile Sion.» Gli occhi del ragazzo sono fissi sul bracciale sinistro dell’armatura del Capricorno, le labbra ridotte ad una linea dura e la mascella serrata. Si arrotola le maniche sugli avambracci. «Permettetemi di…»
Sion gli posa una mano sui polsi. Tremano.
«Non ce n’è bisogno», dice. È venuta una donna, per El Cid. Gli occhi bassi, la pelle diafana, il ventre rotondo. «Non ci sono grosse riparazioni da fare. Ha riportato solo qualche graffio. Il suo proprietario la trattava con cura.»
«Lo so.» Il ragazzo abbassa lo sguardo sui suoi piedi. Se Sion l’avesse schiaffeggiato, gli avrebbe fatto meno male. «Non passava sera che non ne controllasse giunture e cerniere. E poi noi dovevamo lucidarla fino a che lui non poteva specchiarcisi sopra. Me lo rammento bene…»
Sion annuisce. Gli lascia andare il polso e si volta. Ha bisogno di un momento, quel ragazzo dall’aspetto simile ad un cane randagio. Uno di quelli che è scappato, un bel giorno, per correre appresso ad un uccello o seguendo l’impeto del momento, e che gironzola attorno, in cerca di una sua strada.
Si serve Athena in molti modi, diceva il suo maestro. Combattendo, certo. Ma anche aspettando il suo ritorno. E preparando il necessario per quando ci ritroveremo, faccia a faccia, ancora una volta.
«Parto», esordisce il ragazzo, strappando Sion alle proprie elucubrazioni. «Mi imbarco per i mari del Sud.»
Bizzarro. Sembra quasi che tutti lo vogliano abbandonare, e lasciarlo da solo con quella ferraglia silenziosa e un Santuario in macerie.
«Accompagno uno studioso francese. Lacaille, si chiama. S’è messo in testa di disegnare una mappa delle stelle del sud. Gli do una mano.»
Sion tace. Chi meglio di un Santo di Athena conosce le stelle e come si siano disposte nella volta celeste?
«So che adesso siete voi, il Sacerdote di Athena.»
Sion non si è ancora abituato a quel titolo. Gli cade male addosso, come se fosse un vestito smesso da qualcun altro che non si adatta alle sue spalle, alla lunghezza delle sue braccia, al colore pallido della sua carnagione.
«È così», dice, dopo qualche secondo di incertezza. «Ma tu non sei un Santo di Athena…»
Non c’è livore nelle sue parole, e il ragazzo se ne accorge. È solo una mera constatazione. Niente più.
«No. Mi è mancato il coraggio per compiere l’ultimo passo», ammette con sincerità. «Ma il mio cuore è rimasto fedele alla Dea.»

Sion lo osserva, come a dirgli di proseguire.
Il ragazzo sembra cercare le parole giuste nelle tasche sformate. È come se avesse provato quel discorso più e più volte, ma ora, a metterlo in scena, scricchiola.
Le cose non vanno mai come ce le siamo immaginate, pensa Sion, che non avrebbe mai sperato, nemmeno nei suoi sogni più proibiti, di sopravvivere ai suoi compagni. Anzi. Qualcosa, dentro di lui, sapeva che sarebbe stato uno dei primi a cadere, prima ancora di Albafica, di Manigoldo, di El Cid, così da non sperare più di sopravvivere. Un sentimento vigliacco quanto umano. Ma un guerriero certi pensieri non può permetterseli. Un guerriero deve puntare alla battaglia, a spargere il sangue del nemico sul terreno prima che tocchi a lui tingere il mondo di rosso, evitando di chiedersi se la prossima missione sarà l’ultima.
«Santità», dice. Trattenendo respiro e parole tra i denti. Poi prende coraggio e si lancia. «Santità, datemi la vostra benedizione.».

La mia cosa?
Sion osserva la testa del ragazzo, che, in ginocchio, pende dalle sue labbra. Dargli la sua benedizione. Ancora non si è abituato. Il primo istinto è stato quello di rimpallarlo al Sacerdote. Un sorriso amaro piega le labbra di Sion, ché le abitudini sono dure a morire, specie quando sei un bravo soldatino obbediente e sempre sull’attenti.
«Spiegami perché dovrei, visto che non sei un Santo di Athena…»
«Una volta il Sommo Sysiphos mi disse che si serve Athena in molti modi.»

Touché.
«Forse sarebbe stato il caso di venirmene a parlare prima. Non credi?», ribatte, con un’inflessione troppo severa. Lo vede sussultare. «Ad ogni modo, spiegami in cosa consisterebbe il tuo apporto.»
«Aiutare
monsieur Lacaille a trascrivere le corrette coordinate delle stelle. C’è una mappa da tracciare, Santità, e mi piacerebbe che fosse Athena ad indicare agli uomini le costellazioni. Dopotutto, è a lei che appartengono, giusto?»
«Forse l’umanità dovrebbe sbrigarsela da sola», borbotta Sion, osservando la grana della lima in controluce. È fina, sì; ma per ultimare il suo lavoro gli occorre qualcosa di più sottile ancora. Un velo di sabbia appena.
«Forse sì, Santità…»
Sion sospira.
«O forse no. Forse ad Athena farebbe piacere indicare le stelle agli uomini.» Il viso sorridente di Sasha si affaccia alla mente di Sion, assieme alla fragranza di fiori d’angelo del suo braccialetto. «Sarebbe bizzarro se questo tuo studioso le nominasse in maniera… poco coerente col mito. Giusto?»

Il ragazzo torna a respirare. Le spalle si rilassano, i muscoli del collo si ammorbidiscono. «È quello che ho pensato Santità», dice. Sollevando la testa e regalandogli uno sguardo sereno e colmo di speranza.
«Però dobbiamo usare prudenza. Qualche accorgimento.»
«Potete fidarvi di me, Santità. Io non…»
Due dita di Sion si pongono sulla fronte del ragazzo. «Come ti chiami, figliolo?»
«Pa…» Deglutisce. «Pakia, Santità.»
«Io ti riconosco servo di Athena e come tale ti impongo il vincolo della
Sigé, Pakia. Non rivelerai nulla del Santuario. Nulla. Né un nome, né una mezza parola, neppure una confidenza. Nulla, intesi?»
«Intesi, Santità.»
Non c’è bisogno di illustrargli le conseguenze del suo gesto. C’è una fiamma ardente e sincera, nel suo animo. Sion prega che possa aiutarlo. I polpastrelli sporchi di Polvere di Stelle e limatura di Oricalco si staccano dalla fronte di Pakia.
«Adesso vai», gli dice. «Hai una missione che ti aspetta, giusto?»
Pakia tentenna. «La nave parte domani mattina. Ho giusto il tempo di badare ad un paio di commissioni.»

