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Autore: callingonsatellites    28/06/2016    1 recensioni
L'aria fresca sulle braccia. Il sole che brucia negli occhi. Le gambe leggermente indolenzite, e una melodia sconosciuta che girava nella sua mente. Poi un forte dolore alla testa. E ora fissava quegli occhi color nocciola, e ogni domanda veniva annullata come se quei due pozzi scuri fossero l'unica cosa importante ed esistente, l'inizio e la fine di tutto.
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ladies and gentelmen, preparatevi al capitolo più lungo e depressivo del mondo. :*
-Buongiorno, bella addormentata!
 
Kim aprì gli occhi su un soffitto dipinto di bianco. No. Non poteva essere. Non ancora: si alzò di scatto sussultando.
Si guardò in fretta intorno … no, era a casa dei gemelli. Nel salotto per la precisione, su uno scomodo divano schizzato di vodka alla pesca. Rimase qualche istante a fissare la macchia.
 
-Eh, ehh … scusa, dobbiamo finire di dare una pulita. Non me ne ero accorto- si scusò Tom ridendo. Sembrava ancora brillo dalla sera prima.
 
-Ma … i miei sanno che sono qui, vero?- chiese Kim decidendo di non commentare.
 
-Certo!- esclamò il chitarrista. –Georg ha chiamato tua madre. Sembra che le stia simpatico. Mica lo conoscevi?
 
-Oh … beh, è una lunga storia- rispose senza pensare troppo a ciò che diceva, continuando a guardarsi mesta intorno. Per un attimo le era venuta la sensazione di trovarsi di nuovo sul letto d’ospedale, chissà perché poi. Scosse la testa: colpa dell’alcol.
 Un paio di altri ragazzi erano distesi scompostamente su qualche divano, o rannicchiati su un tavolo. Ronfavano come orsi con la broncopolmonite, stringendo spasmodicamente qualche bottiglia semivuota di qualche alcolico colorato.
A stonare con la scena, c’era Tom, con il grembiule a fiorellini  e i guanti di gomma, che spazzava il pavimento fischiettando. Kim scosse la testa. Probabilmente stava ancora sognando, forse aveva ragione a preoccuparsi, ad avere paura di svegliarsi in ospedale. Forse era effettivamente tutta una grandissima pippa mentale inventata dalla sua mente ammaccata durante un lungo periodo di coma. Magari in quel momento c’erano i suoi che la fissavano dalla finestrella della porta del reparto nello squallido ospedale a Liverpool.
NO, per la miseria, doveva smettere di farsi questi pensieri. Kim Wendell era ben che sveglia, viveva a Magdeburgo e conosceva personalmente i Tokio Hotel, era stata ad un loro concerto e poi alla loro festa, aveva bevuto qualcosa e si era svegliata su un divano sporco di vodka. Ecco tutto.
 
-Dove sono gli altri?- chiese.
 
-Geo è di sopra a dormire. Sul mio letto- rispose Tom con una smorfia di disappunto. –Gustav credo stia facendo il giro del giardino per vedere se è rimasto qualche ubriacone nascosto nei cespugli.
 
-…ah. E tuo fratello?
 
Tom raddrizzò la schiena, appoggiando il manico della scopa al brodo del tavolo. –A dire il vero non ne ho idea. Forse è in camera sua. Sapevi che vi eravate addormentati sul tetto?
 
-Uhm, sì. Me lo ricordo.
 
Tom sogghignò. –Non è un po’ scomodo?
 
Kim lo guardò come si guarda un pesce marcio che ti sorride da dentro il secchio della spazzatura. –Fatti i cavoli tuoi. Non ti sei portato nessuno a letto ieri sera?
 
-Vuoi dire “nessuna”. Cambia, sai?
 
-Per quel che ne so tu potresti fotterti chiunque.
 
-Ha, ha, grazie. Comunque sì, anche se adesso non mi ricordo chi fosse- disse la Bella Lavanderina, riprendendo a spazzare il pavimento.
 
