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Autore: emmegili    28/06/2016    0 recensioni
- Hai intenzione almeno di dirmi come ti chiami o dovrò tirare ad indovinare?
- Hai intenzione di smettere di interrompermi mentre leggo o devo imbavagliarti?
- D’accordo, tirerò ad indovinare.
- D’accordo, mi toccherà imbavagliarti.
- Sei davvero adorabile, te l’hanno mai detto?
- Sei davvero un rompipalle, te l’hanno mai detto?
--
Ma Oliver... Oliver non muove un muscolo, nemmeno gli occhi. Mantiene lo sguardo fisso nel mio, come un salvagente nel mare in tempesta. Ogni volta che sto per affogare, mi aggrappo alla sua sicurezza.
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Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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2.        
 
Non so cosa mi spinga a tenere i piedi a terra e non sul sedile, dove sono sempre stati.
Non so nemmeno cosa mi abbia spinto a dimenticare il lettore mp3 a casa, così che ora sono seduta su un sedile dell’autobus passando il tempo a fantasticare sulla vita delle persone che mi circondano.
Quella donna seduta in ultima fila, ad esempio. La maggior parte degli altri posti è occupata da studenti pronti ad arrivare a scuola, ma lei ha superato da parecchio l’età scolastica.
Legge il quotidiano uscito da appena qualche ora. Ha i capelli rossi lunghi, e non porta la fede al dito.
Magari deve andare a trovare qualcuno in ospedale. Chissà, forse la sorella che ha appena partorito.
E magari è una bambina. E si chiama Anna. E attorno al suo lettino ci sono il padre, raggiante di gioia, la madre, fuori di sé dalla contentezza, e un fratello maggiore, che ha appena imparato a contare fino a dieci e che avrebbe preferito un maschietto. E sono felici. E la donna qui presente spera che la corsa non finisca mai perché, mentre la sorella ha una famiglia felice, lei è sola ed abbandonata a sé stessa.
- Persa nei tuoi pensieri? –una voce mi riscuote. Sbattendo le palpebre, mi volto verso il sedile accanto al mio.
Oliver e il suo sorriso sghembo.
Gli sorrido. O almeno credo di farlo.
- Come mai non hai appoggiato i piedi sul sedile? –chiede accomodandosi.
Mi stringo nelle spalle.
- Non lo so, esattamente. –mormoro.
- Vediamo...facciamo qualche ipotesi?
- No, non serve, ma grazie per l’impegno.
- Mm...ti senti sola? Hai finalmente realizzato che sulla corriera si può anche socializzare con gli altri? –ride fingendosi pensoso.
- Così vuoi socializzare, eh? –sbuffo –Va bene, socializziamo, Dawn! Mi spieghi perché il tuo nome e il tuo cognome sono tutt’altro che italiani, nonostante siamo in Italia?
Oliver si sistema sul sedile, trattenendo un sorriso.
- Scommetto che ci hai pensato tutta la notte. Sicura di voler sentire questa storia, Rachele?
Guardo fuori dal finestrino.
- Tanto ho dimenticato a casa le cuffiette... –borbotto.
- Bene. C’era una volta una ragazza italiana di nome Luisa. Era giovane e bellissima. Il suo sogno era viaggiare, viaggiare per il mondo intero! Voleva vedere l’Australia, l’America, il Canada, la Norvegia, l’Inghilterra, l’India, la Germania, la Francia, la Spagna...
- Okay, Verne, stringi. Non serve che mi fai fare il giro del mondo in ottanta giorni. –lo blocco. Oliver mi guarda sorridendo. Quei suoi occhi marroni brillano.
- Come stavo dicendo prima che mi fermassi per citare uno dei libri più celebri della storia, oserei dire, mondiale, Luisa amava il mondo. Quando compì ventuno anni, il padre le regalò un viaggio. “Scegli una meta, e vacci”, le disse. Luisa scelse il Canada. A dire il vero, fu il destino, a scegliere per lei. Prese un mappamondo e lo fece girare, poi, all’improvviso, ci puntò un dito sopra, bloccandolo. Il suo dito era finito sopra il Canada. In Canada conobbe un certo John, un giovane avvocato che voleva andare lontano. Si innamorarono. Quell’amore incondizionato formato dalla giusta ed equa mescolanza tra affetto, attrazione, empatia e dipendenza.
Quell’amore che li portò, cinque anni dopo, a sposarsi. Nel frattempo Luisa era tornata in Italia cinque volte. La prima da sola, per poter parlare ai suoi genitori. Aveva intenzione di rimanere in Canada. Lei e John si amavano, disse loro. Lei aveva già trovato qualche lavoro che potesse fare per lei e il posto le piaceva tantissimo. Fu un duro colpo, per i suoi. Però quando poi tornò in Italia con John, tutto divenne più semplice. Era un bravo ragazzo, con la testa sulle spalle. Luisa sarebbe stata bene.
E così fu. La ragazza riuscì a trovare un lavoro come redattrice di una rivista locale e, grazie al sempre più fruttuoso lavoro di John, si trasferirono in una bellissima casa.
E poi arrivò il loro primo figlio. Era la loro gioia più grande. Luisa prese a parlargli in italiano, per preservare la sua lingua madre. Così il bimbo cresceva, parlava l’inglese e l’italiano in modo impeccabile, si definiva sempre meglio la sua personalità. Pochi mesi dopo aver compiuto due anni, nacque sua sorella, Allison, ma semplicemente soprannominata Allie.
E mentre i loro figli crescevano, Luisa e John invecchiavano. Il loro figlio maggiore decise di voler cambiare aria. Perché non l’Italia? si disse. In fondo sua madre gli aveva insegnato la lingua fin da piccolo. E poi la sorella di Luisa, Sofia, era rimasta nel Paese. Era ancora viva. E sola. E lo avrebbe ospitato molto, molto volentieri. Avrebbe potuto frequentare una delle scuole locali, in Italia ce n’erano di così tante! Solo per un po’. Poi sarebbe tornato in America. Ed eccolo qui, seduto accanto a te in un autobus italiano a parlare della storia della sua famiglia. –racconta.
Lo guardo di lato, con un mezzo sorriso sul volto.
- Spiegato il mistero. –mormoro –Sei bravo a raccontare le storie.
Oliver Dawn sorride assieme ai suoi occhi.