E allora che diamine aspetti?, vorrebbe chiedergli Sion.
Pakia si alza in piedi. «Santità, per favore. Permettetemi di aiutare», dice. Mostrandogli le vene del polso destro.
«Ti assicuro che la corazza del Capricorno è a posto. El Cid era molto scrupoloso e…»
«Lo so», ribatte Pakia, con una serenità che, adesso, lo ringiovanisce di almeno dieci anni. «Ma le corazze dei miei compagni non sono state altrettanto fortunate. È per loro, che vorrei donare il mio sangue. Noi quattro saremmo dovuti essere la Nave Argo. Vele, Timone, Poppa e Bussola. Vorrei che una parte di me riposasse dentro quelle corazze. Potete accontentarmi, Santità?»
Le vene azzurre tracciano una scia ben visibile sulla pelle morbida del polso.
Sion lo accontenta. Il sangue ruscella in una coppa di cristallo, nell’aria immobile del Santuario.
«Ecco fatto», dice Sion, legandogli stretta una benda. «Però…»
«Però?»
Lo sguardo di Pakia è incuriosito, quello di Sion tranquillo come un cielo estivo.
«Quando tornerai voglio che mi racconti per filo e per segno cosa hai visto laggiù.»
«
Se tornerò…»
«Tornerai. Non vuoi vedere le corazze dei tuoi compagni restaurate?»
Pakia annuisce. «Certo, Santità.»
«Visto che ti avanza tempo, passami quel paio di tenaglie. Abbiamo un bel po’ di lavoro da fare, qui…»




La sera stava scendendo a velocità impressionante.
Presto il buio avrebbe avvolto il cielo e il freddo avrebbe iniziato a fare sul serio. Hyoga velocizzò l’andatura. Attraversando un bosco di betulle si era imposto di non rompere il silenzio ovattato scandito dalla neve che i rami esausti lasciavano scivolare a terra in un tonfo; ma quell’assenza di vita lo preoccupava. Non c’erano segni di battaglia, a terra, né orme sulla neve. Strano, considerando che, poco più di un’ora prima, l’aria fischiava di colpi d’avvertimento, bordate per rompere il ghiaccio e la noia, o poco più.
Dov’erano finiti tutti?
La Siberia se li era ingoiati tutti neppure fossero tartine extra-large?
Concentrati, si impose il Cigno. Si fermò in mezzo a quattro alberi disposti a croce. Chiuse gli occhi. Espanse il proprio cosmo. Nulla.
«Coralie!», chiamò, lasciando che il vento portasse quelle tre sillabe a spasso per l’aria fredda. «Ichi! Nachi!»
Niente. Nessuna risposta.
Hyoga si guardò attorno, quando il vento gli portò un tintinnio. E vide una sagoma, in lontananza. Poco più bassa di lui, i capelli che danzavano nell’aria, i coprispalle a spiovente dell’armatura.
«Andromeda?», si chiese Hyoga, spalancando gli occhi azzurri, la voce ridotta ad un sussurro nel vento. No, non poteva essere lui. L’hai quasi ammazzato. E l’hai seppellito ancora vivo sotto terra. L’hai lasciato a Kohobotek, mezzo assiderato. Ora, come può essere qui, davanti a te, senza Ikki?, si disse, portandosi nella posizione dell’oplita. Ma poi la figura si avvicinò, piano piano, e sì, il suo aspetto era quello di Shun. Senza ombra di alcun dubbio.

Le catene di Andromeda guizzarono come fruste nella sua direzione, affondando nella neve fresca, davanti ai suoi piedi.
«Shun…», mormorò Hyoga, il braccio destro abbassato di un’inezia. Quel poco che sarebbe bastato a Camus per riprenderlo, e sollecitarlo ad assumere una corretta posizione, ché il nemico, no, non ti fa la cortesia di attendere, lui attacca e basta e spera di farti trovare pronto quando i suoi pugni ti colpiranno al petto, al volto, allo stomaco.
Ma Shun non lo riprese. Tacque. Aveva un sorriso stanco sul viso, l’espressione provata di chi si sarebbe risparmiato volentieri una passeggiata in mezzo alla tormenta. Fece un passo avanti, e Hyoga indietreggiò.
«Sei qui», disse, l’espressione indecifrabile del gatto che fronteggia un grosso cane rabbioso.
«Shun!», gridò il Cigno, per sovrastare il fischio del vento che gli sferzava la faccia e giocava coi lunghi capelli di Andromeda. Come stai? Non ti ho fatto troppo male, vero? Non avercela con me. Non ero io, Shun. Davvero. Io… «Che ci fai qui?»
«Sono venuto a cercarti», gli rispose Andromeda, le catene che tintinnavano tra le mani.
«Ma dovresti stare a letto! A riposo! Tu…»
«Sto bene», tagliò corto Shun, i capelli che svolazzavano sul viso. «E c’è bisogno di me. Tu hai bisogno di me.»
«Io sto bene, Shun. Ci sono Ichi e Nachi, con me.»

Shun scosse la testa. «Li abbiamo trovati Ikki ed io. Sotto la neve. Mezzi morti dal freddo.»
«Cosa?»
«Il medico del tuo villaggio si sta occupando di loro. Ci raggiungeranno appena possibile.» Pausa. «Ikki è qui attorno. Ci siamo divisi per cercarti meglio», disse Shun, facendo per voltarsi e tornare da dove era venuto. «Vieni, dobbiamo ricongiungerci.»
«E Coralie?», domandò Hyoga, bloccando l’altro a metà strada.
«Non è con te?»
«No! Ci siamo… divisi ad un certo punto.»
«Perché?»
«Qualcuno ci stava attaccando. E allora lei è rimasta ad occuparsi di loro.»
«Questa faccenda non mi piace», disse Shun. «Ricongiungiamoci con Ikki. Poi decideremo il da farsi.»
«Ci eravamo dati un altro appuntamento», disse Hyoga, guardandosi attorno.
«Dove?», chiese Shun.
«A Nord. Per non mettere in pericolo l’equipaggio.»
«A Nord. Un po’ vago…» Andromeda sospirò. «Troviamo Ikki. Poi decideremo.»
«E se lei fosse…»
Shun  gli regalò uno sguardo indecifrabile. «Coi se e coi ma non si fa la storia, Hyoga. Dobbiamo avere fiducia. In noi stessi, e nei nostri compagni. Come al Santuario», disse, dandogli la schiena ed incamminandosi per la strada da cui era venuto. «Vieni, o devo trascinarti in catene?», gli chiese continuando ad avanzare nella neve e nel vento.
Riluttante, Hyoga lo seguì. Avrebbero trovato Ikki, si sarebbero chiariti e poi si sarebbero riorganizzati. «Arrivo.»
 


La luce è ancora accesa.
La sigaretta che ha acceso per ammazzare il tempo è quasi consumata. I mozziconi a terra sono già tre. Davanti ai suoi occhi, oltre alle fronde dell’albero che Gaizka piantò quando sposò Ana, c’è un tappeto di stelle, ma lui non se la sente di affacciarsi. Il cielo stellato può dare sensazioni sgradevoli. È paradossale, ma è così. Se si fissa il cielo stellato, si può arrivare a convincersi di poter allungare le dita e cogliere quelle stelle, assieme ai sogni. E lui si chiede se si meriti un desiderio come quello che luccica, caldo e dorato, oltre quella finestra.
Cinque anni. Forse dieci. La vecchia Agata non ha mai sbagliato un colpo. Il Sacerdote le crede. Ciecamente. Perché non dovrebbe farlo lui? Però, Ruy si chiede lo stesso se sia giusto quello che il suo cuore lo sta spingendo a fare.