Kim si alzò e raggiunse le scale senza fare rumore. Poi si ricordò che in tutta quella bisboccia ci si era fiondata assieme ad altre due persone. Si voltò e richiese a Tom:
-Hai idea di dove siano le due ragazze che erano con me?
 
Quello si grattò la testa con un’espressione buffa. –Boh. La rossa si era addormentata sotto un tavolo, ma poi mi sembra che si fosse svegliata e che se ne fosse andata. L’altra non ne ho idea.
 
Kim fece una smorfia di disappunto, sia per la disinformazione del chitarrista che per l’idea che Joey se ne fosse andata senza avvisare. Ma non era il caso di credere a lui. Non sembrava granché affidabile quella mattina. –Grazie comunque. Le chiamerò dopo.
 
Salì le scale fino al piano di sopra, e girovagò per un po’ nel corridoio, chiedendosi che porta aprire. Alla fine, dopo aver esaminato le varie possibilità, optò per una porta in un angolo a sinistra, con un grande cartello nero che diceva “CAMERA DI BILL E TOM” scritto in brillantini argento e decorato con disegnini che una scimmia neonata disgrafia avrebbe fatto meglio.
 
-C’è nessuno?- sussurrò aprendo la porta. Sbirciò dentro, in effetti c’erano due persone. Una era Georg, disteso al contrario sul letto di Tom –o almeno quello che, secondo i suoi istinti da Sherlock Holmes, poteva essere il letto di Tom- che stringeva un peluche a forma di bulldog–a grandezza naturale. E dormiva. L’altra era una figura indeterminata, arrotolata in mezzo a qualche decina di coperte sull’altro letto, che a giudicare dai braccialetti appesi alla testiera e alle varie foto con Avril Lavigne doveva appartenere al vocalist.
Provò  a chiamarlo.
Nessuno rispose, così Kim si avvicinò al grumo di coperte e lo scosse piano.
 
-Bill- chiamò piano. –Hey, Bill- chiamò più forte, e una voce mugolò che non era lui.
 
-Chi sei allora?- chiese Kim scettica. A quelle parole, una ragazza dai capelli verde lime mise la testa fuori dalle coperte, ringhiando.
 
-Mi chiamo Dalilah. Bill è sotto il letto.
 
Kim la guardò perplessa. –Come mai, scusa?- ‘E tu cosa ci fai qui?’ stava per chiederle, ma pensando che anche lei stava dormendo su un divano a casa di altri fino a poco prima decise che non era il caso.
 
-Perché si era addormentato sopra di me. Io mi sono mossa e lui è rotolato giù dal letto- spiegò, chiara e circoncisa Dalilah, richiudendosi a mo’ di crisalide con le coperte, come a dire ‘E questo è tutto’.
 
Kim controllò sotto il letto. In effetti, qualcuno c’era.
 
-Bill?- sussurrò punzecchiando la figura con un dito, come fanno i bambini curiosi con i ricci sotto la siepe.
Si complimentò con sé stessa per la similitudine Bill-riccio. Ha, haha, haha. Davvero molto azzeccato.
 
-Mmmmgh. Sìììì?- si lagnò la figura. Sì, evidentemente questa volta aveva azzeccato.
 
-Sono io. Kim.
 
-Uh?- si girò di scatto, sbattendo la testa sulle assi del letto. –Ahu!
 
-Stai attento, per la miseria. Vieni fuori, non credo tu stia granché comodo là sotto.
 
Il cantante rotolò stancamente fuori, e cacciò un urletto quando venne investito dalla luce del sole.
-Aaaagh … dov’è mio fratello?- disse, coprendosi gli occhi con una mano. A quel punto mancava solo che iniziasse ad incenerirsi, e poi l’effetto Dracula sarebbe stato completo. Seriamente, non aveva per nulla un bell’aspetto. Era bianco come un cencio, gli occhioni da panda erano ornati da due abbondanti occhiaie di una brutta sfumatura di viola, ed era tutto rannicchiato su sé stesso.
Decise di non farci caso per non allarmarlo troppo. Probabilmente nemmeno lei aveva una bella cera.
 