- E tu? Da dove salti fuori? –chiede fissando davanti a sé.
Sospiro.
- Non voglio parlarne.
La mia risposta pare lasciarlo un po’ perplesso, ma non si volta a guardarmi. Semplicemente annuisce.
- Non è una storia felice come la mia, vero? –sorride amaramente.
- Ho detto che non voglio parlarne. –ribatto.
- D’accordo. Scusa. –alza le mani in segno di resa.
Il silenzio cala su di noi e, nonostante attorno a noi ci sia un brusio sommesso, risulta imbarazzante.
Schiarendomi la gola torno a guardare in direzione della signora di prima, quella con i capelli rossi.
Si sta alzando. L’autobus si è appena fermato. Dovrà scendere a questa fermata. Ripone il giornale nella borsa e, stringendosi nel piumino blu, raggiunge il corridoio.
Forse sono stata melodrammatica. Forse non sta andando in ospedale, a festeggiare un evento felice che la fa sentire solo più triste. Magari è contenta, anche se non lo dà a vedere. Oppure è veramente triste, ma non perché è nata la nipote. E’ triste perché il cognato si è trovato davanti alla scelta “o la madre o il bambino”. E probabilmente, magari dopo aver parlato con la moglie quando stava bene, quando ne parlava solo nell’eventualità ma senza mai pensarci davvero, ha scoperto che la donna voleva che salvasse il bambino. Lui ha ribattuto. Ha detto che avrebbero potuto avere un altro bambino, che invece lei sarebbe scomparsa, sparita, defunta. Per sempre. Non ci sarebbe mai più stata. E lei ha tranquillamente replicato che lo stesso valeva per il bambino, che non valeva di meno solamente perché non aveva ancora imparato ad amarlo. E che, mentre lei aveva vissuto già trent’anni della sua vita, quella del figlio non era nemmeno cominciata. Che era giusto così.
- Hai mai pensato di fare la scrittrice, Rachele? –chiede all’improvviso Oliver guardandomi con gli occhi socchiusi.
Sobbalzando per la sorpresa, distolgo lo sguardo dalla signora che sta uscendo dalla corriera e lo rivolgo al volto curioso di Oliver.
- Cosa? E perché mai? –domando.
- So cosa stavi facendo. Stavi fantasticando sulla vita di quella donna. Non è vero?
Lo fisso respirando lentamente. E’ una di quelle domande alle quali non sai cosa rispondere. La verità? O è più conveniente mentire?
- Può darsi –mormoro.
Lui sorride compiaciuto.
- Lo si vedeva dal tuo sguardo. E penso che dovresti provare a scrivere quello che ti inventi. Eri talmente assorta che potrebbe venirne fuori qualcosa di grande.
Scoppio a ridere.
- Perché ridi? –mi chiede sorridendo, coinvolto dalla mia risata.
- Sei buffo, Oliver Dawn. –rido – Figurati se...bah!
- Raccontami quello che ti sei immaginata sulla donna dai capelli rossi, coraggio! –mi sprona fin troppo convinto.
Mi fermo per un secondo, smetto di ridere. Fissandolo, la bocca mi si distende in un sorriso.
- Non sto scherzando! Dai! –mi incita sorridendo ancora stupito che sia scoppiata a ridere.
Rimango in silenzio.
- D’accordo –accetto.
Mi sistemo meglio sul sedile. Lancio ad Oliver un’occhiata dubbiosa, ma lui annuisce deciso.
Prendendo un sospiro, prendo a parlare.
- E’ palesemente triste. Non legge il giornale, lo guarda. Non ha mai voltato pagina. Il che significa che sta pensando a qualcosa. Qualcosa di triste, perché se fosse felice avrebbe un sorriso dipinto sul volto. Quindi la donna è triste.
- Diamole un nome –suggerisce Oliver.
- Okay, chiamiamola Maria.
- Maria è triste –annuisce il ragazzo.
- Dobbiamo anche considerare il fatto che è su un autobus alle ore sette e un quarto della mattina, il che è inusuale. Inoltre è il primo giorno che la vedo, per cui dubito stia andando a lavorare. E’ appena scesa alla fermata dell’ospedale, quindi i sospetti che avevo sono reali. Sta andando in ospedale. Ci resta solo una domanda: perché?
Oliver annuisce.
- Quindi ci ho pensato su. E sono arrivata alla conclusione, dopo tante diverse versioni, che sua sorella ha partorito questa notte, ma che non l’ha superata. Che il cognato ha dovuto scegliere tra lei e il bambino, e ha scelto il bambino. Che lui è distrutto. Che ha anche un altro figlio di due anni. Che è disperato. Che non sa cosa fare. E quindi lei sta andando ad aiutarlo. –concludo.
Oliver ridacchia.
- Vedi, è di questo che sto parlando. –sorride –La conosco. E’ semplicemente un’infermiera alla quale hanno cambiato turno qualche giorno fa. Ed è di pessimo umore perché ora si deve svegliare presto per andare a lavorare. E’ un’amica di mia zia.
- Non...non capisco –borbotto guardandolo con gli occhi chiusi.
- A te piace inventare le cose sulle persone, vuoi spaziare con la fantasia. Chiunque altro si sarebbe limitato a guardarsi attorno. Tu invece ti sei messa ad inventarti una storia per una donna. E’ bello.  Oliver sorride ancora.
- Non è vero. Un sacco di gente lo fa.
- Tutta la gente che ama scrivere, se è annoiata, lo fa. –puntualizza.
- Non puoi saperlo! –obietto.
- Nemmeno tu.
Sospiro.
- Il nostro è un rapporto conflittuale, immagino. –mormoro.
- Perché, abbiamo un rapporto?
Ora il sorriso di Oliver è divertito, di chi la sa lunga.
Apro la bocca più volte, per poi richiuderla.
- No, certo che no –esclamo poi – insomma, ti conosco da due giorni!
- Sei stata tu a dirlo.
- Sì, okay, ma intendevo che sarà un rapporto conflittuale. –borbotto – Dato che tu hai intenzione di sederti qui ogni mattina.
- Ah-ah. –annuisce.
Il silenzio cala su di noi un’altra volta. Grazie al cielo, arriviamo alla mia fermata. Scatto in piedi.
- Ecco, io devo scendere! –esclamo allontanandomi dal sedile.
- Certo. –Oliver sorride. Ed ora, che sono già in una situazione imbarazzante, il suo sorriso appare più attraente del solito.
- Si...ehm...ci vediamo lunedì, allora. –mormoro passandomi una mano tra i capelli –Dato che è venerdì.
- Sì, va bene. Ci vediamo. –sorride guardandomi mentre me ne vado.
 