Javier ha capito che dev’esserci qualcosa dietro al suo ritorno, ma non ha fatto domande. Gli ha solo chiesto se avesse vinto alla lotteria, per avere tutte queste licenze in un colpo solo, ma si è fatto bastare delle scuse raffazzonate che non avrebbero convinto nemmeno lo scemo del villaggio.
Licenze arretrate. Come se un Santo di Athena avesse diritto ad un tot di giorni all’anno, nemmeno fosse un soldatino che ogni tanto appende il suo bel fucile al chiodo.

Che sto facendo?, si chiede, abbandonando l’ultima sigaretta al suo destino, gli occhi che non riescono a staccarsi dal primo piano dell’Emporio di Orreaga. Non può restare lì in eterno. Qualcuno potrebbe passare. Qualcuno potrebbe vederlo. E farsi due risate, alle sue spalle. E se si affacciasse Nahia? O Andeka?

Ciao Ruy, che ci fai di bello sotto casa mia?
Aspetto tua figlia.

Ma anche ammesso che Andeka non gli stacchi le palle a morsi, cosa le direbbe?
Ho cinque anni, forse dieci, prima che la mia vita esploda?

Una storia con la data di scadenza…
Scuote la testa, infila le mani nelle tasche dei calzoni, la sciarpa allentata sulle spalle. Un’ultima occhiata alla costruzione di mattoni giallo ocra, la frustrazione che monta come un’onda di marea che minaccia di portarsi appresso navi, scogli, porto e linea di costa, e fa per girare sui tacchi, quando la finestra si apre. Uno spiraglio appena, ma sufficiente perché un gattino vi passi attraverso. Punta i suoi occhietti scintillanti su di lui, annusa l’aria e poi libera un «Miao!» così squillante da rompere il silenzio della notte con la stessa grazia di una fucilata.
«Carbone! Vieni qui!»

Ruy si ritira nell’ombra. Per prudenza.
La finestra si spalanca e Alazne si affaccia sul davanzale, un braccio ad afferrare, invano, la coda del gattino, che scarta le sue dita, salta sul ramo più vicino dell’albero e zampetta indifferente sulla corteccia, gli occhi puntati su di lui.
«Miao!»

E adesso?, si domanda, mentre il gattino inizia la sua discesa. Pianta le unghie, si puntella, ma qualcosa – il suo sederotto ben pasciuto – lo sbilancia.
«No!»
La voce di Alazne è uno strillo soffocato. 
E lui si ritrova ad arrampicarsi sull’albero, nemmeno fosse uno di quei pompieri che appaiono nelle pellicole americane. Il gattino protesta. Miagola, ma lui riesce ad afferrarlo e a portarlo in salvo.
«Ruy?»
Gli occhi di Alazne sono così sgranati che minacciano di cadere dalle orbite e rotolare a terra, come biglie extra-large.
«Fammi posto, scricciolo», sussurra, quanto basta perché lei si ritragga dal davanzale.
Un piccolo salto, ed il gattino torna a zampettare sul pavimento della stanza di Alazne. Come se niente fosse.
«Menomale…» Alazne sospira, le mani che ancora tremano. «Se gli fosse successo qualcosa…»
«Che ci fa lui, qui?»
Ruy la osserva, appollaiato sul davanzale, la sciarpa allentata.
«Lupe è da sua sorella», gli spiega. «Così gli bado io.»
«Ah.»
«Credevo di aver chiuso la finestra. Davvero. Forse il legno s’è gonfiato e…»

Ruy non l’ascolta. La osserva, piccola e bionda, nella stanzetta che occupa da quand’era alta poco più che un soldo di cacio. Il letto, dalla testiera con volute d’ottone da cui penzola un rosario di madreperla, ospita una serie di orsacchiotti, peluche e bambole di pezza. Sulla scrivania, ingombra di libri, spicca un portapenne color rosa confetto. Il manichino da sarta, nell’angolo, sfoggia un bizzarro cappello azzurro ed diversi fili di perle colorate.

È ancora una ragazzina, si dice Ruy. E all’improvviso si dice che no, non può. Non sarebbe giusto. Anche se quella stella, quel desiderio, brilla nel cielo con un’intensità tale da fare male. Basta stringere i denti, abbassare lo sguardo e tornare indietro e…
«Ruy?»
«Cosa?»
L’ha colto in contropiede. Lei piega la testa di lato, una ciocca che sfugge dalla coda allentata e scivola sullo sprone del maglione ai ferri.
«Che ci facevi da queste parti? Non riesci a dormire?»
Tace. Le regala uno sguardo allarmato. Bella domanda, ché lui non s’è preparato nulla, nessun discorso da dirle. Ha solo seguito il cuore ed è uscito nella sera, le sigarette in tasca la sciarpa sul viso ed un cappottaccio che ha visto tempi migliori.

E adesso? Adesso che mi invento?
«Più o meno», le dice. Facendo per girare sui tacchi e tornarsene alla baita di Javier. Si vede che le cose non devono andare così.
«Quando riparti?»
La voce di lei lo ferma a metà strada.
«Presto», le dice, ché stavolta è riuscito a sgraffignare davvero poco tempo. «Presto», ripete, come a voler risultare convincente alle sue stesse orecchie più che a quelle di Alazne.
«Ah», mormora lei, le dita intrecciate e lo sguardo abbassato. «È che io… insomma… speravo che…»
«Che?»
I suoi occhi sono un pugno allo stomaco, di quelli che strappano il fiato dai polmoni e mandano al tappeto senza appello.
«Che ti saresti fermato per un po’. Non ti si vede mai.» Sospiro. «Lo so, lo so. Tu hai i tuoi doveri da Santo e va bene. Ma io… io vorrei…»
Le sue mani agiscono prima che lui stesso se ne accorga. Le cinge il viso tra le dita, con la stessa delicatezza con cui si maneggia un cristallo fragilissimo, e si porta a pochi centimetri dal suo viso.
«Adesso sono qui.»


 

Maša scoccò loro un’occhiata severa, poi uscì dalla stanza a grandi passi e si richiuse la porta alle spalle con un suono secco e duro.
Ikki tacque. Guardò Ichi e Nachi, distesi sotto una montagna di coperte come lo era stato suo fratello fino a poche ore prima.
«Se solo ce ne fossimo accorti prima…», mormorò Shun.
«Che cosa avremmo potuto fare?», domandò Ikki. Stanco. «Se non chiedi aiuto, è difficile intervenire.»
«Però… avremmo potuto…»
Ikki scosse la testa. «Questo discorso non ci porterà da nessuna parte, Shun. Lo sai. Evitiamo di spendere tempo ed energie in discussioni sterili.»
Shun fece per ribattere che non era d’accordo, quando il dottor Alëša diede un colpo di tosse, ripose il fonendoscopio nella borsa di pelle e si voltò. La sedia cigolò. L’uomo rivolse loro un sorriso timido.
«Se la caveranno. Potete stare tranquilli», disse, in un inglese stentato, ma comprensibile. Sorrise, le mani nelle tasche dei pantaloni stazzonati.
«Grazie al cielo», mormorò Shun. 