-Di sotto che fa la bella lavanderina.
 
-Ah.
 
-Perché eri là sotto?
 
-Non lo so. Mi era sembrato di essermi addormentato fuori. Non mi ricordo dove. Poi mi sono svegliato … ma dov’ero di preciso?- si chiese, girandosi all’indietro.
 
-Eri sotto il tuo letto.
 
-Ah. Bene. Fantastico. Ero proprio fatto, allora- affermò sbrigativo. Dura nascondere la verità, che non era affatto … proprio fatto. Cioè, non così tanto. Si ricordava esattamente come era finito sotto il suo letto, e come era troppo debole per alzarsi e prendere possesso del proprio letto. E si ricordava esattamente anche quello che era successo la sera prima. Quello che le aveva detto, e quello che non le aveva detto. E gli sembrava tutto terribile, impronunciabile, blasfemo. Sperava se ne fosse dimenticata, quindi cercava solo di non risollevare l’argomento. Anche perché non era bello pensarci. Gli faceva male, perché non era bravo a nascondere le bugie, non gli piaceva per niente. Soprattutto quando si trattava dei dilemmi nella sua testa, quando non aveva un Georg incurante a cui raccontarli, un Tom disposto a dargli un abbraccio o anche solo un foglio dove poter scrivere qualcosa. Una canzone. Li risolveva così, i problemi. Gran parte degli sfoghi personali del povero essere che Bill Kaulitz si ritrovava a dover impersonare finivano in rime, per poi essere abbandonati in un cassetto vicino ad una cintura nera ornata di borchie o sotto lo specchietto di una confezione di ombretto.
 
-Posso vedere mio fratello?
 
-E chi te lo vieta? È di sotto- rispose Kim sorridendo. Bill si alzò in piedi. Lei sorrideva sempre. Lei non si scolava bottiglie intere per dimenticare la delusione di essere dimenticato. Non ne aveva bisogno, si sorprese a pensare, amaramente. Lei era … felice? Boh. Bill non lo sapeva. Sapeva solo che lei era una persona ‘pulita’. Lui no. Per niente.
 
-Tom?- chiamò, una volta arrivato di sotto.
 
Gli rispose un fischio allegro, anche troppo allegro. Poco dopo, il Bel Lavanderino fece la sua comparsa trionfale dinanzi al gemello, continuando a raccogliere bicchieri di plastica dai poveri resti del tappeto.
 
-Ma dove la trovi l’energia per fare cose del genere la mattina presto?- commentò Kim, spuntata da dietro il vocalist.
 
-Su di lui il caffè doppio ha un effetto … doppiamente prolungato. Per i prossimi due giorni non chiuderà occhio e saltellerà di qua e di là cantando come un idiota. Giusto, Tom?
 
Tom annuì allegramente.
 
-Visto? E’ anche diventato momentaneamente scemo. Vero Tom?
 
Tom annuì di nuovo.
 
-Puoi chiedergli quello che vuoi  e lui lo fa. Una volta è perfino venuto a fare shopping con me. E mi ha portato tutte le borse senza lamentarsi. Anzi, era pure felice di fare lo schiavo.
 
-Wow. Farebbe comodo a casa mia.
 
-Già.
 
Bill era piuttosto malmesso, non solo esteticamente, Kim se n’era accorta. Voleva chiedergli cosa ci fosse che non andava, ma qualcosa le diceva che non gli avrebbe fatto piacere la domanda, quindi se la tenne per sé.
 
-Ragazzi, io … meglio se per il momento vado a fare un salto a casa, giusto per avvisare mia madre che sono ancora viva, sapete…- disse invece, piano. Si sentiva in colpa a mollare i gemelli, Bill in particolare. Anche se non aveva la minima idea di cosa potesse fare per lui, sentiva il bisogno di stargli accanto, finché non sarebbe tornato di un colore normale e un umore decente.
 