- Allora, l’hai incontrato anche stamattina? –chiede allegra Arianna saltellando. Ha preparato quasi tutto per la sua festa di domani, le mancano solo un paio di particolari.
- Chi, Ari? –sospiro camminando verso la scuola di sua sorella.
- Omar. O come l’hai chiamato. Oscar?
- Sì, era proprio Oscar. –rido salendo gli scalini di pietra bianca.
Siamo venute qui dopo scuola perché Rita, la sorella di Arianna, frequenta questo liceo scientifico da quattro anni e le ha suggerito di chiamare, per la festa, un ragazzo che frequenti questa scuola a suonare. Gliene vuole presentare tre o quattro, poi lei sceglierà. Rita ha detto che sono i migliori, alcuni di loro sono davvero fenomenali con la chitarra. Arianna mi ha permesso solo di accompagnarla all’entrata. Dovrò aspettare fuori. Vuole lasciarmi la sorpresa.
- Bene. Ci vediamo dopo. –sorride varcando l’entrata.
- Certo.
Mi siedo sui gradini dell’entrata, il mento sulle ginocchia.
Chiudo gli occhi e sospiro, massaggiandomi le tempie.
Sento la porta dietro di me aprirsi.
- Oh, grazie a Dio!
Rita si siede accanto a me, sigaretta in bocca.
I capelli corvini, lunghi, sono lisci e flessuosi. Ha l’aria stanca.
- Ele. –saluta con uno sbuffo di fumo.
- Ciao Rita –mugugno, con un’improvvisa fitta di mal di testa.
Rita stende le gambe, poi si passa le mani tra i capelli.
- Ti ha lasciato qui fuori, vedo. –constata con la sigaretta tra le dita.
- Vuole mantenere la sorpresa. –spiego lentamente.
- Oh, sì, lo so. Mi chiedo solo perché tu stia qui ad aspettarla.
Volto la testa verso di lei, che continua a guardare avanti. E’ sempre stata invidiosa dell’amicizia tra me e Arianna. Fin da quando eravamo piccole. Ha solo due anni più di me e sua sorella, ma ne dimostra venti in più. E’ una ragazza lunatica. Quando ci ha parlato dei ragazzi con cui ora molto probabilmente Arianna sta parlando era solare, contenta. Ora è tornata una persona triste e stanca, stufa della vita.
- Semplicemente ho perso la corriera. –racconto –Devo aspettare la prossima.
- La prossima passa tra mezz’ora, Rachele. –obietta prendendo il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans.
- Lo so, Rita. –rispondo scandendo le parole.
Lei continua a fissare lo schermo del cellulare, spirando ogni tanto dalla sigaretta.
Un sorriso le guizza sul volto.
- Di che anno sono i ragazzi delle “audizioni”? –chiedo ignorando il suo comportamento.
- Oh, sono tutti in Quinta, come me. –mormora distratta.
- Diciannovenni amanti della musica? –sorrido.
- No, diciannovenni che vogliono venire alla festa solo per vedere casa mia. –commenta sarcastica – Ovvio, che amano la musica.
Prendo un profondo respiro, chiudendo gli occhi. Non è il caso di litigare con Rita, Rachele. Non è proprio il caso di farlo.
- Senti, avvisi tu Arianna che sono dovuta scappare alla fermata? –chiedo.
Lei mi guarda inarcando un sopracciglio, ma poi annuisce.
- Okay.
Mi alzo dai gradini di pietra, posando su una spalla lo zaino.
Infilo i pollici nelle tasche dei jeans.
- E... Rita? –la chiamo senza voltarmi verso di lei.
- Sì?
- Grazie.
 