Scese il silenzio nella stanza. Alëša si avvicinò al caminetto e osservò il fuoco. «Mi spiace. Maša ha reagito male», disse l’uomo, sfilandosi gli occhiali dal naso. Avevano una montatura antiquata e le lenti erano grandi, spesse e opache. «Non è cattiva. È solo un po’ Kikimora. Ma non ditele che ve l’ho detto, eh. Mi tirerebbe il collo.»
«Una… cosa?»
«Kikimora
«E che cos’è?», chiese Ikki, le sopracciglia aggrottate.
«Non so come si dice nella vostra lingua. Si tratta di una… strega, credo. Qualcuno che brontola sempre, da mattina a sera. Ma non è cattiva. Solo… Kikimora, ecco.»
«Posso chiederle una cosa, dottore?»
Alëša annuì.
«Da quanto tempo va avanti questa storia?»
L’uomo guardò le fiamme, poi si strinse nelle spalle. «Non te lo so dire. Io mi occupo di diversi villaggi. Sto qualche giorno qua, qualche giorno là. È arrivata una donna che li ha terrorizzati. Il villaggio doveva dire che Hyoga non si era visto da queste parti, altrimenti…»
«Altrimenti?» Lo sguardo di Ikki era quello di chi si sta avvicinando alla verità, piano piano, e si ritrova con il desiderio – con la smania – di mettersi a correre. Come se la verità potesse sfuggirgli di mano.
«Altrimenti avrebbero distrutto anche le altre case. La prima è stata quella del vecchio Kolja. Per dare un esempio. Quando sono rientrato, la casa non c’era più, e Kolja era morto dallo spavento, poveretto…»
«Hyoga non era con lei? Sicuro?»

Alëša annuì.
«Sicuro, purtroppo. Hyoga non avrebbe mai permesso una cosa del genere.» Si strinse nelle spalle, poi aggiunse: «Te l’ho detto. Maša è una kikimora, ma le kikimore non mentono. Mai.»
Shun scoccò uno sguardo al fratello. «Dobbiamo trovarlo. Subito», disse Andromeda.
Ikki annuì. Ichi e Nachi dormivano saporitamente, al calduccio.
«Va bene. Andiamo», disse. «Dottore, potrebbe riferire loro un messaggio?»
«Sicuro!»
Ikki si avvicinò. Posò una mano sulla spalla dell’uomo, che si ritrasse, spaventato forse dalla cicatrice che decorava la fronte del Santo della Fenice.
Si avvicinò al suo orecchio e mormorò qualche parola.
«Ha capito?», chiese. Alëša annuì.
«Ho capito», disse. «Glielo dirò non appena si svegliano.»
«Perfetto. Ci conto.»
«Senti. Puoi fare lo stesso con Hyoga, da parte mia?»
«Sicuro.»
L’uomo si avvicinò all’orecchio e mormorò una parola, secca nonostante suonasse come un arrotolarsi della lingua su se stessa. Una parola che profumava di sigarette e vodka a buon mercato.
«Durak?», ripeté Ikki. «Che significa?»
«Hyoga capirà.»

 

«Mio signore. È arrivata la vostra ospite.»
Occorrerà rivedere il protocollo. Gli piace la cerimoniosità con cui i suoi sottoposti si rivolgono a lui. La adora. Lo fa sentire onnipotente. Importante. Temibile. Ma a volte è superflua. Come adesso, in questo konditori decorato nei toni del rosso.
Fuglen. Suo padre va matto per il loro caffè e la torta alle mandorle. «Devi provarla. È stre-pi-to-sa», ma suo padre non è obbiettivo, in certi casi.
Dategli qualcosa di rosso, e vi rivolterà il mondo, pensa rigirando il cucchiaino di legno nel suo caffè.

Lukas solleva appena lo sguardo. Oltre il viso sorridente di Ullr, c’è lei. Una ragazza. Capelli lisci e neri, aria spaurita, abbigliamento di taglie sbagliate – troppo grande il cappotto, troppo piccola la gonna – le dita strette attorno alla tracolla della borsa. Ha la pelle screpolata e il naso rosso. Non è truccata, ma Lukas non fatica ad immaginare come doveva essere qualche anno addietro, quando dalla sua aveva la freschezza dei vent’anni, un amore nel cuore e un fisico più snello e longilineo.
Mangiare per dimenticare. Che solenne fesseria, pensa, rivolgendo un sorriso discreto alla sua ospite e ripiegando il giornale.
«Prego, prego», le dice, indicandole la sedia imbottita davanti a lui. Si alza. Ullr sgrana gli occhi. È cavalleria, nient’altro. Suo padre – quello che lui credeva essere suo padre – lo ha educato così e certe abitudini sono dure a morire. E qualcosa – il sesto senso, diciamo – gli suggerisce che non dispiacerebbero neppure al suo padre biologico.
«Grazie per essere venuta», le dice. Ignorando il tonfo con cui lei è caduta sulla sedia. Si guarda intorno. Spaesata, l’aria confusa di chi non ha mai messo il naso fuori dal suo villaggio.
«Caffè?», le chiede. Per catturare la sua attenzione. Perché la smetta di guardarsi attorno come se il mondo attorno a lei fosse nuovo di zecca, con la plastica ancora attaccata. «Una fetta di torta?»
«Ca…» Le esce un suono stridulo. Si schiarisce la voce con un paio di colpi di tosse, poi pronuncia un: «Caffè. Grazie.», che in un altro momento – e con una dozzina di chili in meno – gliel’avrebbe fatta sembrare deliziosa. Un bocconcino da assaporare in punta di lingua. Come un cioccolatino dopo il caffè.


Lancia un’occhiata a Ullr, che annuisce ed esegue. Torna ad osservare il bel viso della donna che si trova di fronte. Cecilia, si chiama. Occhi azzurri – abbrutiti da due profonde occhiaie – che gli chiedono cosa voglia uno come lui da una come lei. Non ci conosciamo. Perché se ci conoscessimo, io non sarei ridotta così. Questo gli sta dicendo il suo sguardo. Con una sicurezza che contrasta con la sua postura. Siede sul bordo della sedia, le gambe piegate di lato e il cappotto ancora indosso. Sta valutando l’opzione di alzarsi di corsa, prima che Ullr sia di ritorno col suo caffè, imboccare la porta e dileguarsi tra la gente. Non le correrà mica appresso, giusto? E poi, anche ammesso, lui dovrà superare il tavolo. Lei no. Lei ha la porta a due passi. Deve solo trovare il coraggio di alzarsi ed andarsene, prima che…
«Il suo caffè.»
Sobbalza sulla sedia, come se qualcuno l’avesse centrata in pieno con una secchiata d’acqua gelida. Ullr le posa la tazzina davanti. Il cucchiaino tintinna sul piattino di porcellana bianca. Essenziale. Minimalista. Poi Ullr le fa un piccolo inchino e sparisce, tirando le tende alle sue spalle.
Lei si guarda intorno. Spaventatissima.