-Certo, fai con comodo!- urlò Tom, come se se ne fosse già andata e fosse fuori dalla porta.
Almeno c’era lui a fare la nota comica nel quadretto squallido e strano che era quella bella casa, vuota e in completo disordine, con qualche povero soldato caduto che non si era ancora ripreso.
Mentre si avvicinava alla porta, dove sperava che fosse ancora la sua felpa, e quindi anche le sue chiavi per tornare a casa –la sua autostima le impediva seriamente di tornare da Albert a farsi dare un’altra copia delle chiavi di casa. Insomma, un criminaloide come lui non poteva avere più considerazione di lei su cose del genere. Anche se era di sicuro più organizzato.
Ringraziando la Madonna per i suoi miracoli, la felpa era ancora lì, quindi … poteva andare? Poteva sul serio lasciare quella festa finita, quel ‘luogo del delitto’ con i suoi due criminali rimasti in piedi più o meno coscienti, a guardarla, lei, testimone pericolosa del crimine compiuto quella notte?
Scosse la testa in modo impercettibile: a quel punto era proprio giunta al limite con le fantasie mentali. Meglio andare a farsi un’aspirina subito e non pensarci più. Tanto sarebbe sicuramente tornata, nel pomeriggio; insomma, con tutta la buona volontà che Tom poteva avere non sarebbe mai riuscito a sistemare quel bordello in un giorno da solo, con quel fantasma di suo fratello che lo fissava lavorare.
Si morse la lingua. Era inutile nasconderselo, Bill non stava bene. Qualcosa lo assillava.
 
-Beh, allora … io vado. Ci vediamo dopo, vi giuro che torno- salutò, cercando di essere spiritosa. I gemelli le sorrisero, chi più chi meno, poi lei infilò la porta e tutto sparì dietro al pannello di legno scuro. Con i sensi di colpa quasi ingiustificati che le rodevano l’anima dentro, ma riuscì a lasciare quella scena del crimine.
 
#
 
-Sono a casa- gridò spalancando la porta. Adesso la mamma avrebbe iniziato a fare storie, e meno male che Georg l’aveva chiamata altrimenti sarebbe stata giustiziata sul posto.
 
-Oh, buongiorno! Pensavo non avresti più fatto ritorno- borbottò Karen spuntando dalla cucina. –Dimmi un po’, ti sei divertita?- chiese, sarcastica.
 
-Sì mamma. Grazie ciao- concluse sbrigativa Kim rinchiudendosi in camera e lasciando la madre in piedi in mezzo alla cucina come uno stoccafisso, dato che non aveva nessuna voglia di rispondere ad un sacco di domande inutili; perché viva lo era, a casa ci era tornata, e quindi non c’era bisogno di sapere altro.
 
‘Bene, ora i miei progetti sono: dormire, dormire e mangiare. E poi dormire, e poi tornare a fare un salto dai raga. Perfetto, direi’, pensò, buttandosi sul letto senza preoccuparsi di togliersi i vestiti.
 
#
 
-Kim.
 
-Kiiiiiimmm.
 
-Figlia ignobile, alzati! Io e tuo padre abbiamo due cose da dirti.
 
-Uffa. Arrivo, mamma.
 
Si alzò, borbottando contrariata dato che l’avevano interrotta nel bel mezzo di un piacevole sogno popolato da folletti verdi e zucchero filato a fiumi, prevedendo la solita ramanzina del cavolo. Ma quando arrivò al tavolo della cucina, lei e tutti i suoi folletti immaginari, dove i suoi la aspettavano, qualcosa le disse che non era proprio di quello che dovevano parlare.
Papà era seduto a capotavola, con un’espressione a metà tra il sapere di star per dire qualcosa di fantastico e l’essere coscienti che forse qualcuno non la prenderà bene. Nella sua testa si accese la spia d’emergenza.
La mamma, invece, stava in piedi con le mani sui fianchi, con l’aria di non avere troppo tempo da perdere.
 