- Cosa?
Mia madre lo ripete forse per la quarta volta, appoggiandosi al tavolo della cucina. Mi immobilizzo nel bel mezzo della cucina, con la bottiglia del latte ancora in mano.
Appoggiato alla porta della cucina, Lucas sembra non capire.
- Possiamo incontrarci con papà, questo fine settimana? –chiede di nuovo, lentamente.
- E perché mai, Lucas? –domanda mia madre, bianca in volto.
- La maestra ci ha assegnato un tema per casa su nostro padre per lunedì ed io...ecco...non me lo ricordo.
Lucas arrossisce violentemente.
- Tuo padre vive in America, Lucas, lo sai bene. –ricorda la donna, cercando di convincersi che il bambino, magari, soffra di amnesie temporanee.
- Sì lo so...però...
La voce di mio fratello muore sospesa nell’aria.
- In effetti sono dieci anni che non lo vediamo... –intervengo io.
Gli occhi di mia madre scattano su di me.
Mi stringo nelle spalle.
- E’ sempre nostro padre, mamma.
- La sai bene, la storia, Rachele... –sottolinea cercando di non farsi prendere da una crisi di nervi.
Annuisco.
Quando nacque Lucas, mio padre dovette partire per la Florida, per motivi di lavoro. Disse che era meglio che lo aspettassimo qui in Italia. Seguirlo sarebbe stato solo svantaggioso.
Tornò dopo due anni, come da contratto. Però aveva trovato un’altra donna, che era incinta di suo figlio. Gli dispiaceva, ma non poteva lasciarla.
Così ora che il suo lavoro ha dato i suoi frutti è un milionario che fa la bella vita in America, con una donna la metà dei suoi anni e un figlio dell’età di Lucas.
E noi tre, qui, da soli.
Mia madre non gliel’ha mai perdonato. Nemmeno io l’avrei fatto, fossi stata in lei. Ma in quanto figlia? L’ho perdonato? No, certo che no. Però sento la sua mancanza ancora oggi. Non la mancanza della sua persona, quanto del suo personaggio. Mi manca una figura paterna, non mio padre.
- Sul serio voi due volete rivedere l’uomo che vi ha abbandonati? –sputa, sull’ultima parola, tutto l’odio che ha in corpo.
- Potremmo andare a trovarlo. Ele ha sempre voluto vedere l’America –suggerisce Lucas.
- Tua sorella ha sempre voluto vedere qualunque Paese, Lucas. –ribatte mamma.
Restiamo in silenzio.
- Certo, andiamo in America! –sbotta dopo un po’ – Stiamo una settimana nell’enorme attico con vostro padre, sua moglie, che ha qualche anno in più di Rachele, e il loro figlioletto viziato! Certo! Come ho potuto non pensarci prima?
Rossa in volto, mamma mette fine alla discussione uscendo dalla cucina.
Lucas sembra dispiaciuto.
Gli passo accanto e gli carezzo i capelli.
- Ti aiuto io con il tema, Lu. Dai, andiamo. –gli sorrido.
 