Piccola, ingenua creatura, pensa Lukas, ripiegando con cura il tovagliolo. Poi ripesca il sorriso delle grandi occasioni, un’espressione che la faccia sentire a proprio agio e le chiede: «Zucchero?», porgendole una zuccheriera ben panciuta.
Lei continua a fremere. Lui si sta stancando di quel gioco, ma si costringe a proseguire. Posa la zuccheriera, poi le dice: «Spero che il viaggio sia stato piacevole.».
«Piacevolissimo», ribatte lei. «Ma non ho molto tempo da dedicarle. Il treno parte tra meno di un’ora.»

Bugiarda, pensa lui. «Capisco. Ma se mi darà ascolto, Cecilia, non avrà bisogno di salire su quel treno…»
Lo guarda come se si fosse messo a sputare fuoco dalla bocca. «Non credo di aver capito.»
«Ha capito benissimo, mia cara», ribatte, il sorriso luccicante della tagliola nell’erba alta. «Suo marito non sarà più un problema.»

Cecilia fa per alzarsi. Scosta la sedia con rumore, la borsa le scivola dalla spalla. Il caffè nella tazzina beccheggia, il cucchiaino tintinna.
Ullr non si affaccia. Non ce n’è bisogno. «Si sieda», le dice lui. Congelandola sul posto. «Sono un amico di Sven.»
Cecilia sgrana gli occhi. «Sven?», chiede. Quasi sussurrando quel nome. Le ginocchia le cedono. Piomba sulla sedia con un tonfo sordo, uno
sboff del cappotto attorno alle spalle. «Sven, ha detto?»
Lui annuisce. «Sono un suo amico. Lukas. Sven sta bene.»
A Cecilia manca l’aria. «Io… io…»
«Non deve dirmi nulla. So tutto. Sven mi ha raccontato a grandi linee cos’è successo. Mi ha chiesto di controllare che lei stesse bene… ma se posso essere sincero, Cecilia, lei non sta bene. Affatto.»
Si muove sulla sedia. «No, io…»
«Non menta. Lars non è qui. Lars non può farle alcun male.»
«Io…», biascica. Poi scoppia a piangere fragorosamente, il viso dietro alle mani screpolate. Ha le unghie irregolari. Alcune morse a pelle, altre testardamente allungate oltre ogni logica. «Lars… Lars…»
«Lars è un buon uomo, ma non è Sven. Giusto?»
Cecilia annuisce. «Ultimamente le cose non vanno bene. Dopo quell’incedente alla segheria, Lars non può più lavorare. E i soldi per mangiare sono sempre meno…»

Ma sono abbastanza per quella birraccia scadente che si scola da mattina a sera, pensa Lukas. «Così ha preso a picchiarti. Giusto?»
Cecilia fissa lo sguardo sul grembo, poi annuisce. E dice: «Sì.».
Lui scuote la testa, come da copione. «Sven ti sta aspettando, Cecilia. Ha riparato in un posto sicuro. Manchi solo tu. E non è giusto che tu viva questa vita di stenti. Che Lars ti picchi. Sven ti aspetta. Non vuoi essere felice, Cecilia?»


 

«Dove hai detto che vi siete separati?»
Il vento fischiava, sulla pelle e tra i capelli e sulla superficie levigata dell’armatura del Cigno. Shun taceva, le catene che danzavano nel valzer di aria ghiacciata. Andromeda sembrava un bambino sperduto dentro la sua armatura. Un bambino che ha lasciato andare la mano della mamma e che adesso si guarda attorno, chiedendosi dove sia finito il suo unico punto di riferimento.
«Shun?»
«Eh?» Andromeda si riprese. Sbatté le palpebre e gli rivolse un’occhiata dubbiosa.
«Stai bene?»
«Sì. Sì, io… Sto bene. Solo… ho bisogno di un po’ di tempo… Il dottore… come si chiama…»
«Alëša.»
«Alëša. Dice che il freddo mi ha un po’ bloccato il cervello, ma passerà. Starmene sepolto sotto la neve per Dio solo sa quanto, non è proprio una passeggiata di salute…»
«Shun, io…»
Shun scosse la testa. «Non adesso, Hyoga. Ne parleremo quando la faccenda sarà conclusa.»
Hyoga sospirò, annuì e mostrò i palmi delle mani al compagno. Mi arrendo, gli stava dicendo. Mi arrendo. «Va bene. Benissimo.» Pausa. «Troviamo Ikki.»
Shun concordò. «Dovrebbe essere da queste parti. Credo…»
«Credo? Shun, credo è un po’ poco. Devi esserne sicuro, altrimenti rischiamo di…»
«…morire assiderati?», lo interruppe Shun. «Già dato. Non mi interessa un altro giro di giostra, grazie.»
Hyoga strinse i denti. «Non dovevamo parlarne una volta al sicuro, Shun?»
«Sicuro.»
«E allora perché, in nome del Cielo, non fai che ritirare fuori questa faccenda?»
Shun si strinse nelle spalle. «Perché forse sono stanco. Molto stanco.»
«Ok. Va bene. Parliamone e facciamola finita.»
«Non qui. Non in mezzo alla tormenta, se non ti spiace.»
«E allora concedimi un po’ di tregua, vuoi?!»

Shun taceva, Hyoga gli rivolgeva uno sguardo di fuoco azzurro. Il vento fischiava sulle loro teste, sempre più forte e sempre più arrabbiato, come se volesse portare a galla tutti i rancori che si annidavano sul fondo delle loro anime.
«Cerchiamo Ikki», disse Shun, guardandosi attorno in quel bianco che spadroneggiava attorno a loro degradando nel grigio, all’orizzonte. «Schiena contro schiena.»
«Schiena contro schiena.»
Hyoga socchiuse gli occhi, cercando qualcosa, qualsiasi cosa che potesse assomigliare ad una sagoma. Quella di Ikki. Poi, improvviso, gli venne un pensiero. «Puoi usare le catene per localizzare tuo fratello. Giusto?»
Shun tacque.
«Shun?»
Silenzio.
Hyoga temette che si fosse sentito male. Era pallido, santo Cielo. Pallidissimo. Io lo sapevo che avrebbe dovuto restare a riposare ancora un po’!
«SHUN!», gridò, ma il suo fu un gemito strozzato che si perse nell’aria gelida.
Qualcosa si era serrato attorno al suo collo, stringendo, stringendo, stringendo, come se quella carne e quelle ossa fossero un tubetto di dentifricio da spremere fino in fondo. Si portò le mani alla gola, per liberarsi e tornare a respirare, ma quando le sue dita sfiorarono il metallo contro la pelle del suo collo, Hyoga ebbe la conferma che sperava di non avere, mai e poi mai, per nessuna ragione. Quella che lo strava strangolando era la catena di Andromeda.