-Tesoro …  -iniziò papà.
 
-Ssssì? … -fece incerta Kim.
 
-Gli uffici sono stati messi in sicurezza e resi riutilizzabili.
 
-Quali uffici, papà?- chiese, innocente. Qualcosa le diceva che non le avrebbe fatto piacere la risposta.
 
-L’ufficio dove tuo padre lavorava a Liverpool- specificò Karen, alzando gli occhi al cielo, come se fosse più che ovvio.
 
-… e con ciò?
 
-Ma come, piccola? Non ci sei arrivata?
 
-Beh, NO a quanto pare- iniziava ad essere sinceramente nervosa.
 
-Torniamo a casa!
 
#
 
-…. Come, scusa?- a quel punto la sua voce si era fatta sottile sottile.
 
-L’ho detto! Finalmente possiamo lasciare questo buco di birraioli incomprensibili e tornare a Liverpool! Non sei contenta?
 
Suo padre era davvero entusiasta, e anche la mamma sorrideva anche se cercava di nasconderlo.
 
-No, papà. Non sono contenta- sussurrò alzandosi dalla sedia. –Io … ho degli amici, qui, adesso.
‘Io ho degli amici, in questo buco di birraioli. Sono andata ad una festa, ho fatto dei mesi di scuola. Ho conosciuto delle persone. Ho fatto e visto cose che voi non immaginereste. Sono diventata qualcuno, qualcuno che avevo perso in un incidente di cui non ricordo nulla, in questo buco di birraioli’ pensava.
 
-Ma laggiù ne avevi molti di più! E poi ci sono tutti i nostri parenti …
 
-Avevo, papà, avevo. Non mi ricordo un tubo della nostra vita a Liverpool. Ho solo vagamente presente di com’era casa nostra- l’immagine degli interni di un armadio, coperti di foto. -e di un paio di zie- il gusto di un sacco di torte quasi tutte uguali, e tende di pizzo ovunque. -; dei miei amici ricordo solo una voce sì e no- una telefonata da parte di una ragazza, che al momento aveva riconosciuto ma che ora non aveva presente. Che parole ripetitive, nella sua mente-!
 
-Beh, è l’occasione giusta per recuperare, no?
 
-NO, MALEDIZIONE!- scattò urlando. Stava esagerando, lo sapeva, lo sentiva in ogni cellula che si stava comportando da bambina. Ma non riusciva a impedirselo, il suo cervello aveva innescato il pilota automatico. –NON VOGLIO TORNARE LAGGIU’, NON CI VENGO!
 
-Calmati, stai avendo un comportamento da bambina- ora suo padre era diventato serio, e la fissava minaccioso da dietro gli occhiali lucidi e rettangolari da impiegato d’ufficio. Da uno stupido ufficio che poteva essere la ragione della sua rovina. –Ormai è deciso. A fine mese prenderemo l’aereo e ci lasceremo alle spalle Magdeburgo.
 
-Ma … !
 
-Ho già avvisato che lunedì tre marzo sarò seduto alla mia scrivania come lo sono stato per dieci anni, e così sarà- affermò deciso, alzandosi dal tavolo e lasciandola lì, con i capelli ancora spettinati dal sonno e la mente in confusione completa.
 
-Vuoi qualcosa da mangiare?- chiese premurosa la madre, era ormai mezzogiorno passato e lei non mangiava dalla sera prima.
 
Kim scosse piano la testa. In quel momento non era più una necessità primaria. La necessità era sapere che non avrebbe lasciato quel luogo, che il suo equilibrio mentale e quel filo di memoria costruita nel corso dei mesi non sarebbe andato a puttane.
-No. No, grazie, devo andare a dare una mano a … a Bill e Tom, a mettere a posto casa. Prenderò qualcosa per strada- mormorò, ancora incapace di connettere quello che le era appena stato detto. Ancora incapace di elaborare una strategia per fuggirvi.
 