- Mamma non mi ha mai detto di avere tutte queste foto –sussurra Lucas guardando sbalordito il baule impolverato davanti a noi.
La luce del sole del pomeriggio entra filtrata dalla finestrella sporca della soffitta.
Mi siedo con le gambe incrociate sul pavimento scricchiolante, facendo segno a Lucas di fare lo stesso.
Prendo il primo album di fotografie e lo apro.
- Chi sono questi due? –scatta il bambino indicando la coppia nella prima fotografia.
La ragazza porta i capelli raccolti, il sorriso smagliante. Indossa un vestitino a fiori e ha una rosa rossa in mano. Anche lui sorride sereno, stringendola a sé. Sullo sfondo c’è una collina in fiore, in primavera.
- Questa è la mamma. –rispondo posando il dito sulla ragazza –E questo qui è papà.
- Come si chiama papà, Rachele?
- Enrico. Enrico Nardi.
- Te lo ricordi?
Sorrido e gli carezzo la nuca.
- Solo qualche lampo.
Gli occhi di Lucas brillano.
- Racconta. –supplica.
Guardo le particelle di polvere danzare nel raggio di luce poco più in là.
- Una volta siamo andati al Luna Park. La mamma era incinta, non eri ancora nato. Volevo andare sulle montagne russe. Tutti i miei amici ci erano stati ed io non volevo essere da meno. La mamma non poteva salire, perché era incinta. E non voleva nemmeno che ci salissi io. Troppo pericoloso, diceva. Allora papà mi ha preso per mano e siamo andati insieme sulle montagne russe per bambini, ma non me ne sono mai accorta. Credevo fossero quelle alte. E ho avuto tanta paura, Lu. Ma papà mi ha stretto la mano tutto il tempo. Così poi sono tornata a scuola e ho raccontato a tutti di essere andata sulle montagne russe per i grandi, quando invece non era vero. –ridacchio.
Lucas sorride, ma poi si spegne.
- Se ne è andato per colpa mia? –chiede.
- No, certo che no! –esclamo abbracciandolo –Cosa ti salta in mente?
Lucas inizia a piangere, singhiozza. E, per un attimo, provo un odio omicida verso mio padre.
- Tranquillo, tesoro, tranquillo... –sussurro cullandolo.
Poco dopo si asciuga le guance con le maniche della felpa.
- Dici che posso usare il tuo ricordo su di me, per il tema? –chiede.
- Certo –sorrido –Vuoi vedere qualche altra fotografia?
Lucas annuisce e io giro pagina.

 
 
 ANGOLO AUTRICE:

Okay, eccomi qui di nuovo!
Ho pensato di pubblicare subit il secondo capitolo, dato che il primo era già presente in One Shot.
Abbiamo fatto un tuffo nel passato dei due protagonisti, quello rose e fiori di Oliver e quello più burrascoso di Rachele. Che ve ne pare? Sono credibili? Vi piacciono?
Ricordo che la storia è presente anche su Wattpad: 
https://www.wattpad.com/story/76525625-autobus-n-%C2%B0-3-la-storia-del-poeta-e-della
 
 ♦Ringrazio tutti coloro che leggono questa storia, la recensiscono o che l'hanno inserita tra le seguite/preferite/ricordate!♦

Un bacio,
emmegili

 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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