«Shu…n…»
Il metallo era rigido, resistente e scivoloso allo stesso tempo. E più Hyoga cercava di divincolarsi, più Shun stringeva, stringeva, stringeva…
Mentre il respiro veniva meno, un pensiero lucido e preciso attraversò la mente di Hyoga.
Morirò. Qui. In questo bianco accecante. E nessuno lo saprà.
Shun diede un altro strattone e l’osso del collo di Hyoga produsse un rumore sinistro.
«Pe…»rché?, avrebbe voluto chiedergli. Per capire. Comprendere. Se Shun avesse voluto avere uno scambio d’opinioni con lui, Hyoga non si sarebbe di certo tirato indietro. Nossignore. Anzi. Il suo corpo sarebbe stato un sacco di sabbia su cui Shun prima – e Ikki poi – avrebbe potuto scaricare tutta la frustrazione e la tensione del caso. Ogni. Santa. Volta. Anche a costo di costringere il Santo di Andromeda a prenderlo a pugni fino a quando non gli fossero cadute le braccia dalla stanchezza.
Un altro strattone, ancora più forte.
«Avanti. È un attimo. Poi sarà tutto finito.»
La voce di Shun aveva sussurrato quelle parole, eppure c’era qualcosa di duro e spietato, nella sua inflessione. Come se la faccenda non lo riguardasse poi così tanto.
«Si può sapere quanto vuoi metterci a morire?! Non ho mica tutto il giorno, io…», e fu allora che Hyoga capì che no, non si trattava di Shun, ma di qualcun altro. Qualcuno che era dannatamente bravo a recitare la sua parte, e a trovare qualcosa così simile alle Catene di Andromeda da fare spavento.

Hyoga le conosceva. Lo avevano salvato più di una volta, quando i Santi d’Argento li avevano attaccati poco fuori città, ed erano finiti a dondolare nel vuoto di un crepaccio. E quando aveva riportato indietro il corpo esanime di Shun, dalla Settima all’Ottava Casa, Hyoga aveva sentito sotto le dita la consistenza di quegli anelli, la loro resistenza e la loro durezza. Ed aveva sperato, dal profondo del cuore, che anche il Santo di Andromeda possedesse la medesima tempra.
Un altro strattone. Hyoga reclinò la testa all’indietro e socchiuse gli occhi.
La punta triangolare della Catena d’Attacco lo fissava con lo stesso atteggiamento del cobra alle prese colla mangusta. Oltre quel triangolo c’era Shun, a sovrastarlo. Shun dallo sguardo gentile, Shun dall’animo sensibile, Shun dalla generosità sconfinata. Eppure, quelli non erano il viso delicato e lo sguardo limpido che Hyoga aveva imparato a conoscere.
Hyoga avrebbe dovuto reagire. Avrebbe dovuto colpirlo. Batterlo. Eppure, Hyoga sentiva che non avrebbe potuto levare un dito sull’avversario. Mai. In nessun caso. Neppure a costo della vita.
Non ce la faccio… Non ce la faccio… Non ce la…



«Non ce la faccio!»
Crolla sulle ginocchia. Esausto, colle nocche sbucciate e sanguinanti e il fiato corto che si condensa in fumo davanti alle sue labbra secche. Mamma ci avrebbe passato sopra quel burro che sapeva di fragola e gli tingeva le labbra di rosa. E avrebbero riso, insieme. Ma mamma è da qualche parte sotto il ghiaccio spesso una decina di metri. Davanti a lui c’è solo una distesa bianca e grigia. Alle sue spalle, gli occhi di Camus si stanno scavando uno spazio tra le sue scapole.
«Alzati.»
«No! Non ce la faccio!», protesta. Le nocche bruciano. Spezzare gli atomi. Che assurdità! Nessuno può riuscire in una cosa del genere. Nessuno. Nemmeno Camus. E se ha tanta voglia di vedere quel pezzo di ghiaccio andare in frantumi, perché non lo fa con le sue stesse mani?


Perché non può. Perché è tutto un trucco. Un gioco di prestigio, pensa Hyoga, il sudore che gli scivola lungo le tempie e le guance, e cade a terra, scavando piccoli fori sulla neve.
«Sono esausto!», aggiunge, la voce che si perde nell’aria immobile.
Sente Camus sospirare. «Non avresti la forza di protestare.» Passi che si avvicinano, attutiti. «Alzati. Non costringermi a tirarti su di peso.»
Non sarebbe bello. Affatto. Hyoga lo sa per esperienza, ma è davvero stanco. E davvero non ce la fa più. Non può continuare a picchiare ancora quella roccia congelata, non oggi. Domani, forse. Domani, chissà. Ma oggi la stanchezza di Hyoga ha raggiunto la misura.
«
Alors
Ma, ciononostante, Hyoga si solleva da terra. Piega un ginocchio, poi l’altro, quindi si ritrova in piedi, le gambe malferme e traballanti che gli chiedono se tutto quel freddo non gli abbia dato alla testa, ché loro no, non si muoveranno se non per tornare a casa. Eppure, Hyoga è in piedi. Barcollante peggio di Oleg dopo una sbronza delle sue. Ma in piedi.

Camus gli lancia un’occhiata indecifrabile, poi si avvicina all’obbiettivo che non è riuscito ad abbattere. «C’eri quasi», dice. Sfiorando appena la roccia, con la punta dell’indice. E quella va in pezzi, una granatina estiva di quelle che gli preparava la mamma, nei giorni felici in cui suo padre non esisteva.
«Ma…», protesta, regalando a Camus un’espressione meravigliata.
«È colpa tua», gli dice il suo maestro. «Un Santo di Athena non pensa fesserie come
Io non ce la faccio, o Non posso farcela. Un pensiero del genere significa spalancare le porte alla sconfitta. E la sconfitta significa?»
«Morte.»

Lo vede annuire, con la coda dell’occhio.
Camus gli ha ripetuto quel concetto più e più volte, accompagnandolo con una sonora dose di legnate. Ma forse non gli è entrato nella zucca a sufficienza, perché a Hyoga non importa poi molto della morte.
«Se muoio, posso andare dalla mia mamma!», gli ha ribattuto una volta, alzando la voce e gettando a terra uno strofinaccio liso. E Camus ha sorriso, lo ha trascinato con sé e lo ha tenuto colla testa all’ingiù nell’acqua ghiacciata. A quaranta sotto zero. E allora sì che Hyoga ha avuto paura. Da morire, appunto. Si è anche detto che sarebbe stata questione di un attimo e via, poi si sarebbe ricongiunto colla mamma, come nelle fiabe. Ma quell’attimo non finiva mai. E sua mamma non arrivava a prenderlo. E Hyoga s’è chiesto, in un angolo della sua mente – un angolino piccolo piccolo – se le cose sarebbero davvero andate come aveva sperato. Perché Camus lo sollevava e lo rituffava in acqua, nemmeno l’avesse scambiato per una bustina da tè. Non si decideva a farla finita, nossignore. E la paura di Hyoga era cresciuta fino a quando non si era arreso e aveva iniziato a lottare. Per vivere.