Sua madre le disse qualcosa, ma nella sua testa non entrò. Prese le scarpe e il portafoglio e uscì senza pensare.
Arrivata fuori, prese una mountain bike abbandonata nel portabici da chissà quanto tempo, dove sapeva che l’avrebbe trovata, come al solito, e si fiondò in strada alla velocità della luce.
Poteva prendere un autobus, aveva ben due modi fra cui scegliere come salirci, ma le andava un giro in bicicletta.
Pedalava rapidamente, con una cuffietta nell’orecchio che cantava una canzone che non sentiva e l’altra che pendeva su un ginocchio; fissando i sassolini rotondi incatramati assieme di cui era formata la strada scorrere sotto le ruote.
Non sapeva dove stava andando.
Stava solo … andando.
Probabilmente stava infrangendo decine di regole stradali, ma non poteva permettersi di starci attenta. Il suo cervello andato in panna, gli ingranaggi fermi che non riescono a distruggere il pezzo di legno incastrato fra i denti delle route, non poteva permetterglielo.
Così, quando un clacson le fece alzare la testa di scatto, si ritrovò a dover scartare di colpo un’auto che le arrivava addosso, finendo in un agglomerato di cespugli e ferraglia, se pali della luce, cartelli o cosa non lo sapeva; ma di sicuro qualcosa di abbastanza duro da procurarle un gran dolore alla testa.
E lì fu bianco.
E in quel momento non c’erano le vecchiette che arrivavano di corsa e balbettavano preoccupate parole in tedesco, non c’erano passi affrettati dei passanti che accorrevano, non c’era il rumore delle ruote della bici che giravano a vuoto.
C’erano visi, visi che scorrevano come una pellicola in un triste cinema vuoto.
C’era il viso di Bill, che sorrideva di un sorriso finto di circostanza, bianco come la cera e stanco come se avesse lottato in eterno, che la osservava andare via stringendo in mano la sola promessa che l’avrebbe vista tornare. Che non l’avrebbe lasciato da solo.
Non sapeva niente, sapeva solo che doveva tornare e aiutare quel ragazzo. Chiedergli come stava. Che si doveva alzare e andare dall’unica cosa che in quel momento si ricordava, dall’unica cosa che tempo prima non aveva dimenticato.
Non vedeva e non sentiva.
Vedeva un solo volto, due soli occhi neri  e stanchi e tristi.
Le stavano facendo un sacco di domande, ma non poteva rispondere perché non sapeva niente.
Sentiva una voce suggerirle qualcosa: proveniva da un solo orecchio e gracchiava che era sola, e camminava sola sull’unica strada che avesse mai conosciuto, che forse un giorno qualcuno l’avrebbe trovata ma che per ora la sua ombra era l’unica che le camminava appresso sulla sua strada dei sogni distrutti.
Poi un’altra, voce nel suo cervello, che le diceva di alzarsi. Ma i comandi inviati al corpo non venivano ricevuti. I suoi arti ammaccati da soldato caduto non rispondevano.
 
‘Non di nuovo’ riuscì a comporre.
 
Poi fu buio.
 
 
Ci credete che questo capitolo depressivo l’ho scritto ascoltando i Green Day? No, sul serio, io non riesco a crederci. Mi chiedo ancora come la combinazione chimica sia possibile.
Ebbene, signori, siamo punto e a capo!! …
No, dai, tranquilli, non dovrete aspettarvi altri trenta capitoli. … inizio a pensare che le mie storie saranno sempre lunghissime, non so voi ma io non riesco a scrivere poco D: non mi riesce proprio. :P
Beeene, ora vado. Un bacione mega a tutti quelli che non si sono ancora stufati di me, in particolare alla Marty che segue questa storia dai tempi (sarà tipo un anno che sto scrivendo. Ma non vi siete stufati? XD Oddio, voi siete santi. Maiggod) eeeecciaio :*                Lisa^^
 
   
 
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