«I nemici non sono fermi e immobili, come queste rocce. I nemici contrattaccano. E più sei debole, più ti mostri debole, più loro infieriscono», dice Camus, riportandolo al presente, tra la neve fredda e dura sotto i piedi e il cielo di un grigio desolante. «Sei venuto qui con le tue gambe…»
«Mi ci hanno spedito», protesta il ragazzino. Interrompendolo. «Fosse stato per me…»
Camus scuote la testa. «Tutti noi abbiamo un destino, Hyoga.» Pausa. «Una strada da compiere, quale che sia. Forse questa non è la tua strada. D’accordo. Puoi decidere di arrenderti, qui e adesso. Ti rispedirò da dove sei venuto. Senza problemi.»
Hyoga gli lancia un’occhiata speranzosa. «Davvero?»
«Te l’ho già detto una volta, mi pare.» Camus si volta e piazza i suoi occhi severi su di lui. «Se ti avesse inviato qui il Santuario, non sarei stato così tenero. Ma sono disposto a fare un’eccezione. Voglio vedere fino a dove arriverai.»
«All’armatura del Cigno.»
«No», e la testa di Camus va da destra a sinistra. «Non arriverai da nessuna parte, non con questo spirito. L’Armatura vuole qualcuno con le idee chiare. Athena vuole qualcuno con le idee chiare. E tu non mi sembri affatto la persona adatta. Quindi, puoi scegliere. O ti metti l’anima in pace e torni da dove sei venuto. Oppure…»
«Oppure?»
«Oppure mi dimostri coi fatti che mi sto sbagliando. Non ti importa che io pensi che tua madre abbia sacrificato la sua vita per uno smidollato simile?»
«Io non sono uno smidollato!»

Hyoga non s’è accorto di avere gridato, i pugni stretti e le guance rosse di rabbia. Sta fremendo, dalla punta dei piedi alla cima dei capelli. Se Camus non fosse più alto e più grosso di lui, gli sarebbe già saltato al collo e si starebbero accapigliando, come succede ogni tanto con Isaac.
«Davvero?», ripete Camus, gli occhi ridotti a due fessure.
«Davvero!!»
«
Acta, non verba. Dimostramelo. Voglio i fatti, Hyoga. A parole sono buoni tutti…»
Hyoga ringhia basso, la mascella serrata e i pugni chiusi.
«E come?»
Camus sorride, la stessa smorfia ferina che metteva su Rémy quando qualcuno cadeva nella tagliola di propria sponte. Con tutte e due le zampe.
«Quella roccia laggiù», dice, indicandogli col pollice un pinnacolo alle sue spalle, alto il doppio e spesso il triplo di quello che ha appena sbriciolato come fosse un biscotto. «Distruggila. E guai a te se ti sento dire ancora una
connerie come Non ce la faccio. Intesi?»



Non ce la faccio…

Nella realtà, Camus non era mai stato così affabile ed accondiscendente. Anzi, lo aveva sempre considerato un pezzo di ghiaccio ambulante, qualcuno che non s’era mai preoccupato di nulla e di nessuno. Lo aveva addestrato per scommessa. Perché qualcuno, in alto, gli aveva ordinato di fare così e lui aveva obbedito, da bravo soldatino efficiente. Ma Hyoga aveva toccato con mano quanto le apparenze potessero ingannare, ché a Camus importava, sì, di qualcuno. Di lui. Dell’unico allievo rimastogli.
«Un ragazzino talmente smidollato da non reagire e salvarsi la vita…»
Sì, Camus avrebbe detto una cosa simile, pensò Hyoga. Poi qualcosa si ruppe, ma non fu il suo collo. La stretta della catena si allentò e lui cadde a faccia all’ingiù nella neve. Era fresca, un sollievo sulla pelle arrossata. Si sollevò da terra e si voltò.
Alle sue spalle, Coralie stava fronteggiando il suo avversario, la cui forma cambiava ad intermittenza. Un attimo era Shun, l’istante successivo una figura massiccia dall’armatura blu scuro ed i capelli biondi. Impugnava uno strumento musicale. Una lira, una cetra, o qualcosa di simile, le cui corde avevano avvolto il Cigno come avrebbe fatto la tela del ragno attorno alla preda.
«Sei vivo?», chiese Coralie.
Hyoga provò ad aprire bocca, ma parlare era impossibile. Gli bruciava la gola, e la lingua aveva raggiunto dimensioni preoccupanti. Prese una manciata di neve e la ingoiò. Meglio.
«Sei vivo», disse lei, le mani sui fianchi e le spalle rilassate. «Restalo per i prossimi cinque minuti, okay?» Poi riportò l’attenzione sull’avversario di Hyoga. Che reagì. Pizzicò le corde del suo strumento – meno di un accordo – e il collo del Cigno si ritrovò un’altra volta immobilizzato da quei fili duri come l’acciaio e affilati come rasoi.
«Un altro passo e l’ammazzo. L’ammazzo, capito?! Ti giuro che l’ammazzo!»
«Fallo. Avanti. Voglio proprio vedere…»
«Non mi credi?», chiese l’uomo, dando una piccola stretta di polso.
«No.» Lei sollevò il dito indice. Una leggera nebbiolina rosa e viola – un alone appena percettibile – apparve sul suo polpastrello. «Non sono questi i tuoi ordini, o l’avresti già ucciso. Lui ti serve vivo. La domanda è perché
«Niente di personale», ribatté. E fece per pizzicare ancora il suo strumento, forse per l’ultima volta, quando si sentì uno SNAP riempire il silenzio assordante. Una corda si era spezzata e s’era arricciata attorno al pirolo, ricoperta di un sottile strato di ghiaccio. Impalpabile, nemmeno fosse zucchero a velo.

«Ma che diamine?» L’uomo si voltò, allarmato.
Hyoga era riuscito ad espandere il suo cosmo. Aveva piegato un ginocchio, poi l’altro, quindi si era ritrovato in piedi, le gambe malferme e traballanti che gli chiedevano se tutto quel freddo non gli avesse dato alla testa, ché loro no, non si sarebbero mosse, se non per tornare a casa. Gocce di sangue macchiavano la neve di rosso. Eppure, era in piedi. Il Cigno era in piedi. Dolorante, stanco e barcollante, come Oleg dopo una sbronza delle sue. Ma in piedi.
Il Cigno espanse il proprio cosmo ed un sottile strato di brina avviluppò le altre corde, veloce, come se stesse pattinandovi sopra.
«Dannazione!», biascicò l’uomo, richiamando a sé le corde del suo strumento, che reagirono come se fossero state vive.
Hyoga si voltò. Allontanò i rimasugli delle corde dal collo e le lasciò cadere a terra. «Stanne fuori», disse, fissando il suo avversario.
«Sicuro», ribatté Coralie, facendosi indietro di un passo.
«Mi hai spezzato una corda», disse l’uomo, e per un secondo Hyoga si chiese se gli avrebbe chiesto di pagare i danni; ma l’altro portò indietro la gamba destra e strinse a sé il proprio strumento. «Credi di riuscire a sconfiggermi, paperotto?»
Hyoga non rispose. Assunse la prima posizione e squadrò il proprio avversario. Era massiccio, ma non imponente. La classica persona che non si sa se conviene scavalcarla o girarle attorno. Lo fissava con uno sguardo affilato, le labbra ridotte ad una linea dura.
«Chi sei? Che volete da me?»
«Te l’ho detto, paperotto», ribatté lui, indicando con un cenno la decorazione a forma di cigno sul diadema di Hyoga. «Devi morire. Niente di personale.»
«Vedremo.»
L’uomo sospirò. «Lo so, lo so. Venderai cara la pelle, vero?»
«Deve. O l’ammazzo io…»
L’uomo scoccò uno sguardo a Coralie e sorrise.
«Vedi, paperetto?», disse, indicando la ragazza alle sue spalle. «In un modo o nell’altro, devi morire. Quale scegli?»
«Nessuno dei due.»

E Hyoga disegnò la seconda posizione. La croce.
Vincere è una questione di volontà, diceva Camus, di cosmo che ruggisce nelle vene, assieme al sangue e all’orgoglio. Io sono il Cigno, digrignò tra i denti Hyoga, richiamando a sé il potere della sua stella guida, un turbine di energia fredda che montava, piano piano, come una tempesta in avvicinamento.Una di quelle accecanti, dove non si distingue la destra dalla sinistra.
Io non indietreggerò, si disse, gli occhi socchiusi e la mascella serrata. Di più. Più in basso. Ancora un po’. Oltre.
Deneb ruggì. Il potere delle stelle confluì nei suoi pugni e nelle sue braccia, ingrossando il suo Cosmo di un’energia spaventosa. Ingestibile, quasi.
Freddo. Ancora. Di più.
Il suo cuore rallentò i battiti. Imperturbabile. Il mondo attorno a lui era un turbine impazzito di bianco, eppure Hyoga non se ne diede pensiero. Non lo riguardava. Pugno destro chiuso. Pugno sinistro ad accompagnare. Braccia tese, sopra la testa, ad accogliere il potere delle energie fredde e farlo fluire dentro di sé. Come un orcio che si riempie d’acqua. Gambe divaricate. Ginocchia appena flesse. Talloni ben piantati a terra.
Maestro, questo lo dedico a voi!
E la Polvere di Diamanti si librò nell’aria, schizzando in avanti e avvolgendo l’uomo nell’armatura blu notte in un cristallo trasparente.
Hyoga abbassò spalle e braccia. Stanco. Stanchissimo. Si ritrovò col fiato corto, a fissare il terreno a pochi centimetri di distanza, le mani affondate nella neve fresca.

Questa giornata non finisce più...
Rumore attutito di passi e giunture metalliche, e Coralie si avvicinò al nemico. Squadrò il cristallo di neve extra-large, le mani sui fianchi, e poi diede un colpo con le nocche sulla superficie.
«Stupefacente…», disse. Il suo viso era sinceramente stupito, come quello di una bambina che assiste ad un gioco di prestigio. «Peccato che non sapremo mai chi fosse il mandante…»
«Ne arriveranno altri», disse Hyoga, tra un respiro ansimato e l’altro.
«Faremo meglio a spicciarci, allora», ribatté Coralie, allontanandosi dal cristallo. Si avvicinò e lo sovrastò.
Hyoga vide la sua mano spuntare nel suo campo visivo.
«Andiamo?»
Hyoga afferrò quelle cinque dita smaltate di nero e si alzò.
«Andiamo.»
Lo sguardo di lei si fece serio.
«Vorrei evitare altri brutti incontri e raggiungere il Santuario in sicurezza.  Conosco una scorciatoia, se vuoi.»
«E perché non l’hai proposta prima?»
Lei sgranò gli occhi. «Perché è massacrante. E io per prima l’eviterei, se non fosse assolutamente necessario. Ma ho il timore… ho la certezza, che questi signori continueranno ad inviarci chissà quanti altri cani da caccia. Lo so io, e lo sai tu.»
«Quindi, che proponi?»
«Passare per la Valle della Morte», disse. Restando a fissarlo, come a voler scorgere sul suo viso qualcosa. Una reazione di qualunque tipo. Hyoga si limitò ad inarcare un sopracciglio. «Posso usarla per spostarmi nello spazio. È molto pratico, se conosci un paio di trucchi. Ma devo avvisarti che sarà massacrante. Te la senti di provarci?»
Hyoga sospirò, le mani sui fianchi. «E gli altri?»
«Loro vogliono te, non i tuoi compagni.»
Il Cigno stornò lo sguardo dal suo viso all’orizzonte, lì dove il bianco della Siberia e il grigio del cielo si tendevano la mano, sfumando in un non colore nebbioso.
«Proviamoci», lo esortò lei. «Se non te la senti, però…»
Non me la sento? «Proviamoci», disse Hyoga. «Dimmi cosa devo fare.»
Lei sorrise, e a lui sembrò più giovane, quasi.
«Dammi la mano, ed espandi il tuo Cosmo. Più che puoi. Intesi?»
«Intesi.»
«Farà schifo. Ti verrà da vomitare. Ma tu non lasciare andare le mie dita. Mai. Per nessun motivo al mondo.»
Hyoga annuì. Lei gli strinse la mano in una morsa ferma e sollevò il suo indice destro. C’era una nebbiolina viola che vorticava nello spazio tra le unghie e la pelle.
«Chiudi gli occhi, Hyoga», disse lei. Poi tutto divenne viola e Hyoga si sentì come sollevato di peso, da una mano gigantesca. I suoi piedi si staccarono da terra, la sua testa divenne leggera e l’aria ancora più impalpabile. Poi qualcosa lo risucchiò in basso, come se un amo gli avesse arpionato l’ombelico, e Hyoga cadde, nel buio e nel silenzio più assoluto.





Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:

Cominciamo a picchiarci!! Avevate perso le speranze, vero?

Pakia appare nell'anime di Lost Canvas, ed è l'allievo di El Cid che fugge dal Santuario prima di giurare fedeltà. Lo salva Sisifo, ricordando ad un El Cid fin troppo pronto a passare il suo ex allievo a fil di spada, che Athena si serve in molti modi
Lacaille è lo studioso che, per primo, tracciò la mappa dell’Emisfero Australe, dando i natali a costellazioni come La Macchina Pneumatica, l’Orologio, eccetera eccetera. Kurumada, però, ci dice che queste costellazioni pacchiane – essù, sono pacchiane! – esistono dai tempi del mito. E siccome io sono abilissima a spararmi delle seghe mentali dei dilemmi clamorosi, e chiudere le voragini che Kurumada si lascia dietro, ecco fatto. La Teshirogi non può lanciarmi certi assist e pensare che io non li colga, no?

Nel mio headcanon, la Sigé è un obbligo che il Sacerdote impone ai Santi di Athena. Sigé in greco significa silenzio. Ho introdotto questo concetto qui.
Sempre nel mio headcanon, il Santo del Cancro può utilizzare il Sekishiki Meikaiha per raggiungere la Valle della Morte col proprio corpo e transitarvi per raggiungere un’altra destinazione. Come se fosse una specie di stargate. Comodo, no?

La kikimora è una figura del folklore russo. Si tratta di uno spirito dall’aspetto femminile, che abita nelle case ed è molto chiassosa. Dire a qualcuno che è una kikimora, equivale a darle della vecchia brontolona, di quelle sempre pronte a borbottare per qualsiasi cosa.

In tutto ciò, ieri ho festeggiato i miei primi tredici anni su EFP; la prima storia che pubblicai fu proprio la prima versione di Quando piovono le stelle, e mi sembrava carino aggiornare in quest'occasione... ma grazie a Windows 10 posso affacciarmi soltanto oggi (grazie, Bill Gates!). Grazie mille, a tutti voi, per questi anni tra alti e bassi e tante soddisfazioni. E adesso, bando alle ciance e si stappino le bottiglie e si librino i lieti calici!!
   
 
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